Tra i poeti più trascurati dalla critica del secondo novecento, Camillo Pennati mi ha entusiasmato sin da subito, da quando comprai, nei primi anni ottanta, Erosagonie (Einaudi 1973). L'influenza della sua poesia sulla mia è talmente radicata (agendo per via incoscia) che, senza rendermene conto, il titolo del mio ultimo libro, ricorda il suo Una distanza inseparabile (Einaudi 1998).
Afferma la quarta di copertina e si legge in rete (talvolta senza evidente consapevolezza) che quest'ultima sia la sua opera migliore. Io rimango fedele alla scrittura nervosa e ricca d'invenzioni di Erosagonie, dal quale vi propongo le seguenti poesie.
Per dire
Questa per dire semiesplosa pubescenza delle gemme
appena in verde tenerissimo di foglie al vertice
d'esili verghe di cespuglio, ancora rada l'erba
sulle zolle, più lenti gli alberi a coprirsene
così quanto a ammainarle e in estuari adesso
il ciclo che s'infiltra come mare d'un colore
rarefatto nubi solcandolo nel loro veleggiare
aperto o un branco di marosi che lo eclissano
in un gravitante libeccio.
Per dire d'un giorno d'aprile già dopo Pasqua,
bruna la terra d'una breve pioggia d'ore fa
filtrata a intenerirla, il lento colore dell'aria
che approssima la sera e adesso sosta raccolta
a questa chiara mancanza d'ombra, lucida
e profilata come incantata in un ricordo
che la isola. E di un gabbiano mentre
più in là la sorvola.
Inverno
Rimbalza un'ora di silenzio un pettirosso
con il suo richiamo, segna una dolce
fitta sul giardino, vive che non si cerca
nel significato in cui si esprime come il mistero
nell'onnipresenza dell'agguato, sopra
lo sghembo ramo adesso di un cespuglio, vicino
e separato entro la sua frazione d'infinito.
11 ciclo annuvolato in una patina di bianco
sporco come la neve dopo nevicato,
il gelido inoltrarsi del tramonto
lungo un imbarcadero che sembra barlumi
sul fondo di un giorno di luce breve
affondante nel buio.
Inverno di tronchi scuriti dall'umido
dell'aria che ne scarnifica i rami il cielo
invadendo deserto, verde di qualche
cespuglio a sembrare rinato ogni mattino
nel colore che affiora il sembiante specchiato.
Inverno rintanato dietro le finestre.
Le ore fuori. Le case vuote di chi
non è malato. Fissare il tuo continuo
lento movimento da vertigini come il sogno
che affiora alla memoria germinando.
Erba
Erba, tenera erba di lame verdi
in resistenza flessibile e certa, di steli
ritti e secchi al raso vento che oscillano
vertici o appena atterrando un insetto
nulla che l'inquieta oltre sé stesso né ombre
né movimento appresso. Erba dall'anima
verde e profonda morta a sembrare all'esterno
così prostrata così un groviglio di paglia
spettinata dall'ultimo vento intorno alla sua
morbidezza se dentro non l'accarezzi
segreta ad ogni aridità ad ogni gelo, non
alla pioggia che l'infradicia al sole che la gonfia.
Giungla all'insetto che la sfiora in transito
né sai se sbaglia quando sale al tuo vertice
si dondola annusa fa perno di qua dal vuoto
quasi precipitando, né come sia
in ritardo alla durata che l'uguaglia
sia in sosta sia accelerando, uguale sempre
al suo compiuto svolgersi. Erba
di fiori soltanto più piccoli. Erba di quando
la sera discende infiltrando e come una garza
turchina distende sul dorso dei prati
a sfumarli, un brivido che la sorprende
a toccarsi l'una sull'altra ondulando
il buio liquefarsi in quel coagulo
che lo districa un'alba.