domenica 12 settembre 2010

Filippo Davoli


Filippo Davòli, licenziando Come all'origine dell'aria (L'arcolaio 2010), ci consegna la propria vita nel momento di massima consapevolezza, nell'attimo in cui, guardandosi indietro, ha finalmente trovato il nome che tenga insieme biografia e archetipo. Seguendo il polemos eracliteo, secondo cui la realtà non è che la concordia di opposte tensioni, e coniugandolo con motivazioni cristiane, Davoli chiama padre – sulla scorta di Christian Bobin (citato in epigrafe a "Gli incendi", la prima sezione, ed autore certo affine alla sensibilità di Filippo) – chi sa "porsi al servizio di ciò che accade senza pretendere di esserne il padrone", e chiama madre la carne stessa dell'amore, ogni essere capace di rendere vivo l'abbraccio del padre-madre originario, quel Dio diventato veramente uomo sul Calvario, ossia l'abbandonato, il derelitto, l'orfano capace di gridare la propria insopportabile condizione dai quattro cantoni del mondo, quella croce che tiene gli opposti e li rende promessa generante di ricongiunzione con il Principio. Le tre sezioni che compongono questo libro, trinitarie per vocazione, dicono tutta la fatica di Davoli, uomo di fede, per accudire i propri "figli" sans papier, giovani che si raccontano per momenti emblematici, con una strategia retorica non molto lontana da quella messa in atto da Fabiano Alborghetti ne L'opposta riva (LietoColle, 2006). Se tuttavia ad Alborghetti premeva anzitutto il risvolto sociologico, a Davoli interessa focalizzare il legame fra sé e ogni singola vita che professionalmente incontra, lavorando egli con gli immigrati. Così facendo, dà voce ad un cristianesimo attivo, manzoniano, speso tutto fra i deboli, che pone al centro, come scrive Andrea Ponso, la "relazione con l'alterità, con il suo dono e la concretezza anche quotidiana" (p. 84). Ecco dunque in che senso biografia ed archetipo s'incontrano. E lo stesso accade nella seconda sezione ("Tu che sai"), anche se l'urgenza biografica (l'essere stato abbandonato in culla), con la conseguente scissione originaria, che mette in primo piano il tentativo di un dialogo sia con la madre biologica (persa nel nulla) e sia con la madre adottiva, è inevitabilmente dominante. Eppure anche questa sezione è pervasa di religiosità, di quell'amore cui sopra accennavo e che qui si connota quasi di modulazioni mistiche, in un tu in cui le due madri si confondono, ombre luminose della Vergine Maria nella sua vita terrestre, tormentata. "Figure senza erbario", l'ultima parte di un libro che tiene insieme dieci anni di scrittura, è quella più scopertamente attraversata dalla preghiera, con versi francescani nell'attenzione a celebrare la natura benedetta, ma più introflessi ("la solitudine / ha bisogno di un canto sussurrato"). L'anaforico incipitario "Vorrei" non solo allinea questi ultimi testi nell'ambito del sacro, ma apre ad un desiderio tutto umano, legato alla funzione della poesia nel mondo, nell'auspicio che in esso le parole brucino "arse dentro l'amore". Ed è esattamente questo che si respira in Come all'origine dell'aria: la passione per una parola che sveli il soffio divino presente in ogni uomo, soffio di un Dio che è amore, dono, nell'accezione cristiana – ma anche, oserei direi, coerente con il piglio anticapitalistico di Jean Baudrillard, laddove questi lo intende come dissipazione dell'egocentrismo, realizzazione di sé attraverso il sacrificio della proprietà che il sé moderno presuppone.




da Gli incendi


Nudo. E la nudità che ti distingue
dagli altri crocifissi della Terra
è il sublime ed altissimo vedere
di chi scolpendoti nel legno rinunciava
a ogni cosa di sé. Non hai nemmeno
ferite, solo silenzio
che copre la superficie liscia, opaca
di chi ascolta.

Sei nudo internamente, come la vita
che il mistero compatta
negli iniqui dolori, nei percorsi
labili della notte. Soltanto nudo
e totalmente altro.


**

"Ignoro come è morta la gallina
e se nel taglio vivo della carne
chi tagliava pregava. Io non la mangio.
Tu abbracciami, però. Sento mia madre
nella tua calma, come nella conchiglia
il mare."

........................(Ahmed)



Quando il vento si posa oltre la notte
e un canto si solleva lungo i fiumi
tra le erbe non accolte
che dal ciglio di pietra, nell'alveo
che conduce, diresti
che tutto ha un senso,
anche il dolore, anche la morte
che accarezza quel ciglio, che lacrima
nei silenzi del fuoco. E appare
il bagliore dell'alba,
fraternità delle zolle, medesimo
sguardo alla luce, al vero.

La carta allora
torna ad aprirsi, un'orma
traccia il camminamento.
Ci interpella uno stesso fluire
oltre sterpaglie basse.


**

"Io una ragazza che ci prova lei
io non la voglio. Vorrei
trovare la medesima distanza
che taglia dentro e attende".

....................(Arben)



"Oggi mi chiamo Leo. Sono il più grande
calciatore esistente. Sono argentino.

E dopo Roushan il chiaro,
la luce e il vento - senti come suona
il riverbero scabro delle lettere?"

.....................(EsHaq)



Avrei voluto infilarti in uno schema,
cucirti di parole, renderti bello
per opera mia. Sentirmi intelligente
nel definirti. Mi sarebbe piaciuto
rendermi indipendente dal tuo Nome
oltre il pronunciamento. Sigillarti
in un concetto, in un pensiero aperto
che sembri dialogante.

La vita che non ha nulla di eccezionale
me la coltivo, dicevo, come un piccolo
orto discreto. Illuminazioni del dire
lo renderanno, ripetevo, unico.

Ma il tuo Nome ritorna in altri nomi
quando meno ti aspetto. Evocarti
è il tuo sangue che ancora circola in me.
Darti voce è incrociarti nelle cose.



da Tu che sai


Perché il cuore non è
l'ombra che si distende nel vento.
È piuttosto parola
(l'occhio apre la luce, dentro
scopre una malia inattesa, la conduce
per nebbie e profezie,
voce, destini).


..........................Non temere, vorrei dirti.


Non avere paura del tuo sentire,
ora che il freddo sembra spegnere il fiato
e il silenzio non preludere ad altro
che a una sciagura.



**

(era il vuoto a crearti, a crearmi per te.
Ti inventavo purché tu non apparissi.
Il desiderio era il gorgo dell'assenza.
Coltivavo così la nostra morte.)



**

Ti ricordava ancora la puerpera
che si ricorda di me quando dormivo
nelle tue sacche incolumi. Scoprivo
la bella tenerezza di chi cerca.
Parlava di una donna innamorata,
giovane bella e sola, maltrattata
da una madre assillata dal buon nome.
Mi avevi conservato nel silenzio
per paura di loro — e quanto avevi
ragione, se al mio dunque si levarono
indifferenti del tuo cuore di madre.

Ma il nome che salvarono è il mio sangue
che vive ancora. È il tuo segreto assillo
che viene per parola a dirti grazie.



**

Come vorrei che fossi tu
l'orma che spariglia la rena
e si apre un varco tra i muschi
tu la carezza pulita dei giorni
tu la salinità.

Nelle mani come colombe
inquiete e falangi di ferro
la tua bocca è un giaciglio di sonni.

Sono parole le pietre di casa
un albero colmo di rosso e del verde
dei ramarri assetati (perlustri l'aria
con la tua lente,
sezioni il cuore)

Fossi tu veramente
fossi davvero tu.



da Parole senza erbario


Dall'abisso sale la luce
di una terra minuscola

la Parola è una vastità di chiarori
nel farsi dell'aria,
per quelle scure cavità di vita
dove le ore si rivelano al loro doppio
e brillano sommerse in un loro fulgore
segreto.

Come all'origine dell'aria.



**

Vorrei che queste non fossero parole
ma un piccolo testamento del volere.
Non però assimilabile a un lasciarsi andare,
quanto piuttosto una più piena coscienza.
Come la rondine che sigilla il lascito
in un volo infinibile.



**

Vorrei giungere fino a lui, lasciarmi
sedurre fino agli atomi da lui.
Mi inchioda stretto a un dolore amoroso
quando mi tocca e fugge ed io precipito
ad occhi aperti, afferrato su me.
Eppure lui mi circonda di tenerezza
e le sue orme le vedo ancora, lo riconosco
perché la sua è una voce che non si dimentica
e il suo respiro batte caldo al corpo.
Vorrei carpirlo, ma non è questo. È invece
chiudermi gli occhi e aprirmi alla luce
inesausta del suo volo.



**

Vorrei che si capisse che è per grazia.
La pagina fu tramite fiorito
del respiro e non altro. Solamente
nell'alone del transito si illuminava.
Oltre e durante ci segnava un vento
che leviga le pietre, un'acqua dolce
che da forma alle cose.
Io lo dicevo come il dito indica.



Filippo Davòli è nato a Fermo nel 1965 e vive a Macerata, dove si occupa dell'integrazione di immigrati extracomunitari. Tra i libri si ricordano Alla luce della luce (1996 - Introduzione di Franco Loi), Un vizio di scrittura (1998) segnalato al Premio "Montale" 1999, Una bellissima storia (2000) finalista al Premio "Dario Bellezza" 2001, padano piceno (2003)), Gli incendi (2008) e Come all'origine dell'aria (2010). Ha inoltre pubblicato 14 solitari in 7 poeti del Premio Montale (Crocetti, 2002). E' compreso in antologie come La poesia delle Marche. Il Novecento (Il Lavoro editoriale, 1998, a cura di Guido Garufi), Il pensiero dominante (Garzanti, 2001), La voce che ci parla. Antologia di poesia europea contemporanea (Mantova, 2005, a cura di Alberto Cappi) e Trent'anni di poesia italiana e dintorni (Book, 2005, a cura di Alberto Bertoni). Direttore fino all'ultimo numero della rivista "Ciminiera", fondata con l'ispanista Giovanni Cara, è tradotto in Francia da Daniel Bellucci (Filippo Davoli. Cinquante poesies, Editions Bénévent, 2007).

6 commenti:

  1. Grazie, Stefano, di questo bellissimo dono che fai a Filippo e a me. Come sempre, sei incisivo e pertinente. Complimenti!!
    Gianf

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  2. Una poesiuccia banale, forse banalissima, non c'è che dire, non capisco come si possa buttare tanti soldi per stampare cosucce generazionali.
    Luigi

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  3. perché "generazionali"? ti pare che la stroncatura si possa fare così?

    che cosa è banale? il tema, il rigistro, la struttura retorica?

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  4. FORSE, PIU' SEMPLICEMENTE, E' BANALE IL COMMENTO. LA MI SCUSI, LUIGI. FORSE CI CONOSCIAMO, E PUO' ESSERE CHE LA STIMI ( I LUIGI CHE CONOSCO SONO TUTTI DA ME STIMATI).
    LIQUIDARE COSI' UN LIBRO NON MI PARE MODO DOCUMENTATO. OCCORREREBBE PORTARE PEZZE GIUSTIFICATIVE.
    CON NESSUN SENSO POLEMICO, MI CREDA.
    LA SALUTO CON CORDIALITA'
    GIANFRANCO

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  5. Non ho ancora letto questo lavoro, come invece ho fatto a lungo con Gli Incendi, sempre dell'Arcolaio di Fabbri (che saluto). Credo che ci sia una grossa differenza tra una poesia "semplice" ed una banale, che sta nella profondità degli argomenti trattati e nella capacità di evocazione. E secondo me la poesia di Filippo Davoli le possiede entrambe, ed il fatto di riuscire in ciò utilizzando a volte parole "semplici" io lo trovo un pregio e non un limite.

    Francesco t.

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  6. E' la prima volta che leggo i testi di Davoli, scoprendolo con piacere anche come mio conterraneo... Per capire quanto questa poesia non sia "banale" basterebbe fare un rapidissimo computo metrico: quasi sempre versi dispari, 9-11-13, che quando sono spezzati da enjambements ripiegano anche sul settenario. Una raffinata cura retorica, a levigare lo slancio religioso, emotivo, biografico, rendendo possibile il salto dal particolare al generale. Mi è piaciuto, poi, l'uso di un lessico di partenza semplice, ma innovato dalle scelte topologiche. Mi scuso l'assenza di esempi e quindi la vaghezza, ma l'ora si fa sentire :-)

    Michele

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