mercoledì 4 maggio 2011

Paolo Donini


Nel nuovissimo " Punto. Almanacco della poesia italiana. N. 1: 2009 – 2010" (Puntoacapo, 2011) potete leggere alcune mie recensioni. Posto su Blanc quella al gran bel libro di Paolo Donini




«Segna con una traccia rossa la prima pagina del libro, perché la ferita è invisibile al suo inizio»: così Jabes, nell'epigrafe al Libro delle interrogazioni; e così apre Paolo Donini il suo L'ablazione (La Vita Felice, 2010), con l'antefatto di un omicidio camuffato da suicidio, la cui soluzione viene via via oscurata, quanto più l'indagine si focalizza sul dettaglio, slegandolo dall'unità che tiene stretti i particolari al senso complessivo, a quella forza primeva di cui sono fatti i nomi e le cose. La ferita di cui ci parla Donini è quella prodotta dall'occidente, che ha separato l'ìperurano dal brulicare terrestre, creando gerarchie e dominio nel nome della verità, che s'irreggimenta nel metodo per il quieto vivere dei dominatori. Ablazione dice appunto il pericolo della parola escoriata, quand'essa è ridotta a utensile per riorganizzare lo spazio civile, così celando le tracce della sua origine sacra, e dunque violenta come «la buia / bestia in delirio nella strada», ma anche salvifica perché capace di indicare «la via [...] / da posare nel sospiro». La grazia selvatica che ancora si sente cantare nel silenzio della montagna e in quel «sospiro» pieno d'amore per la bellezza del creato, e non estraneo al sentire dantesco, è quanto ancora la parola poetica riesce a conservare delle origini, se si mantiene capace del «balzo che scavalca lieve» l'apparente frammentarietà del reale, per far proprio «l'ultimo varco nell'azzurro».

Il libro di Paolo Donini, in questo senso, va letto allegoricamente, tanto da identificare la donna trovata in «discarica» con la poesia stessa, secondo alcuni morta per necessità, essendo giunti, tutti noi, al «capolinea della Storia». Eppure l'autore non piega la testa e nemmeno adatta, in perdita, il proprio dialogo con la grande tradizione ontologica (da Hölderlin a Rilke, da Montale a Celan), ma sceglie invece la voce che meglio risalti all'interno di un'apertura epocale in cui il fondamento è roso alla radice come da una «talpa», e la superficie del mondo – «nei giardini esattamente suddivisi / nei lotti delle proprietà [...] / nell'aritmetica educata delle siepi» – è battuta da un vento senza pace. E che tutto non sia che linguaggio, lo dice diffusamente il libro, sino all'espressione decisiva, secondo cui vivere spaesati significa esser «recisi / da ogni etimologia».

Ablazione, tuttavia, significa anche asportare il superfluo, levigare sino all'essenza, come fanno i monaci (non rari sono infatti i richiami alla disciplina conventuale, spesso colta nell'emblema della «ciotola», già forte in Incipitaria, il suo precedente volume) e come mostra lo stile di Donini, che – movendosi sul solco montaliano, tra gli Ossi e le Occasioni, ed avendo assimilato la lezione tragica del suo maestro De Angelis, cui dobbiamo la rigorosissima «presentazione» – orchestra tappeti sonori in cui la non rara rima baciata trova così frequenti controcanti da opacizzarsi, per una più felice armonizzazione antiretorica, pur nell'inequivocabile intento lirico-sapienzale. Il verso lungo sostiene questo obiettivo, scandito da incisi che costringono a rallentare la corsa, creando tensione ed avvicinando all'endecasillabo il metro proprio di questo bel libro.



(da Antefatto)



Nella discarica dove fu trovata, seguire
i lampi di sole fin dove sopra chiazze di plastica bruciata
è ricresciuta l’erba -
.................................c’è chi dice
che l’intera area circondariale, devastata e come intristita
dal pulviscolo dell’inceneritore
ritornerà limpida e verde
e grandi scheletri di ferro arrugginito,
rifiuti ingombranti, sbucheranno
dal folto come rovine –
...........................ma anche questo
non cancellerebbe le finissime tracce di reato
particelle nell’aria – nella mente – le quattro
impronte sull’argine, dalla parte del prato
dove si avviò la fuga, segno che lì si è difesa
e poi si è chinata, ha tentato –
....................e il punto, un grumo nell’erba, dove tutto
si risolse iniquamente, un colpo alle spalle, un foro minuscolo, simulando
un atto volontario e altri dettagli, inezie apparenti, indizi
sparsi ad arte per credere e far credere
una morte sola, irrelata, a un presunto
capolinea della Storia, persino necessaria.



**

Sono state trovate
alcune ombre sul selciato, contenitori
simili a scatole portalettere – si opinò – travolti dal sole
nel riverbero delle pozzanghere, effetti personali
chiaramente femminili, sebbene sottoposti
a un certa, serena brutalità, una pratica – si disse poi –
devota ma sommaria, l’astuccio
risultò contenere il largo sorriso criptato, l’impronta
che gli inquirenti ricondussero
dopo esame comparato a un indice puntato
su tutte le cose, in assenza di disprezzo, così che
anche tutto quel sangue attorno – sugli alberi
sui passanti sul sole – quella bestialità
fin lì latente, i riscontri
più banali e abbietti del linciaggio
conservavano ancora su di lei
qualcosa di alto e come divertito.



**

Eppure capisco il livido
rivedo il colpo, la salma
buttata nell’arenile, coperta
di terra, i capelli strappati, l’unghiata
nella mente privata di simbolo, l’impronta
sul volto dove si è spezzato l’alfabeto.




(da Solitudine del bene I)



Ritrovare la via, il ciottolo piatto, placca
da posare nel sospiro: il tuo nome
dato a noi e tolto
nello sparso e muto dominio delle cose –
vaghiamo senza voce, persa
ogni casa, la patria
e il paesino sul labbro, e tutto
ci minaccia, ci ammonisce senza dire, tutto
va a significare scandendosi
sul sangue altrui, specchio nelle ferite, pronto
a essere aperto nella tenebra della violazione, sillaba
rossa caduta dalla bocca
sulle mani di tutti, lettera
che vengo a imbrattare di notte
sulla vasca del battesimo spezzato.


**


Può essere che non ci sia più una via
diversa e la ferita sulla tempia
si sia semplicemente aperta e sia iniziato
il tempo di un canto basso
come il volo degli uccelli delle mani
radente sulle cose del tavolo –
............o un tempo,
altro tempo, pure insista qui
a notte alta in piedi nella cucina simbolica
a chiedere cos’è quel pezzo di pane sempre
intatto sul piatto del discorso, quel tozzo
di luce e come ha potuto resistere
davanti a tutto e perché
non ha mai dato
voce ad una sola sera.




(da Il nemico davanti)



Fin dall’origine quando hai interpellato –
me o uno come me – non c’era differenza,
prima o poi ci siamo
trovati di fronte, ci siamo guardati
e lì sotto gli occhi, a un palmo dalla violenza
una differenza, una minima sparente differenza

era questa parola da guastatore
fra me e te, interrotta sui sassi dalle raffiche
fratturata nelle botte, chiazzata di sangue, era
questo colpo preso, per sempre, il corpo
nel fosso e poi l’iniquità, la congettura moltiplicata
attorno al campo sterrato, al solco di pneumatico
alla gonna stracciata, al sesso riempito di sabbia.

Mi alzo ancora, vengo fin qui dove comincia
la cosa pubblica.



(da Solitudine del bene II)



Chiamano, da una mano all’altra
da tempia a tempia fischiano il segnale, bisbigliano
la parola che apre ancora
lo stolido persistere del male – rigagnolo di luce
nel fosso nello scolatoio
dove il giorno di tutti
si lava di tutto e una mano
rimane realmente nuda
senza avere sfiorato l’essere
per tutta la vita –
.........................chiamano,
ma l’albero delle sere non era lì per intendere
la querela di una vittima sfinita
solo per accennare
che altro dalla vita
è il discorso della vita e occorreva
.....................una scelta giovane esposta
davanti al crocicchio dove sta
inchiodata la vitrea cognizione dell’intelletto
che ammira un fiore nel campo senza carpirlo.



(da L’ablazione)



Fu trovata qui ma prima, dissero
l’hanno spostata, si vedono – non vedi? –
le tracce del trascinamento
(suole, pneumatici, alterato tutto).

Uno o più di uno, certamente – molti –
vari indizi – una violenza rivoltante – fanno così -
è così che si fanno queste cose – eppure
l’albero stormiva, c’era nella cucina
allegria di essere a casa – è così che si fanno
sparire – dettagli, prove – non resta –
sui visi – niente – nei sorrisi –
cordialmente perde spessore
l’entità enorme della sottrazione:
l’ablazione – là sui giardini
del quartiere, la fauce azzurra delle sere –

nessuno ricorda, non ricorda più –
accadde dietro al cantiere
dalla parte della fabbrica – oggi un ipermercato –
la trovarono là,

ore e ore – si dice – e aveva ancora
una vocale sulle labbra, una sillaba
rossa livida dove era stata – la voce –
la rosa della bocca.




**


Tu muori nel tuo simbolo, ti spezzi
nella bocca e cadi nella lingua deserta, il tuo
ciottolo riluce di lontano – a volte
in queste notti della specie, l’antico
osso sillabico risplende improvviso
sull’orizzonte basso, tra la fumea dei roghi:
l’anca della voce, il segno che tu ritorni, o disconosciuta,
e sei fra noi come un pane dato, sprecato nelle tetre fami – verrà
la peste che ti ha maculata, la febbre che arse
la fronte spianata del vocabolo, se ne andrà
la lebbra nell’acqua della fonte, il fango dagli orci,
la melma nel riso, il buio dalla fronte.



**


Il filo della connessione è uscito
per le strade stamattina, inanella
poche foglie, rimasugli, cicche, dove
.......................è stato trascinato il corpo
lascia sempre qualcosa per terra, erba
piegata là, dalla parte delle reti, una pista
nel sangue ma soprattutto, vedi, la riga di lettura
...............benché sghemba, seguila, per quanto tremi
l’ultima calligrafia dalla mano legata, gonfia
dietro la schiena, leggila fin dove
unisce strettamente ai colpi
la bocca che ancora ci parla.




(da Saltatrice)



Hai lanciato qualcosa dall’altra parte,
oltre il reticolato con questo
colpo a segno, una prodezza da battitore
passa il muro, dritto tra le garitte – alla luce
dei riflettori abbiamo visto di notte
il pacchetto brillare un istante sul ripiano salvato
della destinazione –
......................quello che doveva sottrarsi
è stato portato via in tempo, anche se ora
in maniche di camicia nel bianco
si gela: ma una sera riavremo
i cappotti, la scatola con la fotografia, gli orizzonti
personali, la prima sigaretta libera e per cena
con gli avanzi dell’episteme, tutta la nostra preparazione:
.......................lasceremo sullo sgabello
l’orologio da poco, gli spiccioli, andremo a dormire
nel beneficio di essere stati fedeli, ci sveglieremo
presto, faremo penzolare
oltreconfine i piedi, là dove era
il fondamento e ci alzeremo prima delle cose,
........................quando si tratta di vivere, amici,
sui cornicioni del mondo, quando si tratta solo di non cadere.

9 commenti:

  1. margherita ealla5/5/11 18:50

    Complimenti gugl per le recensioni
    e grazie anche per questa tua gran bella al “gran bel libro di Donini”.

    Mi sembra che qui nel post si parli di ablazione come azione che si va facendo di rimozione,  anche delle prove,  “le finissime tracce di reato”), anche di un passato che si dà improprio (prima ancora che disperso) o nel darsi già al «capolinea della Storia», tanto che “Ritrovare la via” -  “ “Può essere che non ci sia più una via /diversa e la ferita sulla tempia/
    si sia semplicemente aperta e sia iniziato/il tempo di un canto basso”),
     
    e allo stesso tempo, come azione di erosione, se non dissipazione del “nostro” corpo celeste iniziale(verità-luce e verbo-voce), non solo per attrito di caduta, ma soprattutto per erosione che si innesta su quella  ferita, messa benissimamente (ops :) ) in evidenza da te gugl:
    “ La ferita di cui ci parla Donini è quella prodotta dall'occidente, che ha separato l'ìperurano dal brulicare terrestre, creando gerarchie e dominio nel nome della verità, che s'irreggimenta nel metodo per il quieto vivere dei dominatori”, ferita che è anche di parola-bocca continuamente rossa
     
    Cmq, appunto queste poesie dicono più quello che è intorno, o è stato o si è prefigurato-intercettato, rispetto al “corpo” che va per essere o è stato ablato,
    infatti vanno via via dicendo quel “qualcosa” lasciato per terra, come indizio o scoria o traccia anche muta:
     
    “dove/è stato trascinato il corpo / lascia sempre qualcosa per terra,”
     
    i trattini gli incisi, come dici tu “costringono a rallentare la corsa” e fermano, racchiudendo, la dispersione-dissipazione anche nella e della forma, che contiene pertanto ancora elementi che si riprendono (per esempio in certe parti , le immagini si elencano, richiamandosi si stringono, fanno attrito alla loro riduzione

    Ciao.

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  2. ottimo! anzi: eccellente.

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  3. Non conoscevo la poesia di Paolo Donini e quindi ringrazio Stefano
    per questa proposta. Trovo la poetica di Paolo, molto personale,
    diversa, nei modi e nei temi.
    Preziosa anche la presentazione di Stefano, che mi ha aperto alla lettura "allegorica" dei testi.
    Spero si aggiungano presto anche altri commenti a questo autore davvero interessante e naturalmente,sono anche curioso di leggere le eventuali risposte di Paolo. A lui, i miei complimenti,e l'intenzione di aggiungere il suo libro ai miei.
    vincenzo celli

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  4. Grazie a Stefano e ai vostri interventi.
    Questo libro non ha differito uccisione simbolica, culturale
    da omicidio concreto. Essere braccati, essere colpiti nel cuore
    della lingua è sempre questione di possibile omicidio
    – solo una coordinata nella Storia fa slittare tutto questo sul piano
    della bonomia o della strage. Riconosco per strada le facce e
    le scelte di chi pesta l’alfabeto e quindi
    potrebbe dar corso al rogo;
    credo che questo testo riguardi non ciò che sta avvenendo
    ma ciò che è avvenuto. La poesia deve mettere le mani nella ferita
    eppure restare canto, e resta canto quando sente biograficamente
    la gravità della perdita – ciò che non possiamo
    essere, in questo (unico) momento - indica a denti stretti
    la nostalgia del mondo ma anche la felicità inevitabile, biologica,
    (quella che è stata di Rimbaud. "nessuno la elude"), così c’è il corpo
    “insepolto” – come ha scritto splendidamente Sebastiano Aglieco –
    ma c’è anche un salto, un mero colpo di reni (nell’ultima sezione) che non vuole consolazione
    ma ammette e si prende una fiducia, irrazionale fin che si vuole,
    ma efficace come schivare qualcosa, nella rinascita di ogni lettera
    in ogni sguardo rimasto chiaro, irriducibilità della bellezza
    che non appartiene al soggetto, forza e pazienza, sorriso nel baratro,
    luce della sera, rimuginio continuo, irrisione, amicizia.
    Grazie ancora alla lettura esatta di Margherita, all'apprezzamento di Vincenzo.
    Paolo

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  5. gran bei testi, dovrò procurarmi il libro. grazie a Stefano per la recensione e la proposta,

    fabio teti

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  6. grazie.

    gugl

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  7. Cari amici,
    solo ora sono riuscito a connetter-
    mi con questa pagina: giovedì scorso
    c'era qualche problema nel terminale
    che mi impediva di entrare.
    Eccellente recensione di un libro
    che pur senza far 'gridare' il si-
    gnificante, sa ricondurci nei 'luoghi'
    aspri, ctonii, dove qualcosa di
    grave è accaduto.
    Il poeta si chiede se sia ancora possibile una riparazione (l'Abla-
    zione), quando la terapia stessa,
    la parola, è 'corpo' del reato, ma
    anche sospettata di essere 'arma'
    del delitto. Per contrappunto, con-
    siglio anche la lettura della 'sa-
    ga' poetica di Gio Ferri "L'as-
    sassinio del poeta" (Anterem Edi-
    zioni).
    Concordo con Stefano sul commento di Margherita. Preziozo l'interven-
    to di Paolo. Un caro saluto,
    Armando Bertollo

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  8. mah! lascia un po' a desiderare

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  9. la poesia lascia desiderare...

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