lunedì 29 giugno 2009

Ivan Fedeli



Uscito qualche mese fa per puntoacapo editrice, nella collana Format, la più prestigiosa, Teatro naturale di Ivan Fedeli colpisce anzitutto per la scelta del doppio endecasillabo, assai rara nella tradizione nostrana. Ne troviamo traccia in Pagliarani (Narcissus pseudonarcissus e ne La ragazza Carla) e, più vicini a noi, in Gabriele Pepe (cfr. Di corpi franti e scampoli d'amore, libro lietocolliano di cui ha scritto lo stesso Fedeli). Il metro snodato consente al poeta monzese di sviluppare differenti registri, facendoli convivere complessivamente in una prosodia cantabile, in cui innumerevoli personaggi (tendenzialmente pirandelliani) "hanno dentro un po’ di noi, nessuno escluso. [Essi] cercano di resistere al mondo, forse per poco, però parlano, lasciano una traccia" (Fedeli, in Lapoesiaelospirito del 19/03/09). Il punto di vista, venato da pietas, è quello dell'autore, che – come scrive Mauro Ferrari nell'ultimo numero de "La Mosca di Milano" – vira in "commedia" una materia essenzialmente tragica, consapevole che "tutto è un gioco". Un gioco crudele, naturalmente, governato un poco dal destino e un poco dalla mediocrità valoriale del contesto, degradato per eccesso di presunzione e vanità. La Milano da bere ha insomma digerito e sputato i suoi figli, eppure loro sopravvivono ancorati a dettagli privati: memorie delle piccole cose di pessimo gusto postmoderno, come le figurine Panini, e minuscoli fatti, senza importanza per la storia universale, ma per loro vitali, nel ribadire con insistenza: ho vissuto, io c'ero. Modelli lombardi potrebbero essere Giampiero Neri e Tiziano Rossi, in specie il Rossi di Gente di corsa. Ma anche Iannacci si trova in queste canzoni popolari, e, forse, il ritmo leggero del signor Bonaventura, con le sue rime facili ed il finale azzurro (o quasi).




Dal balcone

Amava il vento e i giorni a cielo pieno Attilla stesi i panni sul balcone
e voci che conosci dalla faccia di sotto tutte insieme a fare razza.
«Invento una canzone e poi la canto per chi si spinge avanti scomparendo;
in alto si sta meglio, vedi il mondo, un pezzo sempre in forse d'orizzonte.
Chissà quando si arriva dopo al punto». Chiamava i nomi a caso per capire
se c'erano gli sguardi coi cappelli o un popolo di piedi lì a morire
in cerca di una pioggia per gli ombrelli. «Le vedi teste e scarpe in una gara
a scomparire in fretta, darsi al niente: la donna con il seno ben rifatto
felice della nuova permanente, il vigile in divisa, la paletta,
il giovane di un tempo in bicicletta. La vita ben compressa in un istante».
Lanciava fogli scritti a penna rossa con frasi un po' d'amore dei poeti
sperando che qualcuno le leggesse o almeno le appendesse alla parete
«per ricordarsi di essere passati da questa strada che non ha padrone.
Non vale che un momento, l'emozione. Per me, voli di rondini e aquiloni
pazienti nell'attesa di planare. Importa immaginare almeno un sole,
trovare l'anestetico al dolore». E ripassava i luoghi dell'infanzia,
i tetti conosciuti e gli altri all'ombra attenta a calcolare la distanza
tra quello che è ormai stato e ciò che sembra. «E ritrovarsi almeno nell'odore
di pelle e di cucina della nonna; soltanto per morire ma di meno,
resistere alla corsa verso il nulla. Il bruco nel pensiero è già farfalla».
Si sbilanciava come a salutare lampioni e passeggini nella folla
sperando sconfiggessero la nebbia che chiude cuori e cose in una gabbia.
La sera, lo si sa, non indietreggia.


il numero otto

Campione di faccette e dei ricordi per tutti si chiamava ancora Sandro
e come il suo Mazzola del pallone, Luigi già ambidestro micidiale
mezzala a centrocampo e sotto il sole dal fiato di chi corre che non muore.
«La palla ci dormivo pure a scuola nell'ora delle lettere mai scritte,
sognare non si deve che un momento il tiro di un rigore che si para.
Il tempo mette poi la museruola». E conservava sempre ben stirata
la maglia tutta a strisce verticali, lui l'otto come numero sociale,
la foto di una vecchia nazionale. «Sorridono soltanto per dovere
allo scudetto al petto e al capitano, chissà dopo che guerra che frontiera
li ha visti ormai dispersi con la vita. Li prego nelle sere di fatica
di stare sull'attenti per il mondo. Lo zero a zero è il rischio esistenziale,
che perdere già un attimo e si muore». Ma lucidava ancora gli scarpini
convinto di scartare giorni e sorte e zitto per rispetto all'avversario
di spalle lì a difesa della porta, «perché si fa così si guarda dritti
negli occhi per vedere chi è il migliore, qualcuno dopo cede nello stretto
di un dribbling di una finta di un errore. Il resto viene come l'alba al sole».
E ti mostrava l'album di Panini completo dalla data del settanta,
le formazioni i capocannonieri di un'epoca tenuta ormai a distanza
«che servono gli eroi più che i pensieri. Ognuno certo ai suoi, che starne senza
è accorgersi dell'ombra quando manca». Indovinava dopo i risultati
dell'Inter dell'Herrera e di Moratti, felice di cantare in bicicletta
dell'inno di Mameli alcune parti. Ci credi che si segna ma in disparte
a nome dei compagni e dei tifosi che il ciclo non li metta fuori fuoco
i cori e i campi ancora polverosi. Che tanto lo si sa che è giusto un gioco.


Tributo a Veccia Aulenti

Chi ce l'aveva messo il Veccia Aulenti là sotto, lui nemmeno di vent'anni
in pasto al sommergibile Riscossa sorriso eternamente nella foto
da giovane soldato di marina? Chi ce l'aveva conficcato
in qualche oceano freddo di che nord al buio a latitudine polare
di guardia e sottovoce lì a pregare di ritornare a galla sì ma in piedi
e per baciar ragazze e far peccati ed imprecare contro il mondo e i preti?
Contava i giorni per la sua licenza la prima tra i siluri ed il silenzio
che prende quando inghiotte il mare il sole, contava e ripensava alla partenza
lo zaino con le cose la divisa stirata ad esser bella che si deve
saluto militare quanto basta lo sguardo dei parenti in finta festa
e dopo a scivolare col motore con gli altri per disperdersi in un dove
in cerca dei nemici di un perché sapendo la risposta che non c'è
soltanto coordinate avvistamenti il folle scivolare verso un niente
di carne che non chiede ma annuisce che prima o poi si affonda si finisce
a diventare muti come i pesci. Chi dunque l'ha tagliato dal futuro
di notte nel novembre quarantuno la festa dei già morti e di chi muore
tradito dalla patria e l'ideale che adesso c'è qualcuno che lo vede
raccolto la bandiera il gagliardetto la data e la preghiera al dio dell'acqua
che ci protegga tutti se fa notte. Rimane nel millennio ormai scordato
tra tanti che non sanno cosa è stato e adesso fanno dubbio sulla colpa,
nemmeno fosse scesa un'altra nebbia su quanti non ce li hanno messi in gabbia.


Il Sandro alla finestra

Lo sguardo un po' incrociato sulle cose, Sandrino stava lì, quasi stupito
di come poi crescessero le rose di sotto senza fare una parola.
«Mi affaccio alla finestra se c'è il sole a ripassare strade e chi ci passa,
ai gatti tiro i sassi e alle vecchiette in coda coi rosari e i panni sporchi,
a volte grido forte attenti all'orco per i bambini in cerca di pallone.
Resisto per i vivi e per i morti che tanto tutto quanto è un'illusione».
Provava a mascherare l'occhio strano spostandosi di lato sulla vita,
pensando che rimane già un balcone a dare ospizio ai sogni e alle ferite.
«Combattere si fa per la bandiera, per me nemiche le formiche e i passi;
difficile tirare fino a sera, immaginare ormai un tramonto rosso.
Lo prego questo mondo fatto a scosse, che renda quanto prima è stato dato.
Per questo non confesso i miei peccati». Chiamava con un fischio e mai col nome,
si nascondeva dopo per timore che rispondesse il cane o lo spazzino,
ma giusto per restare allo spioncino a dare alla pupilla la sua gloria,
al resto la certezza che lui c'è. «Le stelle, quelle dicono del ciclo,
contarle e addormentarsi fino in fondo, magari nel risveglio c'è uno scambio,
si scopre che rimane un girotondo da prendersi per mano e andare a terra.
Finire questa guerra contro ignoti». Bussava alle altre porte ma in segreto
fingendo di sbagliare l'indirizzo e zitto si smarriva contromano
in cerca di panchine sulla piazza, «magari trovo un pezzo di me stesso
e l'orologio perso a camminare; qualcuno chiede l'ora ed io non posso
capire quanto manca a non morire. Rientrare è più difficile di uscire».
li riprendeva come a mosca cieca un posto in questi giorni a prova d'afa,
immaginando facce da profeti ed il profumo in forse dell'acacia.


Voci e giorni del Giordano allenatore

Ci camminava comodo il Giordano a scarpe appese al chiodo con la cetra
in vicoli che portano lontano, lo sguardo a tutto cielo, il mondo dietro.
«Palloni ne ho toccati a mille a mille, il cuore lì granata al Valentino,
Superga come un vento sulle spalle, il resto che precipita in declino».
Mediano lo era stato col Mazzola, sinistro quel suo piede a grazia piena,
poi il tiro della sorte un po' mancina, la suola coi tacchetti sulla schiena.
«Immagina tu il verde, la pianura, la corsa che diventa prateria.
Calciare dritto, non aver paura, smarcare almeno il cuore, la poesia»
andava ripetendo nel rumore, e i giovani a scarpini da allacciare.
«La palla si conquista col sudore, pazienza sì ci vuole e stare a galla.
Il bruco porta sempre alla farfalla». E s'arroccava il giusto a non tradire
il tono della voce che si spezza, morirci solo il giusto in questa terra
di sogni e giorni della stessa razza. «Alleno e ciò mi basta, non m'arresto.
Saluto a testa alta chi sorpassa». Un mondo in bianco e nero, a due canali,
la radio sempre in tasca e Ameri pronto a vendere alle orecchie già i finali.
«Ma siamo il catenaccio, la difesa: la vita alla moviola, quell'impresa
di darsi il passo giusto, il tocco a lato. Sapere per davvero se è peccato
la finta che t'inganna, il pallonetto, la maglia già afferrata, lo spintone
o tutto si declina in un difetto di falli da rigore mai fischiati.
Di certo non ti basta, l'espulsione». E lo vedevi giovane per sempre
tra campi d'oratorio e spogliatoi cercare un nuovo Sivori o gli eroi
di un giusto zero e zero da salvare perché si va in trasferta e non si sa
il modulo azzeccato ad aggirare il tempo che c'imbianca o le preghiere
a ritardare il buio quando affonda. Importa il giusto guizzo, il gol di sponda.


L'arte del fiorire

«Ricordati di me se c'è memoria - diceva chiuso dentro il suo giornale -
la storia è della gente senza forma, non servono campane né fanfare,
soltanto il peso incerto che è dell'ombra». Giuseppe già Peppino senza età
agli atti coltivava giorni e campi pensando al suo Torino di Graziani
e a rendere giustizia ai giusti tempi. «Il mondo va così, che il frutto è il seme:
la mano poi lo coglie già maturo. Incerta stagione quando è nuova,
e il pezzo un po' mancante del futuro. Per me, calco la terra che mi tiene
e l'occhio resta vigile per prova». Si stuzzicava il rosso della barba
a rendere propizi cielo e sorte «bisogna separare ortica ed erba,
le foglie ancora vive dalle morte. È legge di una razza che non scrive,
e giudici lo siamo per noi stessi». Guardava un orizzonte alla deriva
ingarbugliare piante a fusto basso, incerto se sorridere all'inverno
o fingere un'estate esclamativa «che lasci il caldo a chi lo vuole
e un sole democratico per tutti. La paglia va col fieno e le parole
in bocca a quelli che le sanno dire. Qui radice è muta e resta sotto.
Missione è sì lasciarla ben protetta: domani l'ora adatta per fiorire».
E stava da moderno paladino lo scudo sollevato contro il vento
«ma l'acquazzone è un attimo e finisce: rimane una pozzanghera di cento.
La guardia è alla bonaccia che tradisce, al fermo di palude ristagnante.
Trovarli allora in paradiso, i santi». Andava via in disparte in mezzo ai tanti,
pregando a tratti i lari e il focolare che rendano serena anche quell'ora
in cui non si rimpiange il dì natale. Ridendo ti osservava nel rumore,
felice delle stelle e della luna calante per declino generale.
Questione di virtù più che fortuna, di selezione certo naturale.



Ivan Fedeli è nato a Monza (Mi) nel 1964. Insegna materie letterarie e si occupa di scrittura creativa. Ha pubblicato diversi percorsi poetici: Abiti comuni (Il Ponte Vecchio), Una religione di parole (La Fenice), Dialoghi a distanza nel volume “Sette poeti del Premio Montale” (Crocetti), Vie di fuga (Biblioteca di Ciminiera - GED edizioni), Un mondo mancato (Il Foglio), Inventario della specie Opaca (LietoColle), Esercizi per la felicità (Il foglio). Sue poesie sono apparse su alcune riviste letterarie. È redattore della rivista "Le Voci della Luna".

6 commenti:

  1. In questo Teatro la poesia da voce a decine di uomini e donne comuni, restituendoli alla platea dei lettori con straordinaria vivacità ed un’attenta scansione dell’endecasillabo. Si tratta di persone chiamate dal poeta al palcoscenico per testimoniare il proprio tempo, il loro essere – o essere stati – del mondo (Ma tu fatti profilo, stai coi nomi,/ accorcia il congiuntivo in ogni se, perché così si deve e si fa grigio/ l’elogio delle cose il tempo intorno accade per dovere di orologio…dall’introduttivo Canto dell’attore). Fedeli si tiene lontano dal bozzettismo e dalla poesia di genere (incanalarsi in Spoon River sarebbe stato troppo facile) e ci offre, grazie ad una regia pirandelliana e ad un lessico cangiante, la cifra indecifrabile di ognuno: Di lui si sa che visse e fu già tanto. E chiuse infine a chiave la sua porta./ Il resto in dono ai posteri e un po’ al vento.

    Caratterizza questo lavoro un’epica pietosa, che coniuga il mistero dell’individuo con i segni del proprio tempo, la dignità degli ultimi con l’avanzare della storia. C’è anche lo spazio per un’invocazione laica all’Angelo della polis, testo di sapore vagamente brechtiano. E’ inoltre da sottolineare la cura posta in quella che potremmo definire la scenografia di questa silloge: luoghi, oggetti, mode, abitudini, distanti a volte una manciata d’anni, sono ricostruite, datate, e restituite al loro tempo dal racconto dei protagonisti. Il poeta dosa con grande equilibrio rime e distanze, entusiasmi e malinconie. “Vogliamogli comunque un po’ di bene/ ai poveri rifiuti della massa” dice, in limine, il regista poeta, chiamando così il lettore a prendere posizione, in qualche modo, rispetto alla rappresentazione, ad interrogarsi anch’egli come personaggio di un’opera sempre aperta.

    Antonio Fiori
    (così la mia personale lettura su Viadellebelledonne di Teatro naturale di Ivan Fedeli, 11 marzo 2009)
    Le osservazioni di Stefano Guglielmin sono però estremamente interessanti e 'scandaglianti'...
    Un caro saluto
    A.

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  2. le due letture si incontrano.
    grazie per il rilievo.
    ciao!
    gugl

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  3. un caro saluto a ivan, anche eccellente e lucida voce critica della rivista 'le voci della luna' che merita sempre attenzione! ottimi testi proposti, spero di poter leggere il libro per intero. roberto cogo

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  4. Non riesco a leggere in questi giorni perchè preso da impegni di lavoro che, caro st, assomigliano ai tuoi. Però lascio volentieri un saluto a Ivan, che ho apprezzato in passato e leggerò appena mi si libera la testa.

    Francesco t.

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  5. gli esami di maturità sono estenuanti, hai ragone. anche per la qualità delle interrogazioni :-(

    ciao!
    gugl

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  6. avevo già letto di Ivan Fedeli alcune cose, ma queste qui proposte, sono davvero ottime prove.
    Molto bello anche il commento di Antonio Fiori. Forse, la cosa che più mi ha colpito, è la sorpresa
    dell'insieme del testo, la diversità con il letto solito, la distanza della costruzione, dal resto della "normale" poetica del periodo, eppure,alla fine è ottima poesia, come a dire che non conta la forma del fiore se a noi interessa il profumo.
    Complimenti a Ivan e a Stefano che ce lo ha proposto in questa forma che non conoscevo.
    vincenzo celli

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