giovedì 10 gennaio 2019

Matteo Bonsante: Esiste una poesia perennis come esiste una filosofia perennis? (I parte)



Pubblico, in due parti, una riflessione di Matteo Bonsante sull'essenza della poesia, mettendo in relazione la propria con quella di una tradizione legata all'ontologia.


Esiste una poesia perennis come esiste una filosofia perennis?

Già da tempo per la filosofia, come è ben noto, è stata coniata una locuzione che comprende convenientemente tutto il senso della ricerca filosofica più alta. Di tutti i tempi e di tutte le latitudini. E cioè la locuzione filosofia perennis. Espressione che sta a indicare come essenzialmente le grandi filosofie di tutti i tempi e di tutte le latitudini, confluiscano, tutte, verso uno stesso compimento (miraggio, conclusione, utopia, verità etc.) che è quello detto della non dualità. In sanscrito questo approdo è chiamato advaita. In termini semplici ciò significa che tutti noi, con i nostri piccoli o grandi 'io', siamo distinti solo apparentemente e solo in superficie. Ma nel profondo e nell'essenza siamo tutti la stessa cosa. Noi e il Tutto siamo una stessa cosa, siamo Uno. Advaita significa non dualità. 

La stessa sintesi – a larghe trame –  crediamo si possa operare per la poesia, creando in parallelo la locuzione poesia perennis. Poesia capace di porsi domande finali tutte confluenti. O meglio poetiche tutte tendenti verso una stessa visione (o quantomeno una stessa tensione) verso il Tutto o verso l'infinito. Il che sembra essere la stessa cosa. Naturalmente non arriviamo a dire che una differente poesia, cioè una poesia orientata diversamente, non possa esistere. Esiste eccome! Un esempio per tutti è la poesia di Prévert. Semplicemente diciamo solo che una poesia tendente, nel corso dei secoli, al Tutto esista e che possa formare quindi la cosiddetta poesia perennis. Tutto qui. L'auspicio è che i lettori di questo blog che condividano questa mia enunciazione (meglio forse dire tentativo), si mettano in gioco dando il proprio contributo per rendere attendibile il parallelo che stiamo delineando tra la filosofia perennis e la poesia perennis. A questo scopo ho seguito il seguente criterio: scovare poesie, anche remote, orientate nel modo detto ed accostarle a poesie recenti o addirittura a proprie poesie per certificare la perennità di questo orientamento poetico. Propongo questo criterio nella speranza che anche altri poeti, o semplici lettori di questo blog, lo seguano. Con questo procedere coralmente, potremmo delineare in modo credibile ciò che abbiamo chiamato poesia perennis. 

Diciamo subito che poesie idonee a puntellare il nostro tentativo si trovano in tutti i tempi e in tutte le latitudini. A larghe falde possiamo affermare che poeti così orientati si trovano in area islamica (Rumi, Omar Kajan …) in ambito indiano si va dai grandi Rishi delle Upanishad a Tagore etc., in ambito estremo orientale troviamo poesie taoiste e poesie zen. In ambito europeo: Dante, Leopardi, Montale, Baudelaire, Blake, Hörderling, metafisici inglesi Pessoa e tanti, tanti altri che via via saranno certamente segnalati da vari lettori. Crediamo pure che generalmente la grande poesia sia comunque sempre rivolta al Tutto.

E cominciamo subito a esemplificare comparando alcune liriche recenti con liriche remote e meno remote, come sto per fare. E sono costretto però a citare la mia stessa poesia sia perché è quella che conosco meglio, e sia per invogliare altri poeti che possano, con i loro stessi testi, contribuire a rinvigorire questa mia tesi.

Ed ecco, di seguito, alcuni accostamenti (spero non arroganti. Non altezzosi).

Consideriamo Leopardi e la sua poesia più nota l'Infinito. Su questa poesia non dico niente perché è stato detto tutto e più di tutto. Avvicino a questa famosissima lirica (absit iniuria verbis!) la mia poesia Cosmo di pag. 145 da Zìqqurat, raccolta confluita nel mio libro ricompositivo poesie 1954 – 2004, lirica che riporto di seguito:

                                                               
                                                                 


COSMO


In fuochi e bende, eterno deliqui di
neonato. Ti tendi nell'esplodere di notturne
danze.
              - Mi assorda il coro e il caos
                dei tuoi infiniti numeri.

Sei altalena, buio, vagito, estate.
Mente che si sfrangia nel tuo ventre.

Esilio.

               - la casa e il cane
                 in una visione sghemba del tuo
                 centro.
 


A un attento esame, possiamo accorgerci che questa poesia altro non sia che il rifacimento dell'Infinito di Leopardi, con una visione più moderna della realtà cosmica. Posso onestamente affermare che, quando ho composto questa lirica, di non aver tenuto presente – almeno coscientemente – la lirica di Leopardi. Dico più moderna, solo per il semplice fatto che questo mio componimento è stato scritto 150 anni dopo quello del recanatese. E quale è la differenza tra i due sguardi sull'oceano infinito della vita? La differenza sta nel fatto che Leopardi innanzi alla 'infinità del cosmo' dolcemente naufraga, con un senso di abbandono religioso. (Di questi momenti lirici ce ne sono altri che smentiscono il Leopardi filosofo), mentre nel nostro sguardo, c'è la rivelazione e l'affermazione che il centro dell'infinito cosmico altro non sia che la coscienza umana (la casa e il cane...), anche qui c'è un senso di vaga religiosità capace di testimoniare e accogliere l'infinità, senza naufragio dell'io. Un io che si sente poeticamente centro vivo e palpitante dell'infinità. Del resto la fisica di questi ultimissimi tempi attesta che l'intero Cosmo non è che co-creazione della coscienza umana. Ma qui si aprirebbe un diverso sentiero che ci porterebbe molto, ma molto lontani, dal viottolo che vogliamo percorrere].

Non so come sarà accolto dai vari lettori del blog questo mio accostamento e questo mio argomentare.

Adesso cerco di precisare meglio quello che intendo, con un’altra lirica di poesia perennis (inserita cioè in un alveo di comune tensione e ricerca). Tutti ricordiamo il bellissimo ultimo verso di Baudelaire tratto dalla lirica Le Voyage, dai Fiori del male: 

A soi même    

Ô Mort, vieux capitaine, il est temps ! levons l'ancre !
Ce pays nous ennuie, ô Mort ! Appareillons !
Si le ciel et la mer sont noirs comme de l'encre,
Nos coeurs que tu connais sont remplis de rayons !

Verse-nous ton poison pour qu'il nous réconforte !
Nous voulons, tant ce feu nous brûle le cerveau,
Plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu'importe ?
Au fond de l'Inconnu pour trouver du nouveau !

Ed ecco la mia poesia in continuazione, oso dire (anche qui absit iniuria verbis!, ma di tutt'altro timbro, di tutt'altro tono e certamente più tenue e lieve, della poesia di Baudelaire, tratta da Lapislazzuli CFR edizioni 2011,  pag. 124 

Lasciarsi andare... Attraversare
astri e numeri senza più ancora
né sostegni. Sibilare su giorni inabitati,
senza indicazioni. Credere fortemente
che in fondo all'Ora c'è la pacificazione
e alto spazio e vanto. Non girarsi indietro.
Perché il mondo e i suoi arcani
volano con te. Circolarmente con te.
Verso una più ampia tavolozza
di giorni, di sogni e di colori.

A me sembra che questa poesia sia il prosieguo della lirica di Baudelaire. Laddove Baudelaire tenta il balzo nell'Inconnu, (scritto con la maiuscola), qui il balzo non solo (poeticamente) è compiuto, ma è anche annotato, descritto, esposto direi. Reso plasticamente percepibile. Il possibile lettore condivide? Chissà?!

E accostiamo ora una poesia di Archiloco intitolata Eclisse – un testo che risale a oltre 2700 anni fa circa – a una mia poesia che porta lo stesso titolo. Poesia questa del nostro tempo e del nostro sentire, scritta nei primissimi anni sessanta del secolo scorso. Leggiamo:

Archiloco ECLISSE


Non c’è nessuna cosa inattesa né scongiurabile né meravigliosa,
quando Zeus, padre degli Olimpi, fece notte da mezzogiorno
nascondendo la luce del sole che brilla. Il timore umido
scese sugli uomini.
Dopo questo tutte le cose per gli uomini sono credibili e spettabili
nessuno fra voi guardando si meravigli, neppure se le fiere con i delfini
si scambiassero il pascolo salmastro e le onde riecheggianti del mare
diventassero più graditi della terraferma a loro, e agli altri inabissarsi nel monte.

Ed ecco di seguito il testo della ECLISSE diciamo dei nostri giorni

ECLISSE.

Un sudore di paura ha imperlato gli uomini.
 Ormai tutto potremo credere possibile.
 Archiloco.


Nel raglio d’asino, carica di festuche, la terra
si inarca nella sua eclisse. nel fresco piegarsi
del giorno.

Eclisse.

Il vento si insinua radente all’aprirsi del-
l’aria.

Restiamo sul bilico di un più ampio respiro.

Eclisse.

Incontinenza tra cupole che girano senza domani.

E c’è odore di pietra, odore di zolfo, odore
della forma più pura delle altezze... su vasti tetti,
nella grande cisterna che – fucina di sghembi balconi –
gira in vapori di assenzio e giusquiamo.

Fiordi di pittosporo illanguidiscono estreme
opalescenze.

E la pietra schiaccia la pietra. Il volto ricerca il
volto. La foglia d’acanto della felicità, chiusa nel
gelo della sua purezza, ha forma e misura di domani...
Su vasti tetti.

Eclisse.

Sospensione del desiderio.

Maree notturne in schiocchi di scalmi hanno
squassato l’ufficio legale del giorno. Nei soppalchi
di cristallo i guardiani del silenzio dischiudono
scalee nelle assenze. Il dito sulla bocca.

E tutto è immobile contemplazione
tra secchi ricolmi di bianco latte.

– Riformuleremo nuove certezze sulla sintassi dei
cieli con nomi e sestanti d’alito?

Eclisse.

Il grande Tiresia – signore di molte stagioni – ricco
di squame, ha coperto con neri montoni le sue
meraviglie. Ci porge in dono la notte – il fondo
buio del cuore – e voci d’ombra.
E già i conciatori di pelli e i cacciatori di tigri
gridano da riva a riva. Si accalcano
i seminatori d’orzo. Squillano i metalli delle
ellissi e l’istante, lento e incombente (insondabile)
è tutto nel peso della sua presenza... su vasti tetti.

Eclisse.

Scienza dell’anima.

Scivolerò con rude arte nelle piramidi di
un’antica cabala. Nella forma più pura
del sorgere delle stagioni. Più vaga della esalazione
del fiore nel suo marcire. Più fonda
della esaltazione dei venti sui loro fragili steli.
Tra sete e canto.

(Spore del desiderio – guardinghe nella loro cipria –
si sfaldano in uve nere. Arcipelaghi di corrusca
saggezza vagano in fiordi di salgemma per formare
con le campanule del temporale il cuore del corallo
 marino). Il cielo è nelle acque.

Eclisse.

L’occhio del rapace squilla lungamente sui balconi
del mondo.
Si alza il vento.
Sulla terra.

                                  *

A un attimo dal nulla il domani resiste.

Come è ben evidente, il bellissimo testo poetico di Archiloco è volto tutto alla grande paura e al grande sbalordimento che generava l'eclissi soprattutto in epoche molto lontane. Nella mia poesia c'è generalmente questo senso della meraviglia ma, prendendo le mosse da tanta meraviglia, si eleva (ripeto 2700 anni dopo, e dopo la rivoluzione scientifica del 5/600 e quella del '900) a visioni molto nuove e precorritrici di tante scoperte che sarebbero via via venute, come ho già detto. 

Questa poesia giovanile è stata composta, nel lontano ahimè 1961, in occasione della eclissi totale del febbraio di quell'anno. In questa poesia c'è l'apparizione e il dispiegarsi di un cosmo in-percepito dagli stesso studiosi. I buchi neri, le energie oscure, le masse oscure etc. verranno dopo).

Questa lirica può essere ascoltata su YouTube digitando il mio nome e cognome nella barra di ricerca di YouTube. Nel filmato n° 3  [a 3 minuti e 15'' dall'inizio]. 

E lasciamo ai lettori l'eventuale commento di assenso o di dissenso a questo mio dire.

[la seconda parte Lunedì 14 gennaio]

Nessun commento:

Posta un commento