mercoledì 21 aprile 2010

Pasquale Di Palmo




Pasquale di Palmo muove alla scrittura da un'urgenza tutta interiore, un'ossessione che in Ritorno a Sovana (L'Obliquo, 2003) ha i caratteri dell'autoritratto che sbiadisce e della percezione mutilata. Ciò, già a partire dall'epigrafe, che canta l'EN, un ansiolitico contro l'insonnia, che qui diventa l'emblema capace di sospendere il contatto con la vita, concepita quale malattia, condizione di sofferenza, patimento immedicabile. Il paesaggio stesso risulta carnefice ("Il sole [...] bruca la faccia") o morituro ("lo scarabeo inanimato / [...] riposa nel petto devastato"), "feticcio" sempre di un soggetto che non si riconosce, in perpetuo confitto con l'identità, come i grandi autori maledetti, amati da Di Palmo e da lui raccoltati, per esempio, ne I libri e le furie (Joker, 2007). Bellissimo libro questo perché evidenzia, con il dettaglio del bibliofilo, non soltanto il tragico destino dei poeti (o dei pittori, di quel Tancredi, suicida nel Tevere nel 1964), ma anche dei loro libri, delle prime edizioni, errabonde e trascurate sino alla benedizione del Canone. Proprio per questa sua passione, non si può tralasciare, leggendo Marine e altri sortilegi (Il ponte del sale 2006) la bianca sagoma umana che affonda nel mare, stilizzata in copertina. Sullo sfondo blu oltremare, l'effige scende capovolta verso l'abisso, scortata da tre pesci, scorta profana, d'una trinità creatrice della notte subacquea, senza promessa salvifica. Il tema della morte per acqua, della scomparsa definitiva (Dylan Thomas, in epigrafe "After the first death, there is no other") è impresso dunque sin dapprincipio, accompagnato da un grappolo di poesie dominate dal camminare sul luongomare veneto, con l'assillo di "essere qualcosa di inanimato", e da segnali lugubri legati al precipitare, al giogo, alla luce funerea, sostenuti dall'epigrafe della seconda sezione "Non voglio morire. Voglio non esserci" di Marina Cvetaeva. Tutti indizi terrestri, per dirla con la poetessa russa, di un male di vivere in cui l'inferno è certo. Ce lo dicono con chiarezza le due sezioni finali. La prima, "Esercizi di esorcismo" racconta di un Orfeo che scende "nel mulinello" dell'acqua, barcollando in un Ade rachitica; la seconda, "Gli annegati" dice esattamente la posta, l'esito cui il viaggio conduce. Ad attutire l'orrore, è lo stile, che coniuga, come lo stesso di Palmo sostiene in una recente   intervista uscita per Cartesensibili, "allucinazione e rigore, delirio e geometria", per un impasto che rinuncia all'azzardo sperimentale, in nome di un'intenzione comunicativa e lirica insieme, che mostri la ferita attraverso il velo del canto, dell'equilibrio formale. Gran parte dei testi di Marine e di Ritorno a Sovana, infatti, pur facendo tesoro delle altezze del primo Montale, ne abbassa leggermente la rarefazione con l'ausilio, fra gli altri, di Eliot e di Campana. Attingendo dal registro antilirico di questi due classici, egli imbastisce la parte più originale di entrambi i libri, una prosodia che diventa infine, ne "Gli annegati", voce lapidaria, frutto della contaminazione con il referto medico obitoriale e con la geometrizzazione estrema (con l'opacizzazione del grido e lo spostamento dall'omodiegetico all'eterodiegetico), del modello letterario principe della sezione, ossia lo Spoon river di Edgard Lee Master.




da Marine e altri sortilegi

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Ecco il sole lebbroso che dispensa
i moncherini dei rami
in quest'aria di acquamarina
mentre guidi in direzione
degli appostamenti di Lio Piccolo
con lenzuola abbaglianti
che spuntano dalle feritoie
e vorticano nel vento come vessilli.
«Non pensare, non pensare,
pensare di non pensare» il ritornello
che ti lacera il cervello.
Essere quella foglia
che tende sottili
venature verso il peschereccio
che incessantemente parte, ritorna
lungo la caligine screziata dell'estuario.



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Oggi ho visto Abaddon.
Era Marco che giocava a trent'anni
con paletta e secchiello
sulla riva di Punta Sabbioni.

Morde un sole sfrangiato
l'erba delle officine
mentre il volo delle ultime
rondini si orienta verso l'imbarcadero.

Io scruto nel vento le foglie
che vorticano in un sonno di spine.
I genitori accarezzano Abaddon
sul testone deforme. Piove, non piove.



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Talora mi chiedo se la luce
provi pietà per le rovine
che incombono tra erba e rifiuti
di questa campagna allucinata,
schiacciata dalle nuvole
temporalesche che avanzano
lungo il sentiero scosceso del vento.
L'erba si piega verso il faro,
la sabbia rasenta i gorghi
che assumono il colore
indaco dell'incubo.
Si cammina leggeri come nuvole
in testa soltanto
questo inquieto zigzagare di aquiloni.



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Grande sole di scisto,
indovino nel ciclo delle ciglia
i biondi riccioli
come una foglia crivellata
dalla grandine.
Scendi di sangue in sangue
verso gli inghiottitoi,
grande sole barbuto
che incombi sul volto dei passanti
come una mano screziata a lutto
sul vento martoriato del confine.



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È come vivere in un lazzaretto. Le vene delicate delle braccia risaltano come in un bassorilievo. Dove l'erba si piega sul petto con i contorni di un disegno smarrito. Batte la torre mozzata con un suono lontano di frantoio. Rompe in lampi improvvisi la luce pomeridiana. Lungo il viottolo l'ellisse delle rondini, un rumore che si perde nella campagna ricciuta. Cielo con le rughe, con le varici. Scrolla sulla fronte una cascata di foglie. È crucciato, trasmette il suo malumore mostrando dentini di zucchero.



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Avevi l'età delle nuvole, chiome verdi di fieno. Ti scrivevo in fronte parole d'erba e di rosmarino. Eri più bianca dell'ulivo. Ti frugavo i fianchi di prugna, le dolci colombe del petto. Sui campi flagellati un'immobile luce di aghi. Un bagliore aziendale, del colore di un'unghia. Tu ridi, impallidita, contro il cielo che ride. Mi perdo come un sonnambulo tra le ombre leggere del cammino. Nel letargico giro degli anni hai un candore di nuvola sul volto. Ma fiutano tempesta i cani bianchi...



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Opportuno qui sembra di riportare i distintivi, che si osservano nei cadaveri de sommersi, i quali dopo lungo lottare con le acque vi perderono la vita, a differenza di quelli che vi morirono quasi nell'istante medesimo della sommersione. Nei primi apparisce livida la faccia, la lingua lume/atta, e nella sezione osservami il cuore, ed i grossi vasi distesi da un'enorme quantità di sangue nerastro, i polmoni ripieni di fluido spumante, la superficie esterna del cervello più colorata dell'ordinario e i suoi vasi notabilmente dilatati. Questo è ciò, che l'osservazione ha mostrato in quei sommersi, che dotati di fisica robustezza, di forza morale, e forse di destrezza al nuoto, resisterono vigorosamente alle acque micidiali prima di sommergersi: all'incontro nei cadaveri dell'uomo debole e pauroso, della timida donzella, del giovane non maturo di età, inesperto al nuoto, sfornito di coraggio e di forze, e che ordinariamente si annega appena caduto nelle acque, osservasi il colorito quasi naturale, nessuna tumefazione nella lingua, pochissima spuma nella bocca, e leg-gerissimo ingorgamento di fluido sanguigno nel cuore, e ne' vasi polmonari


Fothergill paragona questo stato di asfissia ad un orologio fornito di ruote, e di tutte le molle necessarie per il suo completo meccanismo, mancante solo del movimento del pendolo, idea già caduta in mente al sommo Eoerhaave


II corpo di un annegato trovasi generalmente freddissimo; la faccia più, o meno pallida, a seconda della durata del tempo della sommersione, gli occhi per metà aperti, le pupille dilatate, la bocca ripiena di spuma, il petto, la regione epigastrica e le vene del collo spesso tumefatte



L'annegato di Villa Pamphili


Singolari le circostanze che portarono
all'annegamento di Giulio Thran,
alunno nel conservatorio degli orfani,
di anni 15. Appena con le più alte grida
i compagni segnalarono l'incidente
ai coltivatori della villa,
questi avvertirono l'agente
che, a sua volta, interrogò con un espresso
il principe circa il prosciugamento
del lago al fine di recuperare
il corpo del giovane annegato.
Avuto il permesso di intervenire, i contadini
estrassero la salma dal cratere
ma credendo che l'operazione
dovesse essere preceduta da una ricognizione
del fisco rituffarono il corpo, non esclusa la testa, in acqua
e lo ricoprirono completamente di erbe.
Fu ripescato dopo quattro ore
il 22 luglio 1825, nel laghetto di Villa
Pamphili, sotto un ciclo azzurrino come il suo volto.




Considerazioni sull'annegato di Villa Pamphili


L'abate Lucciardi, deputato del conservatorio
degli orfani, ordinò che il corpo
venisse adagiato sul lungolago.
Lo fece denudare e asciugare
dagli stessi contadini della villa.
Il volto di Giulio Thran risaltava
sull'erba che tendeva al viola.
Dopo quattro ore di immersione
sia l'aiuto dell'espertissimo
chirurgo Domenico Giovannetti
sia il mio stesso intervento
su sollecitazione del marchese
Origo risultarono mutili. La semplice
osservazione mi convinse
che la vita del ragazzo fu di breve
durata dopo l'annegamento:
il colorito era quasi naturale,
la lingua non presentava fenomeni
di tumefazione, dalla bocca
fuoriusciva una schiuma leggera.



Pasquale Di Palmo è nato al Lido di Venezia nel 1958 e risiede a Ca' Noghera (VE). Ha pubblicato le raccolte di poesie intitolate "Arie a malincuore" in Poesia Contemporanea - Secondo quaderno italiano (Guerini e Associati, Milano 1992), Quaderno del vento (Stamperia dell'Arancio, Grottammare 1996), Horror Lucis (Quaderni di Erba d'Arno, Fucechio 1997), Ritorno a Sovana (Edizioni D'Obliquo, 2003), Marine e altri sortilegi (Il Ponte del Sale, 2006) oltre alle plaquettes fuori commercio Scrivere in aria (Mugnaini, Firenze 2000) e Quadernetto scaramantico (Graiche Fioroni, Casette d'Ete 2001). Nel 2004 ha curato, per il Ponte del Sale, un'antologia delle poesie di Beppe Salvia dal titolo I begli occhi del ladro. Suoi testi sono presenti in varie antologie e in numerose riviste, tra cui "Nuovi Argomenti", "Paragone" e "Poesia". Ha curato e tradotto, per Stampa Alternativa di Viterbo, Poesie della Crudeltà (2002) e Io sono Gesù Cristo (2003) di Antonin Artaud e alcuni volumetti di poesie e prose di Tristan Corbière, Raymond Radiguet, Gérard d'Houville e dello stesso Artaud per le Edizioni Via del Vento di Pistoia. Nel 2007 ha pubblicato I libri le furie (Joker), a cura di Marco Ercolani.

6 commenti:

  1. Sono i due libri di Di Palmo che ho avuto modo di leggere finora: scoprendo (e non è inutile ribadirlo) un poeta eccellente.

    Le tue note, caro Stefano, sono di quelle che lasciano senza scampo - nel senso che c'è ben poco da aggiungere. Particolarmente pregnante, a mio parere, il filo di rimandi con cui leghi archetipi, antecedenti e attraversamenti di una scrittura "classicamente" impostata e, nello stesso tempo, "naturalmente" votata allo scarto e all'oltranza (soprattutto sul tracciato stilistico).

    Complimenti ad entrambi.

    fm

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  2. margherita ealla22/4/10 23:43

    due parti con lo spartiacque del corsivo -esplicativo (ma non solo)

    la prima parte l'annaspo "entrando nel vortice" (Eliot)
    la seconda parte l'anatomia della morte
    (il ritorno ad un amniotico freddo)

    E siccome, mi associo senza riserve alla tua presentazione e ai complimenti di Marotta,
    aggiungo solo ciò che mi colpisce della prima parte in particolare
    della parte prima di questo andare per/in acqua:

    il movimento resistente degli elementi (soprattutto di quelli naturali), movimento che si avvale, va in cerca, d'aria.
    (come d'aria è la ricerca spasmodica del risucchio d'acqua dell'annegato
    e la leggera schiuma ne è la riprova)

    Così la forma è quella di un andare inquieto (i pensieri per es.), "scosceso del vento", dell'"'erba" che "si piega verso il faro", della "sabbia" che "rasenta" il gorgo, finanche del "vento martoriato",

    di più, quella di un vero e proprio moto vorticoso:
    "vorticano" sia le lenzuola come vessilli- bellissima immagine di navigazione terrestre- sia le foglie, per es.,
    e vorticano attorno ad un qualcosa che punta-infilza-sbarra: le lenzuola attorno alle inferriate, le foglie intorno ad "un sonno di spine"

    e come non pensare allora ad un vortice associazione estensione ad una terra (che intendo come mondo in prima battuta - umanità poi in senso più stretto) che gira attorno al proprio asse

    terra-umanità tesa, ma anche resa cieca
    ("Scendi di sangue in sangue/verso gli inghiottitoi,/grande sole barbuto/
    che incombi sul volto dei passanti"), come dal bianco delle lenzuola abbagliata,

    da un sole di volta in volta "lebbroso", sfrangiato, "grande di scisto" "grande barbuto" (bellissimo!)

    sole tanto contraddittorio da chiedersi:
    "mi chiedo se la luce / provi pietà"

    e da rispondersi con Eliot:
    "non ero/né vivo né morto/e non sapevo nulla/guardando dentro il cuore della luce, il silenzio".

    Rinnovo il mio piacere per questo incontro
    ciao!

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  3. ah, un'ultima cosa, l'essere nè vivo né morto, del quale dice Eliot, lo ritrovo nel riferimento al lazzaretto (che spesso era un isolotto, appunto schermato/isolato da acque)

    arriciao

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  4. i vostri interventi arricchiscono di molto il mio. Grazie davvero.

    non sono ancora riuscito a contattare Di Palmo che è uscito questo post (forse ho la mail sbagliata). qualcuno può farlo?

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  5. Ringrazio a nome de Il Ponte del sale, per questa attenta lettura del testo di Di Palmo,salvato anche in Cartesensibili, in recensioni, là dove viene riportato il testo. Se Gugliemin mi permette ospiterei anche tra i post della home page questa sua recensione del libro. In attesa di una risposta, di nuovo ringrazio.fernanda f.

    http://cartesensibili.wordpress.com

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  6. benvenga questa diffusione. Grazie.

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