sabato 8 maggio 2010

Gabriella Sica



Per amare la poesia di Gabriella Sica, in questo tempo spurio e meticcio, non basta avere nelle orecchie il canto armonico della tradizione italiana, di quel monolinguismo del Canzoniere che divenne, anche sulla scorta della classicità latina, petrarchismo bembiano, ossia un fare che ha nell'armonizzazione di compostezza e levigatezza, di equilibrio e uniformità la propria cifra stilistica. Occorre anche entrare nel vivo del laboratorio romano cresciuto, tra la fine degli anni Settanta e tutti gli Ottanta, attorno a "Prato pagano" e "Braci". Il rinvio della critica a questi due momenti è consolidato, ma non abbastanza compreso, se ancora oggi la Sica lamenta studi inadeguati in tal senso. E ciò a partire dall'influenza che quella koinè ha portato alla poesia italiana contemporanea se è vero, come scrive l'autrice nella prefazione al libro di Flavia Giacomozzi, Campo di battaglia (Castelvecchi 2005), che con quell'esperienza si è voluto ricominciare da capo, rifondando non soltanto il verso italiano, frantumato dallo sperimentalismo dei due decenni precedenti, ma anche l'intera "civiltà" nostrana, che aveva avuto in Pasolini l'ultimo martire: "La morte di Pier Paolo Pasolini, nel 1975, è stata [...] emblematica nel passaggio di uno stile e di un modo di essere: dev'essere partita da lì l'idea di una rifondazione nel caos contemporaneo". Tale assunto – che lega stile ad etica, tradizione linguistico-retorica millenaria a scelta di vita, riconducendo entrambe ad un dialogo con l'origine – fa della poesia di Gabriella Sica il punto d'arrivo del viaggio lirico italiano, secondo la linea Petrarca, Leopardi, Pascoli, Saba, Penna, Caproni e Pasolini, in un abbrivio carico di presente (l'avventura romana) in cui, nella Sica, il conflitto moderno tracima, per approdare in un tempo solo apparentemente arcadico, e tragico invece nel suo darsi eventuale: specie ne Le lacrime delle cose (Moretti & Vitali 2009), tanto le guerre sparse nel mondo quanto la violenza pubblica e privata subita dagli esseri umani sono centrali, e solo per pudore contenute nell'armonica gabbia dello stile, come già fecero gli autori citati poc'anzi. Certo, in Leopardi il grido è lacerante e lo stile non intende contenerlo, raccontandolo, ma semmai incanalarlo in conoscenza dell'orrore che lo fonda. Tale differenza (lo stile che dà forma accettabile al dolore, anche sulla scorta della fede cristiana; lo stile che trasforma il sentimento in conoscenza che "tutto è nulla, solido nulla") costituisce una forcella ben distinta, nella quale il primo ramo rifonda il vero a partire dal principio di vita, dalla ciclicità palingenetica, dove conoscere significa cantare l'impeto vitale che respira in ogni cosa, mentre il secondo, in sintonia con il Gallo silvestre leopardiano, riconosce alle cose, quale unico destino, il morire.
L'autrice d'origine viterbese, virilmente etrusca nell'impeto con cui s'abbandona alla volontà della natura, vede la gemma sopravissuta all'incendio, l'erba nuova dopo il nubifragio, osserva la possibilità di riscatto dentro l'inferno, con un ottimismo che attinge al mito dell'origine, appunto, allo sguardo del fanciullino, alla fede che tra i vivi e i morti ci sia un dialogo appartato e profondo. Lo stesso titolo dell'ultimo libro attesta la visione drammatica da cui parte il suo verso: le lacrime delle cose sono parole dette da Enea a Didone, di fronte alle macerie della guerra troiana; ma questo è solo un inizio, scritto su di una porta che non introduce alle stanze del tragico, ma che anzi ci avvicina pietosamente alla piaga, che c'insegna a curarla, cantando con l'apparente incoscienza di un folle o di un bambino. Quest'estremo tentativo di ricomporre l'unità perduta, di mettere in risalto l'anima classica della poesia italiana, che ha nell'endecasillabo la propria voce naturale (così simile al ritmo del parlare quotidiano), mi pare sia davvero il punto d'arrivo di una linea che ha coniugato il petrarchismo della tradizione con le istanze rifondative di matrice cristiana (di un cristianesimo delle origini, venato da sollecitazioni pagane)  maturate in Italia nella seconda metà degli anni Settanta, a fianco delle quali, ma come travolto dall'onda del barocco e di una perversione votata al martirio di gusto controriformato, non può che esserci il manierismo, certo eccellente, di Patrizia Valduga. 


Per gli ottanta anni

Voi verdi colline e boschetti e prati
feriti e ancora stranamente interi
voi educati alla sacertà come i poeti
e alla beltà tra rovine e ortiche,

voi vi chinate eterni e familiari
su chi non se n'è mai andato fedele
per ottanta anni per lumina chiari,
su Andrea Zanzotto a Pieve nato

di Soligo, uomo pio nelle spine.
E il terrore d'ogni giorno tu dici
è il veleno per l'aria e sulla terra.

"Senti? Sì, sono gli urli dalle torri!
E i salti sulle mine dei bambini! ".
Senti il canto? È la lodola ottobrina!


10 ottobre 2001




**


Vorrei sulla groppa d'una di voi salire
come altri a cavallo dell'ippogrifo,
guardiana d'oche che parla ai muri
in gabbia e la prigionia fuggire via.

Volare tra le nuvole ignote e allegre
e tutte le stelle a una a una contare
fino a incontrare la candida luna
e i cieli così lontani dalle cose agre.

Che male fa credere a un prodigio
se anche la poesia è un po' magia
che trasforma e fingere un sogno
invece di morire? E poi cosa perdi?

Vorrei con voi amiche oche volare.
Su una roccia vi vedo stare in pensiero
e ferme il capo infilato tra piume
ora in una raffica di spruzzi immerse.




In memoriam: Giovanna Sicari



Tu sdrucciola e io piana per accenti,
per lingua affini: dalle due l'una
(ricordi lo scambio sulla soglia?).
Nostra Giovanna d'Arco, dice Gino!

È il sacrificio dei poeti per i ciechi
il coraggio di salire il monte verde
dei versi a Roma arida alla vigilia
in silenzio e con la parola-spada.

L'epoca è immobile no non vola
soffoca nelle fatiche dei giorni
e nei bisogni vili della terra

no ha preso il volo sul tuo capo bello
(un'altra epoca è ora incominciata)
di figlia e madre cara della vita.


1 gennaio 2004



Poeti amici a Roma


Mi sono chinata sui poeti amici
che non sono più qui
non che dovessi fare i conti ma il conto è aperto
io qui inquieta e loro là sereni
voci che si sentono chiare qui a Roma
il mondo che è stato dove è stata la parola
bisognerà ancora chiamarsi e adunarsi in un luogo ameno
qualcuno è già andato qualcuno rimane ancora un po' in attesa.
Siamo soltanto gli ospiti d'onore della famosa vita
non rimane altro tempo per tenere in vita gli assenti
è il mio obbligo ora che già ho più anni di loro
non è più il caso di cercare con puntiglio un riparo-rima alla bufera.

Mi sono chinata sui poeti che sono là
erano a rischio come le rondini e i cardellini
ora sono morti e morti per aprire gli occhi ai vivi.
La via l'hanno presa così da ragazzi
uno dietro l'altro come a scuola con il fardello-cartella sulle spalle
chi calmo e chi con uno schiaffo o uno spintone
io vengo appena dopo nella fila
che è necessaria a imparare la lezione.
Per primo Paolo coraggioso e Pietro schivo e Dario che rideva
Nadia con la frangetta in stanze d'alabastro e Giovanna a mani giunte
Beppe con gli occhi celesti come quelli celestiali d'Amelia
che già contava infiniti cadaveri e terrori e fitte amare.
Noi della comunità degl'inermi e dei dispersi
noi prodighi per sempre e per caso salvi
noi si resisteva presaghi alla mancanza di mondo
ah quanti prati bruciati da rinverdire
e quante trincee gentili da abitare
si imparava a diventare umani e anche ora
ora i poeti amici non sono apparizioni della mente o sogni
camminano per le strade di Roma non hanno più la vita da scontare
ma continuano tranquilli a parlare lungo il Tevere che scorre.
Non è vero che mi sento più sola e impoverita
i poeti non muoiono mai proprio mai e ritornano sempre
mi vengono a trovare a casa e non è cambiato niente.




Passione di Pasolini


Perché la battaglia è sempre la stessa
dopo trent’anni d’ansia,
come i frassini fragili su un campo
e inermi tra gli alberi-erinni
i poeti, eretico poeta di verdi campagne
tra una verzura e un usignolo
ebbro d’erba nel temporale
mentre la febbre sale e ancora sale
ma tu a cercare a Roma tra i ruderi la gioia infinita.
Eri un uomo più moderno d’un moderno
tu che venivi dai borghi e dalle pale d’altare
con il tradizionale spirito vivo del grano
la scandalosa forza del passato e la profezia
tra i dolci ragazzi sul greto del Tevere
tra i gatti soli come te al Testaccio
sui pratoni polverosi al Tiburtino
e sognavi una terra la tua terra buona
ma tu camminavi sulle stragi-spine dell’Italia divisa.
Sì, tu sapevi che non c’è libertà per la parola
che sono mandati nei gulag i poeti
come Mandel’stam quel fiore tenero di mandorlo
o il tuo Pound chiuso in una gabbia per animali
sì, che gli scribi e i farisei non danno il permesso
perché la poesia non avrà mai peso mai
in questo paese dei mali
e tu lì a forzare con il tuo segreto grimaldello
ma non vuole i poeti e non lo sa l’Italia sbigottita.
Le lucciole luminose nella Maremma
ma le rondini no non le ho più viste
brillano solo alla luce
pura e antica dell’adolescenza
con i lavori agricoli e le stagioni cristiane
i bei viottoli di campagna come opere d’arte
e le cose agricole immutate per duemila anni
e i contadini cari e la fontana d’acqua del paese
ma per te bestia da stile l’alba della lingua era in salita.
Hai provato a educare l’Italia del consumo

(non più umile) con le parole e la morte
povero Pier Paolo con il tuo nome uno e trino
con i trentatré processi e la passione
non c’è riuscito Cristo in duemila anni
e sempre a sopraffare l’altro e i poveri della terra
gli ultimi gli esclusi e i poveri cristi
a portare la spada e non la pace
ma troppo alto è lo sforzo inaudito per rifare la vita.
Poeta assassinato
tu sai, sai tutto poeta delle ceneri erede
di secoli di poesia e storia
poeta mai tiepido e a volte anche ossesso
con le poesie a forma di rosa e croce
e i versi urgenti non finiti
con le tue ragioni e anche i torti
con le tue unghie per segnare i libri amati
ma il fragore delle unghie! e la battaglia non è finita.
Nel giorno dei morti amati che tu già abitavi
alla foce di Ostia nel luogo caro alle anime salve
il mondo ti ha trovato morto nella polvere steso
al porto dopo gli affanni
negli occhi avevi ancora il mare azzurro
del Tirreno come Caravaggio
sul corpo i segni della tua ultima nemica
il pane dell’ostia in bocca
ma finché eri vivo mancava di senso la tua vita, ogni vita.

17 dicembre 2005



Gabriella Sica, nata a Viterbo, vive a Roma. Ha pubblicato i libri di poesia: La famosa vita (1986), Vicolo del Bologna (1992), Poesie bambine (1997), Poesie familiari (2001) e Le lacrime delle cose (Moretti & Vitali, 2009). Tra le traduzioni delle sue poesie, in volume: No sentiràs el ruisenor que llora (Siviglia, 2005). Sue poesie recenti sono apparse nelT"Almanacco dello Specchio" (2007), su cui aveva già pubblicato nel 1983. Ha fondato e diretto dal 1980 al 1987 la rivista "Prato pagano"e curato La parola ritrovata. Ultime tendenze della poesia italiana (1995). Ha inoltre pubblicato Sia dato credito all'invisibile. Prose e saggi (2000) e Scrivere in versi. Metrica e poesia (1997 e 2003). Ha realizzato per la Rai sei video su Ungaretti, Montale, Pasolini, Saba, Penna e Caproni, i primi tre usciti in videocassetta da Einaudi nel 2000 e nel 2001. Negli ultimi anni ha pubblicato interventi su alcuni giornali ("la Repubblica", "Corriere della Sera" e "La Stampa").

3 commenti:

  1. fa davvero un certo effetto leggere quest'ultimo dedicato a Pasolini proprio in questi giorni/settimane in cui si scoperchia l'esser stati tenuti per trent'anni a bada col mito del giro dei ragazzi di vita che un bel giorno si sarebbe portato via il suo cantore

    mentre il documentario/intervista di Martone a Sergi Citti, che già allora corroborava la tesi dell'inascoltato testimone, con una versione dei fatti molto meno mitizzabile: un Pasolini scomodo stroncato prima che un certo romanzo denuncia potesse arrivare alle stampe

    e poi la strana sortita di Dell'Utri sul ritrovamento del manoscritto di "Petrolio" appunto...

    che cos'è? un avvertimento ai vari Saviano?...

    vabbe'...

    comunque molto intenso questo lavoro della Sica: vi trovo anche, rispetto all'endecasillabo, la convizione di una necessità di affrontare le maglie strette (zanzottianamente ipersonettando) dell'endecasillabo, che in fondo era nella natura di una lingua che oggi non è più endecasillabicamente scandita, e lo si sente, eccome, il lavorìo "sudato" dell'autrice nel fare i conti con il calarsi dentro un metro, che diviene sì, alla fine, seconda natura, ma che non è più nella natura delle cose linguistiche come poteva esserlo per i nostri antenati che per endecasillabi pensavano, prima ancora di metterli su carta

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  2. Zanzotto e Sica partono entrambi da Petrarca, mettendo però l'accento su aspetti (anche metrici) diversi.

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  3. complimenti a Gabriella Sica, soprattutto per il suo e credo nostro Pasolini, continuo a pensare che quella morte, nella sua formidabile cifra concreta e simbolica, delinei con esattezza ciò che questo paese - a nome degli altri - riserva ai poeti: uccisione e occultamento, concreti e/o simbolici; non è così per la sparizione dei libri di poesia dalle librerie, non è così per l'equivoco che grava sulla poesia come disaffine al reale, per lo spaventoso furto e la nullificazione del linguaggio ad opera del potere? dunque grazie per avere ricordato che la poesia è una salma col volto nella sabbia ma fittamente scritta sulla schiena dalla sua ferita

    paolo

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