domenica 1 febbraio 2009

Guglielmo Aprile



Se Il dio che vaga col vento (Format 2008) mescola racconto didascalico e allegoria, riprendendo eventi naturali, storici e mitici per renderli esemplari, Nessun mattino sarà mai l'ultimo (Zone, 2008), facendo un passo ulteriore, trasforma questi quadri variegati in sapienza. Entrambi i libri si fondono sul medesimo assunto: la natura è un organismo attraversato dall'energia cosmica, che possiamo panteisticamente chiamare "Dio". Egli infatti "è questa trama segreta, perfetta/ dietro il travaglio della materia che muta" (Ciò che chiamammo Dio...). Il secondo libro, in particolare, è un ode al creato/creante, al divenire perpetuo. Forse un riferimento remoto potrebbe essere il logos spermatikos degli stoici, la ragione seminale che rigenera il tutto senza tregua. Logos che qui tende a cristianizzarsi ("Cristo/ risorge ogni alba"), ma non perde la valenza cosmogonica e la totale distanza dal potere, dalla pietra che fonda lo Stato, come capita invece nel cattolicesimo. La religione di Guglielmo Aprile, che ha nel cognome la rinascita vissuta come gioia, sta in esatta contrapposizione al mese crudele eliotiano e al pessimismo cosmico leopardiano, che, nel ciclo della materia, legge la non necessità di ogni specie, laddove Nessun mattino sarà mai l'ultimo coglie, in questo, l'ebbrezza dionisiaca che sostanzia la vita, fuori da ogni schema. Come San Francesco e Whitman, la gioia di vivere gli deriva dal riconoscersi parte di un flusso che non ha bisogno d'essere compreso bensì amato incondizionatamente; a differenza di questi due poeti, tuttavia, che si spendono nel voler essere la voce di un popolo (cristiano, il primo; americano, il secondo), Aprile patisce un sentimento di solitudine ("non ho amico che il vento,/ non ho più simili tra gli uomini", Patria naturale), che lo avvicina, per questo verso, a Leopardi, anche se, il suo, è privo di quella drammaticità romantica del recanatese. Stilisticamente, l'adesione al flusso vitale trova nell'enjambement la sua figura, che sloga e diversifica l'accadere, in un viaggio verso il futuro che è, già sempre, metamorfosi, ciclicità, non estranea al paganesimo, come ben evidenzia "profezia etiopica", in Il dio che vaga col vento.
Trovo che la recente fortuna critica di Guglielmo Aprile, finalista in alcuni premi letterari di valore, sia meritata, essendo egli il più degno erede della sacra barbarie vitalistica di Giuseppe Conte. Ciò malgrado alcuni recentissimi inediti evidenzino un languore nuovo, raccontato di sguincio nell'ultima raccolta, ma con chiara preveggenza ("I nostri antenati vivevano sempre all'aperto/ tutto il giorno a contatto/ con il sole, la terra, l'aria/ pregna di sale, di pioggia, di pollini./ Noi, invece, reclusi/ di abiti su misura e case di cemento,/ noi non sappiamo più sciogliere/ il nostro respiro nel soffio/ che domina le acque..."), quasi che il poeta, finalmente e tristemente moderno, avvertisse lo stesso sentimento di inutilità che pervase i romantici e che Schiller attribuì al poeta sentimentale.


da Nessun mattino sarà mai l'ultimo


Figli dell'universo

Quale fu l'impulso, la decisione
originaria, la mano che comandò
al pianeta appena creato di compiere
il suo primo giro? Quale urgenza
implacabile, quale sete tenace
affonda nel suolo la radice
avida d'acqua, e rovescia i temporali
sulla pianura? E chi o cosa ordina all'onda
di coprire un'altra onda, al maschio
bramoso la femmina: a quale scopo questa
necessità furiosa di perpetrarsi
del sangue e dei fiori, dei salmoni che salgono a ritroso
i torrenti in Alaska, e quindi muoiono?
E la forza che genera un solo filo d'erba
guida anche famiglie di soli
in viaggio per le distanze celesti,
e come plasmò sulla giovane terra
laghi e foreste e profili di continenti
così ha dettato all'uomo i suoi poemi e i suoi imperi;
e la stessa rosa di fiamme
pulsa e non dorme mai
nelle ampie maree e nel ventre del vulcano,
nell'occhio del diamante, nella galassia vorticante
e nelle tue domande.


Pianeta sacro

Ogni singola vita non è che una nota
dell'unica sinfonia che risuona
nel cavo di una conchiglia, nelle basse
frequenze percepite dai radiotelescopi
e nei richiami che le orche si scambiano
misurando in banchi, anno dopo anno,
le acque dei due emisferi, per andare
ad amarsi al largo delle coste
del Labrador o della Terra del Fuoco:
una semplice virgola del poema impresso
nelle serene architetture degli astri
e nel cristallo del diamante
sepolto e plasmato da ere di rocce e lave,

e noi, noi che danziamo e moriamo
sulla terra, siamo fratelli di alberi e nuvole
e di tutto ciò che scorre nel tempo,
siamo eredi dell'immenso pianeta sacro
e gli apparteniamo, tutti, il sangue
tuo, come quello del vento, non è che un'onda
nella risacca delle stagioni, dei germogli
..........................................e dei rami morti,
e tesse ciascun minuscolo filo d'erba
di un prato ai confini tra Cassiopea e la Via Lattea
nel quale il Dio bambino gioca
e riapre gli occhi ad ogni alba.


Ciò che chiamammo Dio...

È questa trama segreta, perfetta
dietro il travaglio della materia che muta:
è il suo ritmo profondo, impercettibile
come i canti dei capidogli al largo
o i moti di acque e terre emerse
sul pianeta, che obbediscono a tempi
pazienti, millenari: è l'abbraccio che lega
tra loro tutti gli esseri e li governa,
dal tordo che tra le foglie ricama
il suo nido, all'incendio che dissipa
la supernova, dalle lave che fendono
i fondali, al battere delle ali di un'ape;
seguono ellissi i pianeti e le lune
fisse, infallibili, come le migrazioni
dei grandi uccelli da un oceano all'altro,
o lo sperma che sa come cercare
il suo ovulo; un solo dogma decide
del gonfiarsi della marea e dei polmoni ritmanti,
procedono verso una stessa foce
il sangue dell'uomo e quello dei fiumi,
le trote in banchi a riprodursi sui monti
e il volo dei pollini per i campi:
una e sterminata, immensa è
l'energia-madre che ricrea, fa esistere
istante dopo istante il cosmo e noi.


Patria naturale

Non ho amico che il vento,
non ho più simili tra gli uomini,
non appartengo più a loro
ma al vento che flagella
i fianchi frastagliati dell'oceano,
straniero e in esilio dalle loro
città e repubbliche, parlo la lingua
ruvida delle onde poliglotte
che in un loro violento, oscuro braille
incidono un oracolo in attesa
da milioni di anni di essere
prima o poi da qualcuno
decifrato: qualcuno o forse io
che non più tra la razza
di chi bestemmia la pioggia e la terra, di chi adora
il piombo e il catrame riconosco
la mia cittadinanza, ma nel popolo più puro
degli uccelli e dei fiori, connazionale
io di vulcani e stelle, sangue
di conchiglie e di nebulose, io eleggo a mia patria
naturale il dominio
dell'erba e delle nuvole, le acque e i curvi cieli.


Stretti al suo abbraccio il pianeta ci porta

Non andranno perduti i resti del pettirosso
che infradiciano nella brughiera, ma
assorbiti dagli instancabili umori
dell'aria e del suolo, rinasceranno
convertiti, giunta ancora l'estate,
nel diadema di foglie che incorona i rami,
nei semi di cui un'altra nidiata
farà scorta, in attesa del nuovo gelo;

non lo scoiattolo inghiottito dal serpente,
né i piccoli della pernice
sorpresi e stanati da un puma tra i cespugli,
non il coyote assiderato tra le felci di cenere
mentre sotto la neve raspava
licheni e una carcassa di porcospino,
né la trota che muore appena ha deposto le uova

infrangeranno mai l'orbita
che il sangue batte tra la notte e l'alba,
e che l'azzurro pianeta schiumante e instancabile azzarda
attraverso gli anni-luce vuoti e pulsanti di stelle;

e ogni essere che dalla terra deriva
torna alla terra, e in essa perpetua il suo battito.


Una memoria, nel sangue, mi dura

Quanto di me è più barbaro e selvatico,
è più antico dell’uomo e del suo inganno,
delle maschere che l’alveare gli ha imposto,
ha il suo letargo nel sangue profondo,
tana latrante di orsi, selva di agguati e liane carnivore,
ha radici buie, sorde, ostinate
che scalano a ritroso
boschi sottomarini, fiumi ipogei che scorrono
da prima che nascessi, e si risveglia

con l’odore acre, pungente del biancospino
al confine dell’estate, dai calici
in cui si raccoglie, ad un tempo,
la mistica dei grandi cieli
e l’attrattiva, la memoria della terra,
l’inneggiante vertigine delle stratosfere
e il richiamo per l’elemento
primo, originario: le tracce di una mia discendenza
da acque, semi, letame e
pianeti.
................E l’orsa è un vascello fatato
In viaggio verso i porti di una patria
Perduta, e l’altalena delle onde
dondola il mio sangue, si culla incessante
tra l’oblio e il ricordo, l’esilio e il ritorno.


Ricomincia, da se stesso si rigenera

Non una sola piuma perduta in volo dal più fragile
dei naviganti dell’aria, i teneri fratelli del cielo,
gli uccelli, né il piccolo dell’orsa nato morto
(per riscaldarlo la madre spreca inutili carezze
con la zampa armata di artigli), né la tartaruga
che termina la sua corsa prima della battigia,
né il grano di senape che secca
sul terreno arido – niente – di ciò che attinga
le proprie linfe dalle radici della terra,
dalle mammelle
dell’acqua e del sole, niente di ciò che scorra
e si consumi, e consumandosi ancora scorra
andrà perduto, né io né te svaniremo
come le orme lasciate da due amanti su una spiaggia
di notte: nessun interrogativo
che si alzi dalle labbra della pioggia e del vento
pone fine al suo volto nei nidi spettrali scavati
nelle caverne dell’annientamento, nelle paludi
della dissoluzione.

E sempre macchie di muffa invaderanno
le mura di una chiesa in rovina, o le pareti
di una scogliera, sempre, e nulla potrà impedirlo.




Inediti


Vecchio mulino


Non teme inverno il passero, sa come
setacciare la terra
tenera e scura, arata
di fresco, e l’aria, in cerca della scia
di una compagna, delle ultime
more appassenti, di un angolo
che conceda al suo volo stanco
asilo (anche nel fitto dei rovi
scheletrici si sente come a casa
e sta sicuro), ora che nebbie ammassano
sulla pianura intirizzita, e brividi
denudano le siepi che da anni
nessuno pota più, intorno a remote
masserie.
Il cielo si fa indaco,
la sera attutisce il ricordo
della città, come l’intonaco
friabile, che cade
senza rumore su mucchi di fieno
dai muri vecchi
di questo mulino in rovina, che offrono
ancora un nido, un riparo
dal gelo e dall’oscurità avanzanti
pure a chi per ventura
solitario di qui una sera passi.



Nella debole luce


Arrugginiscono le foglie
sulle siepi smagrite, una crudele
emorragia fa scempio
del loro manto che fu verde, appena
due mesi fa. Eppure è così dolce

arrendersi a questo languore
lento, che assopisce i mattini
e fa pallido il cielo e vitrei i rami:
è come una carezza
questa debole luce in cui un altro anno
sprofonda e si dissolve; tu passeggi

e ormai esangui gli ultimi alberi
ti accolgono, quasi ti avessero
atteso tanto a lungo, per mostrarti
il carminio della loro ferita
e trovarne conforto, quella pena
segreta che li consuma e che tu
scopri anche la tua.



Guglielmo Aprile è nato a Na­poli nel 1978. Ha pubblicato le raccolte Ciò che Lazzaro vide (Campanotto 2004), II dio che vaga col vento (Format/La Clessidra, 2008) e Nessun mattino sarà mai l'ultimo (Zone, 2008). Suoi testi sono apparsi nell'antologia Da Napoli verso (Kairos 2007). Ha pubblicato saggi, recensioni e poesie sulle riviste "Zeta", "Poeti e poesia", "Le acque di Kermes", "pagine". Ha collaborato come cronista al quotidiano "II Mattino" di Napo­li. Attualmente abita e lavora a Verona.

25 commenti:

  1. sarà perché sono appassionato di documentari televisivi sulla natura, sì, non riesco a trattenere l'impressione di una certa implicita, filigranata, invadenza di un medium, di un occhio meccanico e provvisto di "frame", che filtra certe immagini in "presa diretta" come quella dell'orsa che carezza il cucciolo esanime, delle orche migratorie, dei salmoni che risalgono i corsi d'acqua dolce, di serpenti, puma, coyote affamati, ecc.

    non so dire se sia negativa o positiva quest'impressione, eppure se ripenso al sentimento panico dell'immersione fusionale nella natura di un Walt Withman (o di certo Hemingway nella prosa, il primo che mi viene in mente) non riesco a fare a meno di percepire una distanza, una contemplazione che passa da uno "specchio sporco" (come Gianfranco Bettetini usò definire il mezzo televisivo)

    mi piacerebbe sentire il punto di vistadell'autore - sperando di non irritarlo con questa mia illazione

    Mario Bertasa

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  2. caro Mario, piero angela e i documentari non c'entrano niente...
    Quelle immagini non intendevano descrivere dei momenti di vita naturale, ma semmai trasfigurarli, eleggerli ad exempla, a paradigmi veicolanti un messaggio essenzialmente religioso, che coincide col concetto induista dell'identità tra 'atman' individuale e 'Brahman' universale.
    Mi pare che la tua analisi sia finita fuori bersaglio, hai completamente sbagliato chiave di lettura

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  3. il problema vero è semmai fino a che punto io riesca a vivere in modo coerente con quel sentimento di approvazione religiosa dell'esistente, a trascendere effettivamente i limiti e le debolezze del mio piccolo mondo temporale nella percezione di un ordine divino che presiede al dolore individuale...
    è su questo punto che io per primo sono scettico circa la mia poesia e sono spaventato dal rischio che essa esibisca una 'illuminazione' che non so rendere stabile e duratura nel mio modo di sentire

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  4. la mia impressione è che certe immagini derivino da un immaginario effettivamente sedimentato attraverso i mass media. Giusto chiedere dunque all'autore se non ne ha colto l'elemento omologato. D'altro canto, dalla risposta di Aprile, mi pare di capire che la sua vera preocupazione è la coerenza fra arte e vita, fra dire e agire. Preoccupazione che riguarda non solo lui, ma lo stesso Mario Bertasa e quasi tutti i lettori di questo blog.
    Le poesie qui postate, tuttavia, risplendono di luce propria (se sorvoliamo sulle immagini naturali già viste altrove, cui fa riferimento Mario), sono vere prima di ogni conferma etica dell'autore. Verità dovuta allo stile, alla chiarezza delle sequenze, alla tensione che l'allegoria conserva, inarcatura dopo inarcatura.

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  5. Caro Stefano,
    con un carissimo amico non molto tempo fa avevo un intenso scambio su come non riuscissimo più a vivere le cose con spirito zen, ma ci lasciassimo travolgere e fagocitare da affanni per i quali anni addietro si sorrideva - a proposito di coerenza fra le scelte...

    non posso che sentirmi vicino a chi come te, caro Guglielmo, si interroga sull'effettiva possibilità che un atto creativo "esibisca un'illuminazione" priva di riflesso reale nella vita; che la propria ricerca artistica non sia, come diceva il grande pianista (e scrittore) Glenn Gould, "la costruzione graduale e per tutta la vita di un stato di meraviglia e serenità", ma soltanto una "liberazione di un'emissione momentanea di adrenalina". Spesso mi pervade il sottile timore di una non corrispondenza etica fra il detto e l'agito, il timore di rimanere abbagliato da qualche circostanza seducente che impedisce di vedere l'incoerenza. Una lettura spesso è un abbaglio di un IO invadente, che imprime le proprie immagini alla pagina, senza preoccuparsi d'altro che di ritrovarvi eco ai propri pensieri, sorda a quelli che aveva in mente chi la scriveva.
    Eppure, per ricercare quello stato di "apertura radicale" che col mio amico lamentavamo di smarrire, penso si debba accogliere a braccia aperte anche la *profonda insipienza* di chi ci esprime un giudizio che non riteniamo consono. Ho offerto alcune cose mie in siti della rete (liberinversi, lapoesiaelospirito, prossimamente forse un altro blog seguito) proprio per ricercare questo beneficio della critica, che quindi potrebbe venire anche dalla tua sensibilità, per restaurare in me quel sentimento che trovo efficacemente descritto da questi tuoi versi:
    "tu passeggi
    e ormai esangui gli ultimi alberi
    ti accolgono, quasi ti avessero
    atteso tanto a lungo, per mostrarti
    il carminio della loro ferita
    e trovarne conforto, quella pena
    segreta che li consuma e che tu
    scopri anche la tua.

    Mario

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  6. non è facile dialogare in rete. occorre pazienza, accoglienza e prudenza, tre baci insomma :-)

    gugl

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  7. ribadisco che la poesia per me deve affermare la vita, convertire il tragico in giubilo, l'angoscia di fronte all'annientamento in approvazione e in lode. Questo perchè ogni aspetto dell'esistenza,da quelli gioiosi a quelli feroci, è ugualmente manifestzione della divinità, e perciò va amato al di là dei fallimenti e delle frustrazioni legati alla nostra sorte individuale, la quale è nulla a confronto con il potere tremendo e bellissimo della creazione. Come il Leoopardi di un passo dello Zibald., che ribadiva che la dignità e nobiltà dell'uomo stanno proprio nella coscienza dello smarrimento e nella capacità di comprendere la grandiosità del cosmo

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  8. la poesia però ci precede sempre. decide lei per noi. più che ambasciatrice a me sembra matrigna o, se va bene, sorella. come la morte.

    gugl

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  9. una scrittura molto "primordiale" quella di Guglielo Aprile: ruota tutto intorno al paesaggio terreno, ai cinque elementi, alla creazione, alla natura.
    E poi questo volo che si ritrova sempre col suo senso di incompiutezza assoluta perchè ha bisogno d'andare sempre oltre...

    non conoscevo l'autore sinceramente, ma credo sia da scoprire!

    complimenti a Lui... e a Te Stefano per la proposta!

    Anila Resuli

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  10. grazie Anila. Ti consiglio anche Giuseppe Conte "l'ultimo aprile bianco", il primosuo libro, dove vengono trattati i medesimi temi.

    ciao!
    gugl

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  11. Lo cercherò volentieri Stefano, grazie! Non ho letto quel suo libro ma credo di averlo letto da qualche parte online come autore...
    Mi mancano comunque così tanti autori da leggere poi...spero di rifarmi presto su tutto e tutti :)

    Anila

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  12. "...un verso che ricorda ora Withman (nome speso anche dal prefatore), ora Paz (Epopea dell’acqua), ora Neruda (Metamorfosi pagana), ora Borges (Teologia della sabbia e delle galassie, Kosmos) con una visionarietà e una forza espressiva rare nel panorama contemporaneo. Siamo di fronte ad una poesia impetuosa, dove la natura tracima e non si temono metafore ardite e antropomorfiche."
    Così ebbi già modo di esprimermi su questa terza raccolta di Aprile. Credo di poter confermare il positivo giudizio anche dopo l'interessante approfondimento letto qui sui pericoli delle omologazioni delle immagini usate nelle metafore, sulla poesia che ci precede e sul complessivo rapporto del poeta con la natura. In ogni caso mi pare che tutti, Guglielmo per primo, si siano spiegati benissimo.
    Un caro saluto a Stefano e Guglielmo
    Antonio Fiori

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  13. E poi, se vogliamo trovare una fonte alla mia scrittura, quessta non è nei documentari televisivi, come ingenuamente qualcuno ha pensato, ma in Alce Nero e nei Canti Navahos, nei Veda, nella storia delle religioni - testi quasi sconosciuti in Italia, dove c'è un altro trend...
    la diversa formazione culturale tra me e i miei (pochissimi) lettori è la causa prima dell'incomprensione della mia poesia

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  14. caro Guglielmo, non pensare che i lettori di questo blog leggano soltanto tex willer, e soprattutto non mi pare che i commenti alle tue poesie lascino intendere l'incomprensione.

    un caro saluto
    gugl

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  15. ... sarà che mi sono fidato troppo dei "romanzati" reportages di Jaime De Angulo (Racconti indiani) e del modo in cui ha cercato di compenetrare, da occidentale che ha vissuto per decenni presso i Pit River e altri popoli nelle riserve indiane della California, il loro sentimento di fusione fra comunità degli uomini e comunità degli animali, eppure non riesco a mettere in relazione i falchi, gli orsi, le volpi, i coyote (nonno coyote che dopo aver lottato con una pulce si mozza la testa per farla rotolare giù dal pendio e spaventare il villaggio, per sottrarne il tesoro di gingilli colorati...) così come vissuti e narrati e cantati da quelle culture, con le allegorie del mondo animale che leggo nei tuoi lavori (non il coyote assiderato tra le felci di cenere / mentre sotto la neve raspava / licheni e una carcassa di porcospino)(se però circolano pochissime testimonianze dei canti dei nativi nel nostro mercato, non è colpa solo dei pigri cultori come me, che si sono fermati alle voci degli Inuit del Cricolo Polare Antartico e a qualche trascrizione su rigo musicale di dubbia qualità di canti funebri dei Chippewa-Obiwa)

    ma per carità, voglio farmi perdonare del fatto di avere, con un rilievo del tutto personale e passibile di diniego per mia stessa ammissione, di avere obnubilato altri tratti di una scrittura e di una poetica che non disprezzo affatto

    Mario

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  16. Caro Stefano , ma come posso non credere che la mia poesia sia stata fraintesa o non compresa, quando qualcuno mi viene a dire che gli fa pensare alla tv? Un effetto ben diverso da quello che intendevo io. Anzi, pare quasi che le cose che io ho scritto e quelel che hanno interpretato altri, con la loro sensibilità prevenuta, siano due prodotti assolutamente differenti. Non è il mio sguardo ad essere condizionato dalal tv, ma quello di chi arbitrariamente vi ha colto simili analogie.
    io volevo che la mia parola fosse annuncio, che rivelasse a chiunque il soffio di Dio che tiene nella sua mano ogni cosa vivente, e che un tale messaggio avesse una ricaduta etica su chi lo udiva. Ma ho seminato le mie parole su un terreno sterile, a volte. Che mi importa che il sign. Bertante mi faccia sfoggio dei libri che ha letto? voglio mica mettermi a gara di erudizione con qualcuno forse? si sforzasse, piuttosto, di intendere quello che i vento di continuo ripete, quello che tutti i fiori e gli uccelli dei campi conoscono, e che l'uomo ha dimenticato, se vuole penetrare il senso del mio libro e, quel che più conta, se vuole portarsi a un grado più elevato di coscienza. Mi viene a citare gli Indiani d'America: io laggiù ci sono stato, e tu lo sai perchè hai ricevuto 'Il dio...' Avevo 22 anni e le scarpe sfondate, all'epoca: lì avverti davvero un alito più grande, immenso e impalpabile, vicinissimo anche se irragiungibile, che abita le distanze tra una parete e l'altra, e le colma, e così i ciuffi d'erba tenaci aggrappati alle rupi.. E sei preso, all'idea di dover tornare alla vita civilizzata e alle città piene di traffico, da un senso di costrizione, di soffocamento, e insieme da una enorme nostalgia per quelle solitudini libere... Eppure, gli spazi ti riempiono talmente l'anima, ti appartengono così profondamente, che nulla, dopo, ti può fare più paura, nulla ti scalfisce dei discorsi della gente, della loro cecità e debolezza - e della tua!, e di tutta l'importanza che una volta davi alla 'tua' vita...
    Anche in 'il dio...' c'era il sentimento del palpito concorde che attraversa gli oceani, le vette, gli alberi, e la nostalgia tuttta umana di ricongiungersi ad esso. volevo, in quel libro, che si provasse lo stesso sgomento di fronte al silenzio degli altopiani che provai io, un silenzio che non ritrovi in alcun altro posto al mondo. Libro che scrissi sotto dettatura della musica del mare, dello strepito delle onde. E anche quando sono lontano dal mare io il suono della sua voce me lo porto dentro, nel ricordo. Il grande Capo Jospeh della tribù dei Nasi Forati diceva: "Io e la Terra siamo stati ugualmente concepiti", e parlò di persona a un generale americano dicendogli che solo il Creatore poteva disporre delel terre e delel vite di tutti. Commovente ingenuità, creder ebastasse questo a fermarlo. Vedi poi anche la lettera che il capo Seattle scrisse al pres. Washimgton nel 1852: "le corste rocciose, i fiume, il calore del corpo del pony e l'uomo, tutti appartengono alla stesa famiglia". Caro Mario, se ti importasse sinceramente del tuo legame con la Terra, sapresti trovare agevolemte materiale sulla cultura dei nativi. Per un primo approccio, mi permetto di consigliarti i titoli che trovi su www.saggezzapellerossa.it; i poeti nativi maggiori oggi sono Simon J. Ortiz, N. Scott Momaday, Normal H. russell. Avevano una intimità così dolce con la Natura, che noi l'abbiamo persa dal tempo dei Greci. Che gli animali siano guide e maestri, lo sanno bene gli sciamani, come oggi una poetessa quale Carol Snow. In Italia siamo troppo miopi per accorgerci di certe tradizioni. Ma libri sugli Indiani e degli Indiani ne trovi in abbondanza, caro Mario: vedrai che la 'mia' idea che alberi e animali siano dotati di uan vita spirituale ricca più della nostra è già stata loro, e che essa è presente da sempre nel mondo a tutte le latitudini, anche se in noi si è smorzata...La poesia pellerossa è a sfondo mistico-religioso: loda il 'Grande Segreto', o Wakan-Tanka, in lingua Lakota. Vedi Black Elk speaks, a cura di J. Neihardt, uscito per Adelphi.
    Sentire che ogni cosa non è solo se stessa ma anche tutte le altre; anzi, che non esiste, che è 'maya' se considerata di per sè; sentire che anche l'uomo, anche noi non 'siamo' davvero se non riconoscendoci in quella totalità. Portare questa testimonianza a chi è disperato, a chi è scettico, e a me stesso! questa la responsabilità che accollo alla mia poesia.
    Discutere la fondatezza filosofica di una simile tesi: questa sì che mi sembra una critica più affascinante...

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  17. caro Guglielmo, Mario è una persona colta e sensibile. Non merita il tuo attacco. Capisco che abbia toccato corde difficili, ma sono sicuro che se tu lo avvicini con affetto (cristianamente?), lui saprà darti tanto.

    io penso che un testo sia come una vita nuova: decide lui per suo madre e per sua madre. Risponde lui per noi. Se qualcuno gli parla insieme, se lo interroga, non sempre egli conferma le direttive di chi lo mette al mondo. L'autore insomma dovrebbe avere l'umiltà di tirarsi indietro, di lasciare l'opera sola, come dice Cesare Viviani.

    ciao!
    gugl

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  18. caro Stefano,
    da parte mia Guglielmo è già nella "comunità ideale", in costante progressiva espansione, di coloro cui mi affeziono, e senza la pretesa di essere ricambiato

    e poi Guglielmo mi/ci fa questo straordinario regalo di rimandi sulla cultura e la poesia dei nativi d'America... (avrò mai il tempo di leggere tutto ciò?!...)

    ma scusa ancora, Guglielmo, se il tono della mia critica è stato intriso di quella saccenteria (vecchio mio difetto non ancora del tutto estirpato) che fa passare in ombra l'intenzione costruttiva della critica stessa

    se poi non mi sono accanito a discutere la fondatezza delle tue tesi filosofiche di fondo, è perché le medito con elevata prossimità e non mi trovo discordante - mi accalorerei se qualcuno le attaccasse - sarebbe in fondo come se qualcuno deridesse ciò che cerco nelle "solitudini libere" delle vette da dove, senza che per ore alcuno ti sfiori, se non stormi di corvacci o falchi in solitaria, puoi respirare l'accerchiamento delle nevi eterne (sempre che l'effetto serra...), di crepacci e strapiombi, di vallate anguste

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  19. Caro Mario, non mi fraintendere, ti prego. Guarda che io la tua poesia la apprezzo e anche molto. Ho letto di recente il tuo 'Lo stato attuale dell'arte', su un blog. A d esempio, molto toccante il primo di quel ciclo di testi. Anch'io, se guardo alla vita passata, provo la stessa sensazione di irrecuperabile. Tu l'hai espressa con intensa forza emotiva nel simbolo dei 'bottoni che si perdono' incessantemente, finiti chissà dove... Vero, il tempo è un cappotto che sis scuce di continuo. Da una unità originaria, l'azione degli anni ci smembra, e i pezzi di noi, o di ciò che eravamo noi, si disperdono. Davvfero bello, hai tirato fuori qualcosa che finora sentivo ma di cui non avevo parole: come una rivelazione. Cosa che mi succede ogni volta mi trovo davanti della poesia vera.
    Non era certo mia intenzione avere una discussione con un poeta che ammiro sinceramente e eni cui versi mi ritrovo, credimi, ma alle volte reagisco di getto in modo irriflessivo. Ti resto grato,per il profonmdo incontro con la nostalgia che quei tuoi versi mi hanno consentito - ciao!

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  20. pensa che invece un carissimo amico, fine estimatore e tenace divulgatore di poesia, mandandomi un suo commento in privato, quella del bottone non l'ha nemmeno "cagata di striscio", spostando invece il suo gradimento su altri brani...

    ma non si parli di me, qui, bensì di te, e se mi concedo questa battuta è solo per rimarcare il severo gugl-monito (via Viviani e quant'altri) sull'autonomia del testo dal suo autore, cui si potrebbe rimediare solo tenendoseli sottochiave...

    è forse lo scoglio più insidioso, quello che può frapporsi irrimediabilmente fra chi scrive, sentendone tutta la responsabilità, come te, e chi si vorrebbe toccare con la propria voce per lenire una ferita attraverso il proprio stesso dolore che diviene balsamo; o chi si vorrebbe scuotere dal suo torpore/rassegnazione con la propria indignazione civile, o con la propria ostinazione nel ricordare, come insisti tu, che forse non tutto è perduto, che un'Origine è ancora viva e pulsante ad indicarci che "nessun mattino sarà mai l'ultimo" (e ripenso a quello che ha scritto il caro Marotta sull'oltretomba degli antichi egizi come Nuovo Mattino); insomma, come tu dici, poter dare un appoggio a chi sta nella diperazione, nello scettismo...

    si può soffrire se il proprio messaggio non giunge agli altri... Però l'esperienza dei miei inizi, quando si passavano le giornate nei bar con gli amici a leggere e leggersi e criticarsi ed entusiasmarsi, mi ha lasciato addosso la convinzione che un messaggio passa quando la sua forma è incrollabile, vagliata più del grano dalla pula, messa a ferro e fuoco (sì, come il dantesco "fabbro" del "parlar materno" che apprende a misurarsi col "bogliente foco" della parola, delle strutture grammaticali e sintattiche, delle complessità delle valenze semantiche, della plausibilità delle "figure retoriche"...), e allora: si può soffrire se il proprio messaggio non giunge a qualcuno, eppure, se almeno si è curato, al massimo delle proprie forze, di coniugarlo nella solidità di una sua forma, prima o poi da qualche parte gemoglierà (è la flora, del resto, per non parlare solo di fauna, che ce lo insegna attraverso il guscio straordinariamente coriaceo dei suoi semi, anche i più piccoli)

    [solo per questo mi curo di affacciarmi nelle pagine altrui con piglio critico, anche rischiando di non centrare, ma è sempre meglio che badare solo a se stessi] [dopo quanto hai argomentato non ho più dubbi sul fatto che "non c'entra Piero Angela"... Ti ho riletto con attenzione, per verificare l'insensatezza o meno della mia ipotesi, e in effetti devo correggere il tiro: quello che percepivo come "invadenza di un medium", "di un frame", non va affatto ricondotto allo "specchio sporco", semmai ad una ricorrente struttura della costruzione metaforica che procede per accumulo di immagini fortemente condensate, nelle quali il predominio del paragone e del traslato possono offrire al lettore, sul piano formale, non sicuramente contenutistico, la sensazione di una potenziale ma non attuata espansione dei "condensati", di una possente evocazione fatta transitare attraverso suggestioni "veloci", di cui invece si agognerebbe la dilatazione, quella dilatazione spazio-temporale che sfiora l'estasi e la trance... Ti faccio un esempio: "procedono verso una stessa foce / il sangue dell'uomo e quello dei fiumi" è un'immagine in sé straordinaria, tra l'altro mi fa subito pensare ad un bellissimo racconto di Calvino, "Il sangue, il mare", che oggi si legge in "Tutte le cosmicomiche", un racconto in cui la forza evocativa di un'immagine analoga alla tua viene scatenata in un caleidoscopio di sviluppi narrativi, fino ad includervi proprio quello scetticismo cosmico da cui invece tu (e io e altri) rifuggi (rifuggiamo)... Insomma, se ritorno ai dintorni di questi tuoi due versi, vi trovo varie altre immagini di altrettanta lapidaria forza, ma che nel fluire della "lettura/ascolto" viaggiano ad una velocità che, per così dire, me le ha bruciate in fretta - donde lo sciagurato paragone della "metrica" di un mezzo massmediatico che impone di fermarsi all'epifania dei fenomeni, anziché alla compenetrazione che tu miri a celebrare, a partire innanzitutto dalla tua vita, compresa la tremenda fatica di risvegliarsi, al ritorno da una rivelazione esperienziale, "tra la razza / di chi bestemmia la pioggia e la terra, di chi adora / il piombo e il catrame" (quest'ultima, tra l'altro, a titolo di esempio, invece la trovo un'immagine che ha la giusta condensazione in rapporto all'incedere degli ottimi versi in cui è scandita

    Caro Guglielmo, fraintendersi è sempre possibile, fa parte della natura del linguaggio, come dello sforzo di dire "un oracolo in attesa di essere decifrato", di dire che ho visto cose grandi nella tua ricerca ma che, come già più volte scrissi a fraterni amici, non mi esimono dall'esortare: "friend, continue to search"

    (p.s.: in inglese e non in italiano... solo perché è una perla ritrovata negli scritti di John Cage...)

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  21. sono proprio felice di leggerequesto scambio d'amicizia, questi doni.

    a proposito di Marotta:sarà a vicenza (libreria mondadori) il 20 febbraio, ore 21,00 assieme a francesco tomada.

    se siete nei paraggi...

    gugl

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  22. Caro Mario, leggo con grande piacere le ute osservazioni: di rado ho sottoposto i miei testi a uno sguardo così attento, oltre che così fine, e soprattutto sincero, come se quello che ho scritto io potesse toccare anche te. Penso sia la soddisfazione maggiore trovare simili lettori, al di là della riuscita o meno della forma... In generale, gli ambienti letterari sono spesso superficiali: il critico dovrebbe chiedresi 'è davvero riuscito l'autore ad arrivare dovesi era prefisso di arrivare? e se no, cosa glielo ha impedito?'
    In genere trovo nei blog i testi più banali del mio libro, non so perchè, mentre i testi che a mio avviso valgono di più non trovano spazio. Per non dire de 'Il dio che vaga col vento', il libro precedente, che - non mi stanco mai di dirlo - è più limpido, più ingenuo, più libero da preoccupazioni filosofiche; ma che è come non fosse neanche uscito...
    D'altronde, ci capita di non essere capiti, o di essere fraintesi dagli altri, anche quando viviamo, non solo quando scriviamo: spesso parlando con una persona ci accorgiamo che questa non ha capito nulla di noi, che sta avendo a che fare non come siamo noi davvero, ma con l'idea che lei si è fatta di noi. Così, è come se non vivessimo davvero, ma fosse una persona sconosciuta, che magari con noi ha poco a che fare, a vivere al posto nostro. Un problema pirandelliano... Io personalmente trovo difficoltà a interagire con gli altri esseri umani, perciò mi rifugio tra alberi e cieli aperti di nuvole: mi sento accolto meglio da loro...
    E poi, anche i nostri rapimenti ed estasi passeranno, non sono che momenti, perchè 'passa la sc ena di questo mondo', come disse San Paolo ai Galati... C'è qualcosa , però, che va molto oltre il nostro sforzo di afferrarla, e di fronte a cui perfino la scrittura può poco. Troppo grande per le nostre parole: possiamo solo sfiorarla a sprazzi, in qualche ora fortunata, se Atahualpa, o qualche altro dio, è benevolo...: presagirla, ma non mai possederla: altrimenti il mistero finirebbe, e tutto si ridurrebbe a una formuletta aritmetica... Ciao

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  23. Non lo so, mi pare tutto un bluff...e' un tipo di poesia forse superata, che non sa cogliere il midollo del nostro tempo scettico e laicizzato

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  24. Concordo io per primo con l'opinione espressa poc'anzi da Anonimo: la mia produzione in versi avrà anche goduto di un'effimera risonanza, ma questa si è presto rivelata un fuoco di paglia, non appena si sono esauriti il patrocinio e la benedizione di Conte che inizialmente le avevano fatto da volano; ed ora nessuno più se ne interessa, ed è finita in un patetico dimenticatoio, dove io stesso ammetto che e' giusto che stia. Guglielmo A.

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    1. Mi pare che cedi con troppa facilità. E poi l'idea che la poesia debba cogliere il midollo del nostro tempo non è detto che sia l'unica praticabile.

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