domenica 11 marzo 2012

Giannino di Lieto



Nel 2010, Interlinea ha dato alle stampe Opere, un volume meritorio su Giannino di Lieto (1930-2006), punto d'arrivo di una riscoperta iniziata con il convegno sul poeta campano che si svolse a Minori (prov. di Salerno) nel 2007, i cui atti uscirono con il titolo Giannino di Lieto. La ricerca di forme nuove del linguaggio poetico (Anterem, 2008). Nel saggio che apre Opere (già incluso negli Atti), Giorgio Barberi Squarotti affronta le ragioni fondanti di una scrittura – in particolare quella che di Lieto produsse negli anni settanta – che nel complesso, dice, offre "un enorme, popolarissimo, babelico museo", finalizzato a "esemplificare" l'inutilità del tutto. Un'inutilità, aveva prima precisato, preesistente all'apocalisse di cui siamo superstiti e che di Lieto descrive, come un Beckett italiano, mostrandosi in conflitto non soltanto con il neocapitalismo, ma anche con la posizione borghese della neoavanguardia.

Ci sono altre possibili letture di questa operazione per accumulo presente da Punto di inquieto arancione a Racconto delle figurine & Croce di Cambio; gli Atti ne mettono in piedi alcune, spesso sostenute da critici sintonici alla sperimentazione (penso, fra gli altri, a Ermini, Cappi, Lanuzza, Ferri e Fontanella). La mia è la seguente: gli innumerevoli aggregati linguistici, ibridamente organizzati e perturbanti, che paiono collocati nel lato oscuro della luna, un lato ariostesco quanto pinkfloydiano, arcaicamente ordinato eppure caotico, insieme pop e jazz, non mi sembrano una raccolta di emblemi dell'invivibilità occidentale, bensì esistenze, enti che malgrado tutto vivono, se non più con onore in terra, almeno con grande dignità nella scrittura. Sono enti particolari, tuttavia, segni ordinati in sequenze (per esempio: «nulla è dato ciò che avanza piomba in ballate da un soldo»), la cui funzione vale, in prima battuta, per la forza reliquiaria del metro, che diventa teca in cui si esibisce non materiale inerte, bensì, per via esemplare, l'imprendibilità del discorso non ancora conformato, comunicativo. Poesia, in questo senso, non dialoga esplicitamente con la tradizione colta né con alcuna altro recinto, alto o basso che sia; semplicemente è la via più diretta per mantenere viva una lingua nei suoi snodi pregrammaticali e preideologici. Così come avevano fatto i dadaisti e i surrealisti, di Lieto salvaguardia quanto la specie umana ha prodotto, il linguaggio, prima che diventi strumento di persuasione e, dunque, di potere. Ce lo presenta come materia ostile, non maneggiabile, e per questo indigesta alla lettura, che tiene alla larga il consumatore frettoloso di messaggi, il cercatore di verità confezionate. Giovannino di Lieto riporta dunque la lingua alla sua alterità, quella che agisce sulle strutture subliminali, sul simbolico prima che sull'economico, una lingua che esce dalle crepe del senso, impedendoci di riordinarlo, così lasciandoci nella ferita che ci accompagna dalla nascita, nell'estraneità che ci costituisce, agendo per noi nella forma della pulsione, del desiderio, della mancanza. Come uno specchio, questi testi rimandano la nostra immagine frantumata e la rimettono in movimento verso un'impossibile ricomposizione, mai esaustiva. C'è molto Lacan in questo progetto, e Zanzotto. E la cultura italiana più importante degli anni sessanta-primisettanta. Per quanto alimentata dallo stesso autore (cfr. gli Atti, p.35: «Il "Gruppo 63" riconsegna anzitempo il gonfalone al "Palazzo"»), trovo fuorviante la contrapposizione messa in opera da Barberi Squarotti tra neoavanguardia e di Lieto, negando valore alla prima per esaltare l'autenticità del secondo. E ciò al di là degli effettivi rapporti, pare non idilliaci, tra il gruppo e l'autore.  A me pare, invece, che la relazione tra linguaggio e ideologia, la consapevolezza autoironica tanto del Nostro quanto di Sanguineti, Balestrini e Giuliani, l'idea che il lettore debba diventare soggetto agente anziché mero consumatore passivo (di Lieto: «L'inconscio [...] riconduce l'altro, cioè il Lettore alla sua ineliminabile 'parte' del fenomeno Comunicazione»), attestino la vicinanza di questa poesia non soltanto con la neoavanguardia, ma con tutta la tradizione europea che opera sul significante, per quanto appunto di Lieto rivendicasse con orgoglio la propria inappartenenza consortile («questa poesia – scrive in Processione impiegatizia dei concetti – non ha Padri, non ha Modelli [...] non ha maestri, ripudia gli imitatori, non cerca adepti»), ironizzando sui «Nobili codini al Circolo [che] parlano della prossima partita di caccia mentre a Parigi assaltano la Bastiglia». Dello stesso parere è Luigi Fontanella, nel saggio che chiude il libro, il quale allarga la rete di relazioni nostrane, aggiungendo il lavoro di "Tam Tam" (non a caso Nascita della terra uscì presso Geiger) e quello delle riviste campane e di autori come Stelio Maria Martini e Luciano Caruso.

Quanto scritto finora, se da un verso intende storicizzare l'opera di Giannino di Lieto all'interno di una koinè in forte debito con la cultura antagonista del primo novecento e in dialogo con le neoavanguardie italiane, apre a una questione decisiva rispetto alla poesia italiana contemporanea: la possibilità di praticare ancora oggi una scrittura che Fontanella descrive come un «intreccio semiautomatico di ciò che [di Lieto] chiamerà 'correnti di esposizione', dove la fuga-di-parole e le parole-in-fuga, insieme alla dimensione onirica, determinano un turbinìo verbale al limite della sua stessa espressività». Tale procedimento tiene in effetti aperti i canali pulsionale e ludico, ma soltanto all'interno di una condivisione preliminare ed elitaria delle regole del gioco tra autore e lettore; operazione necessaria negli anni sessanta e settanta, quando i mass-media stavano impossessandosi dell'intero sistema comunicativo, trasformando il popolo in pubblico, ma, oggi che il processo si è compiuto, inefficace non soltanto perché non entra in nessuna crepa del sistema, troppo organizzato per esserne scalfito, ma soprattutto perché avvertita ostile dagli stessi consumatori che vorrebbero ritornare ad essere popolo o esserlo per la prima volta. Detto altrimenti: lo sperimentalismo delle neoavanguardie, nel quale inserisco anche il di Lieto degli ultimi trent'anni del secolo scorso, sino a Le cose che sono, è stato senz'altro necessario per uscire dalla sacche del tardo-romanticismo ermetico, ma ora mi sembra inadeguato ai bisogni del migliore pubblico della poesia che, in quanto tale – proprio per aver scelto di essere pubblico della poesia – resiste all'omologazione dei consumi, scegliendo appunto quei beni – i testi poetici – capaci di approfondire autenticamente il senso del presente, pubblico e privato. Per questa ragione credo sia oggi più importante un scrittura che sposti la mira dal pulsionale all'emotivo-sentimentale (sfera inquinatissima dallo stereotipo), dalla decostruzione del significante alla ricostruzione del significato, accorta tuttavia del fatto che quest'ultimo non è mai dato a priori, ma si organizza in un sistema fragile, dialogico, continuamente da verificare, in cui pensiero ed emozione fanno corpo comune: soltanto così, infatti, la violenza del dato, che si impone nella sua cruda e indiscutibile presenza, si trasforma in non violenza dell'evento, che ha luogo all'interno di una comunità democratica e perciò antagonista alla dittatura dei linguaggi del potere totalitario (sia pure il totalitarismo dei consumi), una comunità dove la poesia diventa palestra in cui nessuno, né l'autore né il lettore, tiene il bastone. Ed è per questa ragione che trovo di gran valore alcune poesie tarde di Giovannino di Lieto, rimaste inedite in vita, nella quali il discorso torna riconoscibile, seppur franto, anzi necessariamente di grado differente sia dal povero e falsamente integro frasario mass-mediale e sia dalla sua scarsa forza immaginativa. La novità fu tra l'altro evidente all'autore, il quale, nelle Divagazioni sul testo che precedono le poesie ora edite sia dagli Atti che in Opere, rileva nel proprio fare una «Nuova Tendenza [...] fra pazzia visionaria e l'apocalisse. Ma diversa, in nuce, non meno suggestiva di una prima maniera: geometricamente precisa, quasi una concezione euclidea». Bene hanno fatto dunque i critici e i poeti raccolti nei due libri citati a far conoscere questo autore, il cui percorso – partito con un evidente, seppur talvolta originale, epigonismo ungarettiano (cfr. Poesie, 1969) – ha arricchito  ulteriormente la storia della poesia italiana contemporanea, agendo con ostinato senso dell'integrità morale e artistica, tanto da rimanere ai margini del sistema letterario.
Rilancio la sua lettura su Blanc de ta nuque, sperando di contribuire alla sua sistemazione storiografica e a tenere aperta la discussione sulle poetiche contemporanee.


Nel blog di Francesco Marotta poesie tratte dal libro e un'interessante lettura di Flavio Ermini.


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