sabato 16 giugno 2007

Dario Villa

qualcuno dei lettori l'avrà conosciuto questo poeta, al quale gli amici hanno dedicato una finestra virtuale (ma reale) e una poesia, in memoriam.


La sua indole giocosa, neobarocca, ha sedotto la critica, ma il suo ultimo libro, Abiti insolubili, mi pare invece un tentativo di riscattarsi da questo angolo e dalla navigazione di superficie cui esso allude. Quando infatti Villa lascia la voce al profondo, l'inquietudine gli guida la mano e la passione, evidente, per il ritmo, per il suono e per la sensualità, trovano nella lucidità di sguardo il proprio nerbo. Una poesia ricca, questa, ma di un dannunzianesimo alimentato dal fuoco della perdita, dalla crisi in cui la poesia postavanguardista si è trovata ad operare, legata soprattutto al riconoscersi postuma e dunque impossibilitata a promettere un futuro.
In un post a lui dedicato (a cura di Luca Ariano), Maria Pia Quintavalla lo ricorda così: "Dario era un bravissimo poeta, e uomo straordinario, sapeva volare (anche troppo), comprese le sue debolezze, che lo hanno travalicato, sotto forma di malattia, ma aveva un animo candido, estatico. Lo ricordo bello, di giovinezza insieme al suo grande amore, Marta P., e alla fine, anche se travolto dal male, andò a presentare il suo ultimo, “Abiti indelebili” , presente Raboni, in una galleria, sfidando la gente che lo fissava... Amava tanto la vita".


*



mi usa come teatro ed è soltanto

un giardino di crude vite erbali

vanesio che si gloria con i semplici

e induce enormi sue complessità

d'intrico ad infestarmi le ragioni

del cuore sradicato da un volere

già vacillante per le ripetute

apparizioni della belladonna

tra le pause del gesto e l'ampio spettro

di replicate vestizioni in fondo

allo specchio che falcia il tempo degli

steli che mi sobilla a trapiantare

stili semi pupille lingue strane

sotto l'ombra nevrotica dei rami

dei traumi dove gli orti sono storie

illividite in vecchi blu d'ortensia

o isterie lillà di glicini e lini

le storie degli umani intendo viste

da molte lune o dal corpo celeste

che mi coccola fatuo fiocco d'ombra

tra il giallo del pensiero e della viola

bastarda che mi accorda la radice

scoperta appesa a un ramo per i nervi

d'ogni fioca parola che fiorisca

o fragile inflessione entro la sfera

di fiamma dove m'abbarbico e duro




*



lei si nutriva di creme, di zolfo celeste,

d'estetica trascendentale, di metafisica del diluvio;

educava mi sembra un giardino cutaneo,

un medioevo catartico a fior di pelle


a cena con scardanelli faceva la pindarica

però poi dava corda alle tirate di goethe,

perché agognava il demonio, piedino forcuto,

e leggeva il giornale, «ma il tedio ha più corso»


la rivedo, gestante che sogna un siamese,

tra vampate di zelo in un fuoco di specchi,

mentre brucia serate tra l'arcolaio e la stufa

provando al muro la fiaba dell'unicorno lunare


quando il bambino nacque, rompendo i liquidi
(e perse il mare), lei si trasfuse in caute metamorfosi,
mise il piede nell'alveo, che è oggi e scompare,
si trovò tra le mani due anime, o veli, e si mise a lavare





*




o ci eravamo forse
conosciuti sull'istmo, sulla
lingua terrestre che parla
e pronuncia due mari: zone
di tutti i giorni, costola
di significati sassosi, passaggio
frustato dalle correnti:
ma certo in mare aperto
tutto sarebbe parso più sicuro,
meno complesso, ma intricato e oscuro:
qui però mi sentivi inammissibile,
risfolgoravo a tratti nelle tenebre,
ero il vecchio lampione che delucida
sintassi impenetrabili, ombrosissime,
di viali e deviazioni, vuoti e incroci
improvvisi: e che io ti cercassi

non era cosa che ci concernesse

più del sale bruciante nell'aria

marina popolata di carcasse

non impreviste ma significative





*




non ha sapore la morte mi vedi
mentre mi scappa sotto i piedi un treno e dico
devo stare più attento depongo
ricordi nelle apposite cellette
deposito bagagli buca lettere
viene il postino e niente mi ghermisce
scompaiono i binari
i grovigli si sciolgono il vento
fischia tra l'erba che mi cresce addosso
scompiglia il buio e non c'è buio
rompe la luce e non c'è luce niente
niente mi ghermisce

4 commenti:

  1. l'interlinea è spazio 1 per tutte le poesie. I soliti scherzi di "Blogger".

    RispondiElimina
  2. Segnalo tre traduzioni di Santi Spadaro in inglese negli ultimi aggiornamenti di nabanassar (www.nabanassar.com), versante anglofono. Ciao. GiusCo.

    RispondiElimina
  3. ciao Giuseppe, ben fatto!

    gugl

    RispondiElimina
  4. Caro Stefano, stasera facevo una ricerca su Dario Villa e sono capitata qui.
    Proprio ieri l'altro ho ricevuto dalla California in omaggio il poemetto "Venere strapazzata dai lunatici" tradotto in inglese da Duncan McNaughton, poeta e amico di Dario Villa (su internet mi sembra però di non aver trovato i testi traslated).
    Un saluto carissimo
    Mapi

    http://lucaniart.wordpress.com/

    RispondiElimina