martedì 2 marzo 2010

Giovanni Nuscis


Malgrado La parola data (L'arcolaio 2009), di Giovanni Nuscis, metta in epigrafe, citando Ranchetti, la supplenza del vedere all'esser vivo, sceglie poi la pratica della parola quale decisa viandanza nell'intrico quotidiano del senso, un andare tracciando strade in quell'inquieta penombra che è il presente della comunicazione. La possibilità di vedere, presuppone dunque la necessità di far chiarezza, emergendo da quanto c'impedisce di stare alla luce, di comprendere quanto ci tocca. Questa poesia sembra infatti ripetere, ad sua ogni svolta, l'atto del nascere al senso e al mondo, quel tempo indefinito del venire a patti con l'imponderabile, la cui falce sempre s'impone attraverso la richiesta di decodificazione. La poesia di Nuscis, insomma, racconta l'eventualizzarsi del senso, lo mette in scena l'attimo prima che condensi e s'irrigidisca, salvandolo in quanto possibilità aperta, dopo che lingua della comunicazione ordinaria ha finalmente svelato la propria vocazione all'incomunicabilità. A partire da questa evidenza, certificata dall'intero Novecento, la parola data non solo si rigenera attraverso la funzione poetica, con tutti i suoi artifizi retorici (mai tuttavia fine a se stessi, e comunque sempre modulati con la sordina), ma, come rileva Roberto Rossi Testa nella prefazione, vuole altresì essere un impegno preso dal poeta stesso (dare la parola, mantenere un impegno preso) nei confronti della comunità, evidenziando così di questi versi la loro radice civile ed etica. Resistenza che si svolge, come detto, anzitutto nella lingua. Per questa ragione, egli non può permettersi sbavatura di sorta, anche a costo di risultare talvolta oscuro, come nella migliore poesia che fa i conti con le forze ctonie della vita. Ecco, appunto: ne La parola data siamo di fronte ad una ricerca che, edificando parole, sfocia nel cuore della vita.




Tu scrivi in un angolo
e io ti leggo e commento
e come coscienza remota
t’affioro e tu m’ascolti.
Hai dunque conferma che esisti
che dal tuo avamposto resisti
paradiso inferno palestra
dove mai impareremo
a capirci a bastarci.



**

Voi che siete dove fuggo
legati a spago come
una valigia che mi porto
e apro, mio villaggio
di parole e visi e luoghi
e case d'aria
ed eserciti che urlano
e orchestre di fiati.



**

Baci le unghie
affondate nel tronco
guardando la cima che ride;
sfidi una gravità
imbattibile.
Da un fitto di voci
sali a fatica
raschiando la pancia ed il viso.
Mordi le foglie erodi
i minuti dagli anni.
Sazio alla fine del pasto
allarghi le mani,
leggero tra i nidi
rinato.



**

È come dire rondine ignari
del volo imprevedibile e festante;
o maiale, da un solo grugnito.
Anche quando è maschera,
prima facie,
all'estremo del tubo gigante
dove mostri i tuoi passi
amplificati, solenni.
Tra molte voci una
soltanto muove la carne
ci fa dire io sempre
più forte degli altri.



**

Il pirata e la fata son fratelli
si beccano ma vi è un porto
la sera dove attraccano
posando sulla cassapanca
spada e bacchetta.
Dormono e nella penombra
un lume vaga intorno ai letti.
Sognano espirando un drago rosso
un galeone che s’arena in giardino
e smaniano i bambini calciando
un nemico invisibile.
Il viaggio consumerà la notte
i suoi sogni e il destino saputo
con suggello di morte.



**

Bagna la torcia ogni stagione.
Col rovescio del lago il buio si riaccende:
magnete dove schianta il ferro caldo d'una mano.

Vuotate le bottiglie, liberato il palco
hai la veste ora del neonato, mani grandi
di chi sai per farti largo.

Esplodere il passato nel presente, la carica
di chi ha lasciato occhi e cuore per tempo.
Fra tante scorie, vita che si rinnova.

Ci sorreggono mani ancora,
fabbriche di oscure maestranze dove
si lavora per nulla; il guadagno ci sarà.



**

Ragazzi, incontravamo bambole
senza testa. Non ridevamo.
Piccole madri le tenevano strette.

Noi si affondava sull’erba.
Le cicale la notte facevano il verso
ai poeti caduti in fossati di vinile.



Giovanni Nuscis è nato ad Ancona nel 1958, vive dal 1973 a Sassari. Laureato in giurisprudenza si occupa, attualmente, di formazione. Ha pubblicato i libri di poesia Il tempo invisibile (Book Editore, Castelmaggiore, 2003. Premio Nazionale di poesia “Alessandro Contini Bonacossi” l’opera prima) e In terza persona (Manni, Lecce, 2006). Per la poesia inedita, tra gli altri, ha vinto il Premio Turoldo ed. 2005 organizzato dall’Associazione Poiein (1° classificato). E’ stato anche segnalato al Premio Lorenzo Montano 2008 (22° edizione) per la sezione “Raccolta inedita”. Suoi testi sono stati inseriti in alcune antologie tra le quali: Parliamo dei fiori a cura di Vincenzo Guarracino (Zanetto Editore 2005), Vicino alle nubi sulla montagna crollata (Campanotto editore, 2008), curata da Luca Ariano ed Enrico Cerquiglini.
Suoi lavori (poesie, note di lettura e interventi critici) sono stati pubblicati sulle riviste L’immaginazione, Polimnia, Gemellae e Le Muse, e su quelle on line Italia Libri, ORG, Poiein, Sinestesie, Il Convivio, Rotta Nord Ovest, I poeti del Parco, Lingua Siciliana, Parole di Sicilia, Fara.
Fa parte della redazione del blog collettivo “La Poesia e lo spirito”
Gestisce il blog personale Transito senza catene  dedicato alla poesia, alla narrativa e all’attualità

36 commenti:

  1. Un pezzo, quello di Stefano, che dice bene del rigore quasi morale, dell'impegno che Nuscis sembra aver preso con i suoi lettori: quello di una poesia-comunicazione onesta e di livello. Grazie infinite a Stefano.
    Davvero!

    Gianfranco

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  2. E' un piacere ritrovare in rete la poesia di Giovanni Nuscis. Stefano ce la propone nell'ultima raccolta, che anch'io presentai e commentai in rete (su VDBD e su LPELS) proponendo 'la mia personale lettura di una poesia ‘antropologica’, osmotica,complessa almeno quanto lo è la vita stessa. Molti testi si manifestano come autoanalisi dello sguardo, in altri si intravede un approccio quasi scientifico, come se si trattasse di accertare giudiziariamente la verità dei fatti . Si sente ogni tanto l’eco della poesia magrelliana e, più raramente, quello della poesia urbana di Umberto Fiori.'
    Un caro saluto a Giovanni e un grazie a Stefano per la linearità e profondità dello sguardo su questa poesia.
    Antonio Fiori

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  3. Ringrazio di cuore Stefano Guglielmin per l'ospitalità e per il suo intervento acuto e restitutivo, nella sua analisi, di aspetti importanti della mia scrittura, come questi:

    "la pratica della parola quale decisa viandanza nell'intrico quotidiano del senso, un andare tracciando strade in quell'inquieta penombra che è il presente della comunicazione."

    "Questa poesia sembra infatti ripetere, ad sua ogni svolta, l'atto del nascere al senso e al mondo, quel tempo indefinito del venire a patti con l'imponderabile, la cui falce sempre s'impone attraverso la richiesta di decodificazione."

    Grazie davvero

    Giovanni

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  4. Ringrazio e abbraccio i cari amici Gianfranco e Antonio per le loro parole.
    Giovanni

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  5. Antonio Fiori mette in rilievo l'elemento retinico della poesia di Nuscis. Io invece quello "eventuale" e preliminarmente esplorativo.
    Mi sembrano due figure che nei testi convivono.

    una sola osservazione critica, a Nuscis: "prima facie" (della terza poesia) non è un latinismo non necessario rispetto al lessico quotidiano e moderno del resto del libro?

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  6. Semplicemente, mi è piaciuta la sua consistenza fono semantica: cinque lettere e tre consonanti entrambe (prima e facie); in facie, più morbide, dopo la la "r" vibrante di 'prima'. L'espressione è propria anche del linguaggio giuridico, soprattutto nel sistema anglosassone. Ma sono andato a intuito e a orecchio.
    Giovanni

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  7. credo che anche l'espressione giuridica derivi da quella latina.

    capisco l'elemento fonetico, ma: non è spaesante per il lettore, che qui si deve arrestare, per ricomporre il disegno successivamente, una volta decodificato il sintagma?

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  8. Sì, l'espressione deriva da quella latina, da Giustiniano, credo.

    Sono in linea di massima d'accordo nell'evitare lessico o espressioni che impongano decodifiche al lettore (i tartufi puzzolenti di cui parlava Montale), ma non in modo assoluto. Senza la pretesa di arricchire la lingua italiana, non sono però nemmeno propenso alla sua totale standardizzazione. Lo scarto col linguaggio ordinario, per inusualità di espressione, suono, stratificazioni di senso, nelle migliori espressioni c'è quasi sempre. Ma ogni testo, nella sua incomparabilità, sembra suggerire già sul nascere una sua misura peculiare.

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  9. sì, condivido. si parla di orizzonte d'attesa che deve essere disatteso, ogni poesia fa questo (se è poesia). e sono d'accordo nel tenere viva la lingua, far brulicare il meglio che va salvato.

    dici che "prima facie" stia dentro a questi parametri?

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  10. In termini di "necessità", l'espressione è ovviamente sostituibile con altra di significato simile e più facilmente coglibile. Il problema che invece mi pongo è se questa possa effettivamente infastidire il lettore, pur considerando l'uso assai contenuto che ho fatto nella raccolta di parole o espressioni troppo specialistiche. Al di là di una preminente linearità logica del testo e di una sua immediata intelleggibilità, vedo la poesia come un manufatto in cui alcune parti possono rispondere anche solo a una funzione estetica, ludica, evocativa. Il lettore deve saper abbandonarsi ad esse. Potrei comprendere le loro ragioni di fronte all'esatto contrario, e cioè di un testo non suscettibile della ben che minima melodia di senso.
    Insomma, se mi chiedi, tutto ciò premesso, se lascerei immutata quella espressione ti rispondo sì.

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  11. è giusto che sia l'autore ad avere l'ultima parola.

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  12. Ma l'interrogarsi in tal senso non può comunque venire meno, e ti ringrazio per la stimolante domanda; non solo per l'accoglienza del nostro lavoro, ma per l'amore disatteso di molte persone, per la poesia, che le porta poi a cercarla in altri generi letterari o in altre arti.
    Giovanni

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  13. Marco Scalabrino4/3/10 07:23

    Mi felicito con Stefano Guglielmin per avere proposto Gianni Nuscis, cui mi legano pluriennali sentimenti di stima e affetto, verso l’uomo e verso il poeta, sentimenti che in questa sede colgo l’occasione di rinnovare. A mo’ di omaggio nei confronti di Gianni, desidero proporre, di seguito, una breve nota che ho scritto giusto su LA PAROLA DATA, volume di cui egli mi ha fatto a suo tempo generoso omaggio. A Stefano, Gianni e a tutti il mio cordiale saluto. (per ragioni dispazio, pubblico il testo in due parti)

    Ben oltre gli aspetti evidenti, la sobrietà dell’edizione, le due sezioni, la prima più ampia della seconda la quale per converso di metro mediamente più lungo, la totale assenza dei titoli, mi è parso di rilevare alcuni versi-chiave in questa terza silloge di Gianni Nuscis: Si è smorzata la musica / di anni ritenuti straordinari; Il passato lo si trova ormai / pressato in pochi bytes; i tavoli camminano / sotto altri gomiti / verso altre epoche, note che insistono su un recente passato che dissoltosi si è raggrumato in un minuscolo frantume di silicio, su un presente inimmaginabile appena la generazione prima col quale raffrontarsi, su un futuro che del tutto incurante di noi ci taglia fuori e profila altri protagonisti e altre sfere. Nel precedente IN TERZA PERSONA, del 2006, si era ragionato dell’arrembante imbarbarimento sociale, culturale e politico, e del tramonto di ogni illusione, del declino di ogni idealità, del dissolvimento di un planetario disegno di società costellata dei valori universali dell’amore, della pace, della libertà.

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  14. Marco Scalabrino4/3/10 07:24

    Con LA PAROLA DATA, quello stadio è stato valicato: nella tecnologia, “il mondo è franto in pixel”, nello sfaldamento della società, “carcassa, da anni, ad arrugginire”, nel disfacimento dell’individuo, “Ti scorpori / a poco a poco”. La realtà di oggi, “delirio d’aria / che ti avvicina di un morso / all’osso del tramonto”, è stata non accettata ma, di necessità facendo virtù, inghiottita d’un sol boccone, digerita, metabolizzata, “Non si arrende il quadro alla cornice”, l’avversione ad essa accusata e dribblata, “gli angoli, / da acuti si fanno ottusi”. L’unico suo irrefutabile retaggio: “Ciò che tenevi stretto / l’hai perso”. Cosa rimane? In cosa credere? Da cosa ricominciare? Non al denaro non all’amore né al cielo, di deandreana memoria. A guardarsi attorno, lo “sguardo lento nel viso di carrubo”, c’è poco di consolatorio. E allora? Allora, Gianni Nuscis, “Colpi di tosse / brevi / e vai avanti”, riesce ancora a raccapezzarsi e avanza una proposta di resistenza: egli invoca e ci suggerisce la parola. Di più: è pronto a scommettere sulla parola del poeta e sulla sua, addirittura, a giocarsi la faccia. Anzi, ecco, la sua parola è data. Data perché deputata al Poeta che ne è custode e latore, perché munificamente da questi donata all’umanità intera, perché nell’odierno consorzio sociale le parole assumono il senso e sono valori, dati telematici, data; da raccogliere, elaborare, veicolare organicamente. La Poesia organizza il cosmos epèon, il perfetto universo di parole; ma, Gianni Nuscis lo sa bene, come per ogni seria disciplina, e la Poesia non sfugge alla regola, occorrono studio, applicazione, consapevolezza. D’altronde, la parola, la Poesia sono, per lui, prassi necessaria, indifferibile; urgenza di scovare una sua propria originale espressione che coniughi il sentire delle cose e il dire le stesse in maniera sempre inattesa. La scommessa è la medesima da migliaia di anni. E la ricerca della parola nuova, da migliaia di anni, è percorso accidentato, faticoso, che impone passi progressivi, che si perlustra in solitaria malgrado tutti e tutto e la cui meta … la cui meta allorché raggiunta, alla luce del poiein, la creazione, è motivo di vivissimo stupore, di indicibile felicità, edifica il Poeta. E poco importa se qua, nel mondo, egli non raggiungerà mai la gloria (appannaggio di pochissimi eletti); là, nel Parnaso dei Poeti, uno scranno gli è già stato riservato. Fatti salvi i contenuti, ciascun poeta si misura sul campo degli esiti concreti, da conquistare individualmente. Con tali premesse, gli esiti a mio avviso più felici di questa silloge si ritrovano alla pagina 20, “Cade in una nicchia / e tace. Dalla parete / vitrea d’una nursery / se non tu, altri / lo attendono nuovo / lo sconosciuto che / dopo un poco / a qualcuno somiglia”; alla pagina 35, “Se fossimo uniti / i pochi condomini che siamo / sarebbe una battaglia vinta. / Ma non c’è grido che si somiglia. / Un’auto abbandonata nel cortile. / Le ruote, prima, poi il motore / rubati, spariti. Rimane / la carcassa, da anni, ad arrugginire / tra proteste continue. / Nessuno che chiami un carro attrezzi / cerchi il proprietario, l’amministrato- / re, spariti chissà dove”, e alla pagina 40, “Nella periferia di una città / lontana, dura sulle reni, / nella saccenza di mani e voci / sarà dato riconoscerti. / In un tempo che allunga / code e denti taglia / orecchie / la coperta del cielo / tirata via da rondini”, là dove l’impianto, i motivi sociali ed esistenziali, la suggestione determinata dalla parola e in sé e in relazione al suono e alla posizione, convincentemente si combinano con gli slanci lirici. La scrittura, specchio del contesto convulso che la produce, è singultante, strutturata per accumulazione, accentuata dal ricorso al verso libero. “Non c’è aria che non sia stata respirata.” Ma, vivaddio, la sintassi rivisitata l’arricchisce di vitale ossigeno e “Nei giorni di festa ci si conta”.

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  15. Grazie, caro Marco, per aver proposto anche qui il tuo generoso intervento su La parola data. Un caro saluto. Giovanni

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  16. Un saluto al carissimo Giovanni, sempre più bravo, e ai tanti amici che vedo commentare questo bel libro.

    Buona serata a tutti.

    fm

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  17. Grazie, Francesco.
    Un grande abbraccio.
    Giovanni

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  18. margherita ealla5/3/10 22:06

    molto interessanti e davvero ricchi di spunti i commenti, che ampliano e integrano il post e l'ottima presentazione di gugl.


    Se c'è una "parola data", allora c'è una responsabilità assunta per tutta una gamma di pronomi o nomi (soggetti e complementi vari) che ne sono origine e tramite, un'attività di scambio, che coinvolge in un circolo, e che solo in questo acquisisce un senso, anche una giustificazione
    perché ad es, quel "tu che scrive in un angolo", ha conferma di esistere ("Hai dunque conferma che esisti"), anzi di r-esistere, solo se "io ti leggo e commento", o reciprocamente "t’affioro e tu m’ascolti."

    Poi fa niente se "mai impareremo a capirci" e soprattutto "a bastarci", non importa se "Voi che siete dove fuggo " o se non si può fare a meno del rigurgito ripiegato dell'io: "Tra molte voci una /soltanto muove la carne/ci fa dire io sempre/più forte degli altri."

    fa parte dell'assunzione di quella responsabilità, di una "parola data" fino in fondo il fatto che io-tu debba aprirsi a coinvolgere un egli, ella, altro/altra,
    un voi, essi,
    così da diventare un noi allargato.

    Solo in questa assunzione può avvenire quel tenere fede alla storia umana sintetizzato mirabilmente nel verso " Esplodere il passato nel presente"
    (bellissimo!)
    solo così le parole date fra u-mani sono appunto come mani che ci sorreggono ancora ("Ci sorreggono mani ancora")
    solo così, se anche per se stessi si è "ignari dei voli", ignari delle rondini,
    si può comunque tangere il volo degli altri, dei versi,del bambino
    solo così noi nell'uguaglianza diversi come "Il pirata e la fata fratelli" che "dormono insieme".

    posto il commento, ciao!

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  19. Margherita, come ti ho già detto, dovresti scrivere recensioni strutturate e pubblicarle su riviste che contano perché i tuoi "commenti" sono davvero profondi e originali.

    Grazie anche a Marco Scalabrino per l'analisi proposta e a Francesco Marotta.

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  20. Mi limito a lasciare un saluto a un poeta che stimo molto.

    La Verità della Poesia nasce prima e soprattutto sul viso del poeta.
    In Giovanni è chiaro questo segno.

    ciao a tutti

    iole

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  21. Iole, martedì 9, alla 20,45 a vicenza, parliamo della tua poesia; perché non passi?

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  22. Grazie, Margherita e grazie Iole.
    Un saluto caro.
    Giovanni

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  23. Segnalo questa rassegna
    http://direpoesia.wordpress.com/

    Un saluto, GTZ

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  24. su questa rassegna e su altro, metto il post fra qualche ora.

    ciao Giovanni

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  25. Testi vivi e costruiti con grande maturità. Dico solo questo per ora; non riesco a formulare un commento strutturato e me ne scuso, ma ho molto apprezzato.

    Francesco t.

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  26. Grazie Francesco per le parole di apprezzamento.

    Grazie ancora a Stefano per il tempo e le attenzioni dedicate al mio libro, e, più in generale, per il serio lavoro di ascolto e di valorizzazione delle opere altrui, cosa sempre più rara.
    Ringrazio di nuovo coloro che sono intervenuti.

    A Stefano e a tutti un caro saluto.

    Giovanni

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  27. Molto belle queste poesie e scusatemi se non sono in grado di commentarle,(altri lo sanno fare molto bene e diffusamente) ma vi avverto un'icasticità classica non disgiunta da una notevole capacità comunicativa.(e non solo, ovviamente).
    COMPLIMENTI, Giovanni
    e Grazie sempre a Stefano per le sue proposte così intriganti
    lucetta

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  28. grazie a voi per l'entusiasmo e la competenza che ci mettete.

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  29. letto, riletto, apprezzato...

    su "prima facie" ho provato a fare, come nei laboratori di scrittura poetica (rarissimi) che conduco, una "prova di sostituzione", una cosa molto semplice: se un sintagma, un'espressione fanno inciampare l'occhio nella lettura si ricerca con pazienza, anche ore, se esista un qualunque traslato dell'espressione inciampante che, sostituito, possa rivelare qualcosa di più, qualche decremento dall'opacità scritturale (che è per definizione il Problema del comporre/poièin-con-parole)

    "Maschera primo aspetto"? Ah, che brutteria...
    "Maschera prima luce"? Forse, però è più banale...

    etcetera

    ecco, con "prima facie" non mi viene nulla, nonostante i lunghi rimuginamenti, anzi al contrario mi si rinforza l'impressione iniziale di uno scarto verso un arcaismo-radicamento che è indispensabile al costrutto metaforico "maschera prima facie", nonostante lo sforzo che richiede, sforzo dato anche dall'iniziale sdrucciolare di "prima" nella lingua nostra anché in quella latina

    Eppoi mi chiedo: vale la pena sforzarsi di lisciare il pelo alle parole, affinché qualunque lettore le possa carezzare?
    L'intrinseca complessità del lessico rimane uno scoglio fra la produzione e la fruizione di poesia, che nessun'altra arte conosce (fatta eccezione per certi chironomismi di alcune forme di danza orientale) e non è spostando la poesia verso un orizzonte di fruibilità, verso lessici apparentemente "semplificati" che se ne amplia la pubblica risonanza. Al contrario, la riduzione del lessico (tipo quello della micro-messaggistica fatto di poche decine di vocaboli) estende a dismisura l'aura semantica dei singoli vocaboli: "scusa, prima ti scrive 'ti amo' e poi ti scrive 'ti voglio bene', ma è cretino?", questo stralcio di conversazione fra alcune ragazze che ho raccolto IN UNA LIBRERIA un paio di sabati fa, ne è uno splendido esempio. Quella non è una lingua povera, o impoverita, è una lingua più ermetica del più ermetico degli ermetici, perché risulta quasi impossibile l'accesso alla profondità dei valori in gioco, se non per via esperienziale, di stretta frequentazione amicale, di cerchia relazionale, quasi impossibile l'accesso alle valenze semantiche di vocaboli il cui potere nominante è smisurato, non temperato dall'estensione delle accezioni disambiguate dentro un vocabolario fornito di decine di migliaia di termini, fra loro intrecciati in una complessa rete di relazioni sinonimiche-antinonimiche, ecc.

    ecco, una "parola data" è tale dentro una sua tensione costante all'esattezza, al di là dell'apparente accessibilità agli "sprovvisti di vocabolario" - è un impegno tremendo e necessario, quel che ho apprezzato e ammirato anche altrove nella scrittura di Giovanni Nuscis è proprio questo, e dico 'tremendo', proprio perché con coraggio affronta l'emersione di un "prima facie" come dato essenziale alla trasmissione di un possibile 'senso compiuto', eppure spostato sull'asse di una 'lingua morta' - Osservo che l'impegno non sempre sembra corrisposto dall'esito del dettato, che conserva residui di oscurità pur dopo la terribile battaglia contro l'oscurità, oserei dire, "metafisica" della parola, come negli ultimi due testi di questa selezione: la "torcia" che "bagna" "ogni stagione" del penultimo, le "bambole senza testa" dell'ultimo.

    Se Giovanni avesse ancora desiderio di protrarre la discussione, mi piacerebbe davvero un confronto su quei due passi.

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  30. Ringrazio e saluto Lucetta e Mario.

    Grato davvero per la tua analisi, Mario. Non so dirti se una certa tensione alla chiarezza sia poi in realtà sempre soverchiante rispetto ad altre istanze. Mi sembra infatti importante lavorare anche nella direzione di una fisionomia netta e inedita del testo, in senso, direi, materico e non solo mirato all'inequivicità di significato.
    I versi "bagna la torcia ogni stagione" e "Ragazzi,incontravamo bambole/senza testa" andrebbero letti come metafora, il primo, di vita che consuma; il secondo, semplicemente, come equivalente di ragazze "senza testa" (tra autobiografismo e nota di costume).
    Giovanni

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  31. Correggo: (tra autobiografia e nota di costume).
    Giovanni

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  32. in generale, sul lessico: provaimo a vedersa sotto un altro punt odi vista (che esula dallo specirfico uci staimo discutendo). una priola appartine ad una faniglia semantica ma anche ad un contesto etico-cilturale. quando la chiamo i ncausa, convoco anche la sua matrice. Se uso una parola cara al nazismo,m per esmepio, il nazism oentra nel testo anche se non lo nomino. (ivviamente non è il caso di "prima facie")

    dunque, non si tratta di semplificare per la fruibilità universale, bensì di armonizzare il contesto entro cui le parole prendono vita. A meno di non volere il meticciato quale metodo di lavoro.

    ciao e grazie per gli interventi.

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  33. Stefano, sono assolutamente d'accordo sul richiamo alla dimensione del contesto

    ovviamente il livello di complessità sale: come si potrebbe affrontare criticamente un autore che accidentalmente usasse 'soluzione finale' in un suo testo, magari convinto di essersela coniata in proprio, sbalestrando involontariamente il significato che egli vi attribuisse senza tener conto dell'effetto-trascinamento del contesto... purtroppo tanti, tantissimi oggi, se chiedi che significato avesse 'soluzione finale' nel lessico nazista non sanno rispondere!

    Giovanni, da come usi 'bambole' è chiaro che hai ben presente le accezioni trascinate da un contesto che va da 'bulli e pupe' alle ballerine dei saloon spaghetti&western, eppure il successivo verso "piccole madri le tenevano strette" non produce la circostanzialità che evochi (bambole=ragazze), ma in particolare da quel "piccole" si rimette in gioco tutto quanto e l'immagine si allarga anziché procedere verso una messa a fuoco. Di cui magari sento bisogno solo io, s'intenda, mentre bisogno in effetti non ve n'è!

    Perciò ti ringrazio dell'osservazione che fai sulla ricerca "di una fisionomia netta e inedita del testo, in senso, direi, materico e non solo mirato all'inequivocità di significato".
    Scopro un lato del tuo lavoro che non mi era balzato così evidente agli occhi, tendenzialmente superficializzanti nel corso degli scroll internettiani...
    Del resto ci siamo appena immersi qui nei gesti informali della scrittura marottiana, e non possiamo che tornare ad apprezzare il gioco di rovesciamenti messo in atto da una "torcia", che entra in ossimorica relazione con il verbo "bagna" (e che si vorrebbe quindi fatta di fiamma, non elettrica), aprendo così a "Col rovescio del lago il buio si riaccende: / magnete dove schianta il ferro caldo d'una mano"

    Certo, ci vuole un po' per arrivarci, ed è il motivo per cui tanti si girano dall'altra parte appena vedono apparire poesia, ed è il motivo per cui altri vi rimangono senza ritorno incantati, "come a beato confine"... ;-)

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  34. la "torcia bagna" mi ricorda, l'asciugar co i soli di G.B. Marino.

    E' metafora barocca, ma d'altro canto, il barocco è ciò che ha permesso alla neoavanguardia di inglobare le avanguardie storiche senza superarle nel senso buono che si diceva qualche post fa.

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  35. E' giusto, Stefano, considerare la riconducibilità di una parola a una famiglia semantica e anche al suo contesto etico-culturale.
    Al di là del mio lavoro, devo però dire che andrebbe valutato anche l'esito dell'accorpamento al testo di termini o espressioni fuori dai criteri anzidetti. Armonie inedite, o accrescimenti di senso o di forza icastica. L'orecchio, credo che possa giudicare, almeno in prima istanza.

    Grazie ancora a te e a Mario, per le cose che avete saputo rimandarmi con la vostra lettura.

    Giovanni

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  36. sì, l'importante è che questa sia frutto di una scelta, che appartenga alla poetica dell'autore. come nel tuo caso, rispetto ai termini indicati.

    grazie a te per l'intensa partecipazione.

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