martedì 28 febbraio 2012

Giovanna Frene




A proposito dell'opera di Giovanna Frene, in Senza riparo ne avevo rilevato l'elemento lugubre, non teatralizzato come invece accade nella Valduga: «Stato apparente (LietoColle, 2004) – scrivevo – è infatti un canzoniere centrato sulla morte, sulla nuda immobilità del corpo morto, e sul desiderio di essere assorbiti nel grande nulla. Così anche in Datità (Manni, 2001), opera dominata dal sentimento di caducità e dall'idea che il tempo sia una “evanescente fluidità chiamata tritacarne”, cui contrapporre, romanticamente, l'arte. In Spostamento (LietoColle, 2000), sorta di meditazione cimiteriale dove il dato e la persona quasi scompaiono, è la poesia stessa a farsi sepolcro, “cassa” che resiste al tempo, diventando emblema della morte in quanto enigma, ossia sostanza che, resistendo alla nominazione univoca, porta in sé i caratteri del non-umano, dell'estraneità imprendibile».

L'ultimo suo libro, il noto, il nuovo. Appunti postumi sulla natura del potere e della storia (Transeuropa, 2011) parte proprio da qui, dalla cassa, che diventa “sepolcro che parla per interposta persona” del tritacarne, la cui essenza figurare ha il duplice volto della crudeltà nazista e del tacito consenso dei civili tedeschi alla Shoah. Alla meditazione sulla morte dal punto di vista della morte, come in Spostamento, Frene passa dunque alla nominazione della storia, al suo crudele esercizio del potere visto dall’estraneità del sepolcro, da una posizione postuma che s’incarna nel libro, in questo libro, reliquiario di una salvezza non più comunicabile per via diretta, con la lingua dei vivi, ma solo tramite l’odore delle macerie, del frammento e l’enigmaticità propria alle lapidi.

Dando la parola al sepolcro, l’io lirico si tira da parte, per poi ricomparire nelle note finali, come da consuetudine zanzottiana (poeta amatissimo e conterraneo), per spiegare gli eventi contestuali, citando libri e fatti, accumulando prove sulla tragicità della storia. Durante la sua assenza, qualcosa accade: il libro stesso, che si dipana con l’oltranza lapidaria o enigmatica del verso, la compostezza epigrafica del racconto (sostenuto da alcune dense fotografie di Laura Callegaro), la rigidità mortuaria dello stile, il freddo che permea ogni cosa, per scelta anzitutto sintattico grammaticale e dunque metodologica (e qui soccorre “Marco Giovenale, miglior fabbro, senza il quale questo libro mai sarebbe esistito” come ci ricorda il preambolo alle note), ma anche – sottotraccia, forse troppo – con la verità sulla natura del male, che è ontologica e immanente insieme, destino e scelta, in un intreccio che non ci libera ma ci chiama all’assunzione di responsabilità di erigere un consorzio umano che, leopardianamente, riorganizzi il proprio spazio politico, a partire dalla lucida cognizione del dolore.

Siamo di fronte ad una poesia del pessimismo radicale eppure, nel contempo, della tenue speranza; il nuovo è infatti il noto, essendo, il divenire, pensato quale eterno ritorno della ripetizione, senza differenza, ma in ciò è comunque possibile leggere una debole via d’uscita: individuale, tramite l’immersione senza resto nel tempo della caducità (per esempio la corsa del maratoneta, l’attimo del suo passare leggero sulla terra, i piedi che corrono  “senza desideri”), ma soprattutto, appunto, rifondandoci come animali politici non ingenui. Che la natura sia indifferente alla “piccola macelleria simulata”, alla storia-carneficina, ci deve spingere infatti non al lamento romantico, bensì ad assumere criticamente la distanza dal male per un allineamento inedito cultura-natura, che inizi l’umanità ad una storia finalmente differente, nella quale la ferinità umana, insopprimibile, dialoghi con la ragionevolezza del fare, con la piega, la curva, il morbido del confronto tra mortali, fuggendo la rigida razionalità, quel culto laico che ha prodotto la scienza dello sterminio. Un pensiero critico verso il capitalismo e la tecnocrazia, il suo, ma anche nei confronti tanto di una soluzione violentemente storica quanto miticamente naturale delle miserie umane, un pensiero a cui preme anzitutto definire i propri oggetti: il male, appunto, nelle sue pratiche e la crudeltà che ci costituisce antropologicamente: “ecce homo, o meglio: ecce homo homini lupus. / mostrato per lo sbranare, non per il compatire”.

Molto precise le due letture di Paolo Zublena e Silvia De March, la prima sostenuta dalla posizione imprescindibile di Hanna Arendt, "che oscillò tra l'interpretazione di un male radicale al di là di ogni possibile comprensione, che si realizza nel momento in cui tutti gli uomini diventano allo stesso modo superflui (nelle Origini del totalitarismo) e quella di un male prodotto dall'assenza di un pensiero individuale, autonomo (nella Banalità del male)"; la seconda, quella della trevigiana De March, orientata all'analisi stilistica, che riconosce alla scrittura della Frene un tentativo mimetico di inscenare "un'effrazione dissacrante e corrosiva della vita pubblica e privata", ma anche un'indole espressionista finalizzata alla traduzione sensibile del male, alla sua resa materica.



Colpa e simulazione


È un carnefice chiunque contribuisce consapevolmente [...], in modo tangibile, alla morte o eliminazione di altri, o a fare del male ad altri nel quadro di un programma di annientamento [...] D. GOLDHAGEN


l'ordine delle forze, l'idea inevasa del bene, invisibile, è sotto
gli occhi di tutti, raggiunge il suo scopo, il banchetto integro:

il corpo è sacro, saturo, è fatto: figliastro di intenzioni;
il cibo/è un potere diverso, ma sempre-cibo nel sempre-banchetto:

forza, o carne di potere, o tutto-potere, o vita che deriva dalla vita;
da ciò deriva la simulazione, la nostra vera imposta fine:

come è messo in atto, da chi è messo in atto, solo così non è "come se";
non è detto di no quando potuto, non è detto di no neppure volendo:

seppure comando, eppure volontà, a priori
natura


**

La grande giustificazione


dopo che è avvenuto: il sepolcro che parla per interposta persona con "egli" come
referente e soggetto, è vuoto, che è vuoto dopo che è avvenuto
non si sa che dopo, come "per natura" definisce il non-casuale, umano,
e deciso, prima, che è avvenuto neppure    

è certo: certo è solo non il detto, ma il sentito dire, non il fatto,
ma il fatto fare, o il subìto senza testa, l'agito, tutte le forme del passivo
in sequenza non fanno un attimo, ma di nuovo un vuoto, la soglia dell'attesa, l'ora
perpetua della fine, che avverrà

il "come" sta al gioco come: si diventa nazisti par un long, immense et raisonné dérèglement ecc. ecc.

sempre sparse le sue idee, e universali, mai di fatto natura
prima



 Su Nazione Indiana altre poesie.

Giovanna Frene (Asolo 1968) ha pubblicato i seguenti libri di poesia: Immagine di voce (Facchin 1999), Spostamento - Poemetto per la memoria (LietoColle 2000, Premio Montano 2002), Datità (con postfazione di Zanzotto, Manni 2001), Stato apparente (LietoColle 2004), Sara Laughs (D'If 2007, Premio Mazzacurati-Russo, 2006),  il noto, il nuovo (Transeuropa 2011). È inclusa in varie antologìe italiane - fra cui Parola Plurale, (Sossella 2005) e Poeti degli Anni Zero (a cura di di V. Ostuni, «L'Illuminista»,n.30, 2010) - e straniere.


7 commenti:

  1. forse questo è un genere di poesia che non piace alla rete. Ma la rete ne ha bisogno, per uscire dal poetese che impera.

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  2. Caro Stefano,
    mi fa molto piacere ritrovare grazie a te la poesia di Giovanna, che apprezzo molto.
    Forse non piace alla rete? Può essere. Ma ora io sono in rete e do il mio convinto consenso a una scrittura che si compromette con il corpo, la carne, la materia in modo non scontato. 'Corpo-carne-materia' che sono l'unica verità che possiamo realmente sperimentare. La parola poetica è inevitabilmente altro dalla
    realtà del vivente, dalla sua carne effimera, eppure così 'sentita', troppo spesso dolorosamente, 'sentita'. Quando incontro un poeta che coscientemente parla (canta) senza
    farsi accecare o stordire dall'incanto superficiale delle parole, ma cerca
    di imbrigliare nell'incanto delle parole qualcosa che ricorda la verità biologica e materiale, questo poeta so che non mi vuole accecare. Non vuole esibire i suoi virtuosismi. Mi vuole solamente parlare di ciò che della sua esperienza di vivente si impregna in linguaggio: il linguaggio si fa, attraverso lui, come 'vivente'. Il poeta più onesto non cerca mai la bellezza formale, ma ciò che maggiormente lo avvicina alla verità: l'inesprimibile esperienza
    che tenta e ritenta di riconoscersi, di spiegarsi ogni volta, traspirando in...parola...
    Grazie Stefano, Grazie Giovanna.
    Un Caro Saluto,
    Armando Bertollo

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  3. caro Armando, parole preziose e precise, le tue.
    potremo approfondire la questione il 5 maggio, quando Giovanna verrà a leggere a Vicenza, alla libreria mondadori.
    ciao!

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  4. Mi fa piacere leggere le parole di Armando che mi spiegano perchè nelle poesie di Giovanna si sente battere il sangue.
    vincenzo celli

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  5. non è ironico, vero?

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  6. no è serio

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  7. Giovanna Frene è una poetessa che amo, una voce singolare ma non singola, se mi passate il gioco di parole. Singolare per il fatto che, in una ipotetica mappatura sessuale, la sua poesia si discosta sia nelle forme che nei linguaggi usati da quel vasto panorama della poesia femminile contemporanea. Ma le tematiche, crude, permettetemi di dire anche "oscure" delle poesie qui riportate, si mescolano, di contro, a quella pluralità di cui fa parte l'universo di questa autrice, le molteplici sfumature che vanno oltre la sensorialità dei testi, volutamente allungati, privati di sé, secondo me, proprio per coinvolgere questa pluralità di "assenze" presento, questo svuotamento che deriva dalla presa consapevolezza di una coscienza "giudicante" posta al limite, e che da questo limite si evidenzia allontanandosi a mano a mano. Ciò che ci rimane, gli strascichi di questa dicotomia interiore, sono gli stadi di una poesia sempre in continua evoluzione, poesia di cui sono partecipe e "simpatizzante". Scusatemi l'azzardo, le banalità o le sciocchezze che posso aver scritto, non commento quasi mai, non sono buono a criticare, mi limito a leggere nell'ombra, però ogni tanto credo faccia bene dire quel che si (de)pensa... :)

    ciao Gugl e ciao amici di blanc

    Antonio B.

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