martedì 31 gennaio 2012

Lorenzo Chiuchiù legge Milo De Angelis



Per Quell’andarsene nel buio dei cortili di Milo De Angelis



Era buio. Il centro di agosto era buio
come il corpo nudo. Non potevo
trovare riposo né movimento: solo il battere
del sangue sulle labbra. Il buio
giungeva dal respiro aperto, dalla freccia alata
che entra nel mondo. Il buio
era lì. Era lì, nel vertice
della prima caduta, era me stesso,
questo freddo che, oltre i secoli, mi parla.

(p. 11)

La poesia di Milo De Angelis è sempre un’epifania e una catastrofe: apparire – nel senso forte di phainestai, di imporsi al visibile – di un tempo aionico, assolto dallo scorrere e segnato dalla sua indeducibilità; e catastrofe di questa eternità caduta nel tempo fino ad esserne ferita. L’eterno che appare al poeta non è l’inconcusso, l’eterno di Milo De Angelis può morire, e muore in un gesto, in una luce mentale, in un «cielo che nasce / in ognuno di noi» (p. 14) e che con noi tramonta.

Il buio è il luogo dove si congiungono e si combattono all’ultimo sangue la biografia e la fine di ogni storia, spazio nel quale accade l’irreparabile e la grazia: «feroce ordine dei canti» (p. 47) e «bacio / tradotto da una spina» (p. 51).

Il buio non deve dunque essere assimilato né al simbolo – almeno al simbolo così come è stato inteso, ad esempio, nella glaciazione della lirica mallarmeana, anche se forse differente sarebbe il discorso per la sfera tautegorica del simbolo orientale –, né tanto meno può essere associato all’archetipo.

Il buio – che in Quell’andarsene nel buio dei cortili ha in sé il sangue, l’attesa, l’inizio – conduce a una specie di acmeismo esistenziale e insieme mitico che precipita la solitudine irrimediabile del poeta contemporaneo nell’«antichissima notte» della Grecia dei Misteri o nel cuore della tragedia, dove una volta per tutte si è visto che ogni opposizione si sfigura risucchiata in un gorgo e che dunque nessuna dialettica arriva all’essenziale.

Ecco l’inaudito di De Angelis, ecco la sua oscurità. Oscurità che non è un invito all’investigazione e che non ha perciò parentele né con la Schwärmerei, la fantasticheria che accumula impressioni, né con il surrealismo e le sue ascendenze psicanalitiche, ma che è qui voce del destino. «Vicina all’anima è la linea verticale» (p. 14), scrive De Angelis. La prossimità fra la linea verticale e la psyke – farfalla che attraversa la morte, respiro e identità personale – riguarda la responsabilità del singolo per il destino. La linea verticale è proprio la semiretta del destino cui De Angelis fa riferimento in Poesia e destino: «una semiretta verticale contrassegnante il punto da cui parte il cammino verso l’alto o verso il basso. Il destino diventa questa semiretta, trampolino dell’inabissamento o del volo» (p. 28). È «l’eternità spezzata» di Hebbel che da un punto esatto – la mia vita, la mia parola, l’assoluta responsabilità anche per ciò di cui mi illudo di non esserlo – fa nascere il «cielo in ognuno di noi» (p. 14) e insieme l’inabissarsi del «non siamo tornati mai più» (p. 69), poiché «tutto / è consegnato all’evidenza / della fine» (p. 28).

«L’infinito appare nel poco» (p. 28) e gli «attimi imperfetti e interrogati» (p. 9) appartengono a un tempo generato interamente dall’impatto tra telos e contingenza: il tempo tragico non è un sostrato nel quale accadono gli eventi, ma è l’esito di un telos che ritorna sui propri passi e che lo genera. Come dire: la profezia e la mantica non descrivono ciò che accadrà, ma creano l’articolazione complessiva delle estasi della temporalità (ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà). Come le sorti gettate sono enigmatica figura del telos, e non una sua anticipazione, così le parole del poeta dipendono dalla legge sconosciuta che lo ha nominato: «Come rispondere all’immenso?», il “come” è proprio il tempo umano; se l’immenso «solo ora, come un grido, mi raggiunge» (p. 52) significa che esso era prima che l’uomo fosse e che l’uomo è temporale perché investito dal telos. Si tratta di dire la «frase che, penetrando / nella ferita più buia, la fa sua, la guarisce, l’aggrava» (p. 15). «L’ultima frase sfiora la prima»: l’ultima frase è la stessa pronunciata dalla «sola e grande morte» (p. 20). La voce del poeta confonde i tempi storici per fedeltà al tragico: l’eterno presente «di voi che siete stati morti» rende indecidibile la realtà o l’illusorietà dei tempi mondani. Tutta una vita, nell’istante, può mostrare la sua illusorietà («l’assenza di destino, il dysmoron, è la nostra debolezza», scrive Hölderlin), oppure può incendiarsi, ascendere e incontrare «gioia e fine avvinghiate» (p. 67).

Allora «ogni frase / diventa linea perduta, annuncio di una volta» (p. 27), perché «nessuno sapeva se la vita era immensa / oppure niente» (p. 26).


Qui il sito di Lorenzo Chiuchiù


Da Un’oscura sete,
terza sezione di Quell’andarsene nel buio dei cortili (Mondadori, 2010)


Non rispondono all’appello, sono
dispersi ai bordi della terra, hanno
il segreto della linea che trema, sono usciti
dalle vene dell’essere amato e ora
potete vederli, di sera, verso le tangenziali
chiedere silenzio con un dito sulle labbra.



**


Anzi, è sempre più vicina
quest’armata di corpi, queste
macerie che s’incrostano alle ciglia
e talvolta arrivano a una musica:
quelli che stavano sull’attenti
aspettano la buona notte, tra i pioppi,
uno alla volta, nel grande
autunno sbilanciato.



**


Per nascere occorre un ritorno.
Tutto si mostrerà, tra i macigni neri,
anche lei alzerà le braccia esultante
con un barlume di tutte le infanzie,
con l’acqua più in su della vita,
giungerà il richiamo, un’estate
che somiglia alla prima
via sconosciuta, l’estremo
nome di ogni via.



**


Torna antica la parola
e quella stanza era un suono di
di fogli e neon, lesione
nella castità delle dita
a precipizio tra due pareti,
scendo in un giorno remoto,
il polpaccio si indurisce,
tutto finisce a mezzogiorno, di ombra
in ombra si abbrevia una vita,
l’erba cresce nei corridoi
bisogna consegnare,
tra qualche minuto, bisogna
consegnare anche la brutta.



**


Giungono, stanno giungendo. Sono brandelli
di un’estate. La vecchia
ha in braccio proprio lui,
con le ginocchia macchiate di catrame.
Solo, occultato nel buio dell’indomani,
corre ancora dieci metri. L’altro, nella luce
artificiale del campo Pirelli,
salta uno e novantuno
e poi scompare. Tu guardi sempre lì
e a volte, con gli occhi fissi, cominci ad applaudire.



Milo De Angelis è nato nel 1951 a Milano, dove insegna nel carcere di Opera. Ha pubblicato Somiglianze (1976), Millimetri (1983), Terra del viso (1985),Distante un padre (1989), Biografia sommaria (1999), Tema dell’addio (2005), Quell'andarsene nel buio dei cortili (2010) .

10 commenti:

  1. come non parlare della poesia del poeta Milo De Angelis, come non portare il suo vento del mese d'agosto tra le sue oscure ferite, come potrei non immaginare il suo labirinto urbano ogni volta che la sua penna (tra tante penne) arrivano alla polvere della carta...grazie Lorenzo.

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  2. questo silenzio dei commenti, a parte quello di Erika Reginato, andrebbe commentato. Ma nessuno lo farà. luisa p.

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  3. io credo sia dovuto al fatto che in rete si commentano autori "di rete" oppure giovani: ci si sente meno in soggezione.

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  4. però è singolare, questa soggezione, proprio sul mezzo che dovrebbe annullarla...

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  5. il dato è che quando posto poeti noti, i commenti spariscono. Il fenomeno sarebbe meglio da indagare...

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  6. Sono arrivata tardi (per motivi purtroppo seri) a leggere questo post, ma mi chiedo con meraviglia "perché soggezione"? Ci fosse stato al suo posto Tolstoy, tutti avrebbero fatto a gara per scrivere pagine di commento scolastico.Io la chiamerei invidia incoscia di contemporaneità, o più bonariamente il sapere che Milo ha altri e tanti canali di commento, oppure perché non si fa presente a rispondere gratificando gli eventuali commentatori. Si sperperano così
    senza evidenziarle (suppure Milo fortunatamente non ne ha bisogno) poesie bellissime che possono insegnare, e per fortuna longeve. Ma che soprattutto tengono a "nobile" distanza il giovanilismo di tanta guerra propositiva.

    Cristina Annino.

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  7. vero che ci sono poeti che non scambiano commenti in rete (e Milo è tra questi). Sicuramente ciò demotiva al commento. Però, in generale, noto che i poeti famosi non ricevano commenti. le cause possono essere tante, come appunto dici tu Cristina. l'invidia mi piacerebbe sperare che non fci fosse tra queste.

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  8. ossigeno attivo e incandescente, freddo da esplosione di un big bang; sono nata insieme accanto alla sua voce, come quella di un classico: gli devo molto, e questa gratitudine resterà. Tutto da rileggere.
    Maria Pia Quintavalla

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  9. "io credo sia dovuto al fatto che in rete si commentano autori "di rete", proprio così. Ci sono autori che sono in rete da quasi vent'anni e che si sono creati, in tutti questi anni, il loro zoccolo duro di fan. Personalmente non penso che ci sia un problema di soggezione o invidia, tra l'altro ho conosciuto Milo a una mia chiaccherata sull'ultima bellissima raccolta effekappa di Franz Kraspenhaur. E' stata una sorpresa averlo in prima fila ad ascoltare, non ero in soggezione, ero solo contento, un'occasione per scambiare due parole...

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  10. eh.. un po' di soggezione c'è e forse anche di invidia, quella buona, per chi, come lui(e come altri e altre che qui trovo), convive con una capacità di pensiero che lo conduce a questa poesia..

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