giovedì 11 febbraio 2010

Stelvio Di Spigno



Preso atto che la natura è una madre in perpetua combustione corrosiva, che si autofagocita tramite le proprie creature, Stelio Di Spigno, in Formazione del bianco (Manni, 2007) celebra l'inettitudine quale triste stordimento all'ineluttabilità del morire, uno stato che tende al bianco, ossia alla cancellazione dell'esistente, concepito quale accidente malato di un'origine ormai perduta. "Non voler essere niente, per debito di bellezza", scrive in Trasferimenti, un niente ch'è luce opacizzata dalle cose, in un universo dove il caso impera. Non c'è colpa in tutto ciò, ma semmai la volontà di condividerlo con la donna amata, così da diventare la nuova coppia originaria, che trasforma la conoscenza della corruzione cosmica nella propria seggiola d'oro, dalla quale mettersi "al riparo della morte". Chiaro che non è possibile sottrarsi all'annientamento, accelerato dall'agire storico, nelle cui vene circola "cloro, benzene e ammoniaca". L'io lirico cerca comunque un dialogo impossibile con gli incatenati nel buio, con la perduta gente, ma soprattutto ripercorre leopardianamente il passato, il proprio "album di famiglia", alla ricerca dei "momenti di piacere", non trovando tuttavia che "acqua di fogna", però cara, domestica, anche se incapace di rifondare l'identità. Come scrive infatti Stefano Dal Bianco nella prefazione, "Gaeta e certa periferia di Napoli rivisitata come teatro dell'infanzia e dell'adolescenza [...] dovrebbe essere di ricostruzione dell'io" e invece "assume i tratti di un accertamento di inconsistenza". La nozione di "teatro" va sottolineata giacché la voce che dice io nei testi sembra nascere appunto dalla bocca più che dalla mano, da un'oralità esibita piuttosto che dal segno muto inciso sul bianco del foglio. Ciò implica, come lo stesso Dal Bianco rileva, il pericolo sempre in agguato di "ostentata banalità espressiva", che – a mio parere – non è mai caduta stilistica, ma piuttosto grado zero della scrittura poetica, canto che devo qualcosa all'improvvisazione aedica.




(povertà)


Figli inadatti di questo mondo,
che procedete strisciando di terrore
in terrore,
fin quando la terra che vi ha germinati
non riappaia, per voi, in sembianza di bruco
a inghiottirvi, a farvi di cristallo...
Io non vi amo perché «amore» è la più grande parola-seduzione,
il più gigantesco
inganno di parola; e voi,
tra mattini di brina e anni di non lavoro,
e ritardi e mancamenti e giù
per il muricciolo dell'umano egoismo,
- e io qui non posso mancarci -
voi morite e morite sempre più
del respiro che vi fanno addosso
peste e mortaio, visione e onde radio...
Mentre io vorrei
appartenere solamente a voi
attraverso lo schermo
di un attimo corale;
e in giorni idratati di pioggia e delusione
darci un pane qualsiasi
per una qualsiasi fame: darci un nome
un volto: e non letame.
E anche la mia mano.
E dopo cloro, benzene e ammoniaca
per levarvi di dosso lo stupro
di tanta pietà.



Foglio bianco


Con un piano ideativo, forse in niente
solo al Dio delle cose non rifatte
da mani umanizzate e insanguinate,
la mia mente sfuocata percepisce
di ognuna, visibile o no,
la percussione interna.

Gli abeti hanno il west wind che li divora,
ai fiori pensano bruchi e verderame,
anche l'anima forma i suoi nitrati
e lo avverti, ma non la puoi toccare,
quando sceglie cosa fare o non fare.
Ma questa è scienza, e io scrivo un'elegia.

Invece io ho perso il mio rintocco interno,
e tutto mi coinvolge, anzi più niente:
ogni donna che vedo è sofferenza,
ogni uomo è paura di guardare,
banale come sono, col diritto
il bisogno di essere molto amato.

Ho usato inchiostro bianco anche stanotte;
l'ho fatto per salvare questo foglio
da un mio destino uguale: carta-fogliame,
con l'alba che riappare in fondo al viale,
non resterai vuota onesta e magra
come me, il classicista impoverito.
Sarai riempita da un desiderio umano:
non finirai in giro per la terra
come un cadavere nudo e disarmato.




Trasferimenti


Anche quando la luna si nasconde
e il poema delle stelle di Manilio
resta quello che è, un aggancio in biblioteca,
si diffonde un lago giallo nel parco,
e un regime di brezza di giustizia
prende corpo e nutrimento
dal tuo essere niente, così assolutizzante,
o non voler essere niente, per debito di bellezza.

Ma come puoi vederlo mentre hai trasformato
la dolcezza in non esserci, e non ami
la nudità sfolgorante dei corpi,
per evitare la tua stessa povertà
raccontata da una ninfa della televisione,
e per lei ti disprezzi come un mostro senza orecchie
per non sentire il suo richiamo di sesso e di mistero.

E pensi a quella notte tra tuo padre e tua madre,
pensi di essere nato per errore.
Cerchi come un barbone nella squadra
qualcosa di solo tuo come una casa
in un'altra città, per cominciare da zero
la ricerca di parole fortunate
e i fantasmi del passato li annulli come tuoi.

Ma intanto vivi nella trasparenza
tra le costellazioni del mondo a colori,
e solo perché ti costringi a tutto questo
ti riduci come un cane scarlatto,
fotografato dalla luna mentre abbaia a un furgone,
mentre tra poco troverà un amore a pelo corto
come si trova un meteorite, casualmente.



Ghost writer


Scriverò queste poche righe inutili
anche oggi che il sole fa le bizze,
spunta, rispunta, si ripristina
sugli occhi limpidi puntati normalmente
sulla faccia grandeggiante della vita.

Ma se non fossero soltanto versi inutili
e soprattutto non fossero corretti,
saprei scaricare sulle cose
questa disperazione silenziosa
per raccoglierla come un grande poema insoddisfatto
nella casella postale e personale
di Dio o dell'universo, no?



Metafora del silenzio


Cambierà ancora il discorso
fatto al mare una mattina di ieri
vorrei molta vaghezza nel mio dire
ma vorrei anche che sgorgasse come sangue
tutta la verità delle mie vene,
l'ignorarci dei lidi e dei parcheggi,
tra gli alberi innocui, cercando un'oasi
al respiro in affanno sulla città percorsa.
Ma ci sospinge uno spavento di ciò che saremmo
se vivessimo davvero nel discorso
come dentro una casa padronale
a perderci sulla vicina statale,
e se c'è un segnale che indica un luogo
noi non vorremmo essere in alcun luogo:
lo si fa quando manca la sorpresa
o un altro modo di guadagnarci a vista.



Campitura e semplicità


II mondo che va meglio e che ci piacerebbe
è quello appena inventato da una mano,
tra il futuro stellare e quello costante

che si conta nel numero delle case,
degli orgasmi delle foglie e delle piante
invasate dal sole, e nelle unghie

del cane illanguidito che scava nell'aiuola
un fosso di escrementi che ci riporta diritti
verso il centro della verità amorosa:

noi due che ci guardiamo impunemente,
che osserviamo le figure nei contorni,
la polpa del colore e le abitudini del sangue.

Per metterci al riparo dalla morte,
barattandola con lo sguardo impersonale
di Roma, una città senza mare.

E anche tanto rimane a noi da fare:
permettere anche agli occhi di guardare,
non soffermarci sul vento boreale,

e finalmente amare il cervo bianco
che si aggira tra le case quando vuoi vederlo,
perché ogni finzione è poesia e viceversa.

Tutto questo con orrore in faccia al tempo,
e con un metro libero e ancestrale.



*


Avere sempre una direzione, che sia nostra o di altri, è piantare la lingua come un albero dalle foglie che ci vedono, non più di quanto possiamo noi vedere loro. E pensare che il tempo non si misura come una clessidra da salotto, così inutile come un verso postmoderno, ma è piuttosto il raccogliere, dalla parte del ricordo e della vista, tutti i granelli di una spiaggia, il loro ingenuo sfuggirci di mano, il loro ritornare quando tutto sembra essere finito, per dare nuova vita possibile e invisibile e colorata; come la luna, ritornando all'improvviso, scopre un tratto di costa mai vista prima, che fa una piega ad arco e che ci accoglie, con la più grande semplicità di una madre.



Stelvio Di Spigno è nato Napoli nel 1975. È laureato e addottorato in Letteratura Italiana presso l’Università “l’Orientale” di Napoli. Ha pubblicato la silloge Il mattino della scelta in Poesia contemporanea. Settimo quaderno italiano a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, Milano 2001), i volumi di versi Mattinale (Sometti, Mantova 2002, Premio Andes; 2ed. accresciuta Caramanica, Marina di Minturno 2006), Formazione del bianco (Manni, Lecce 2007) e la monografia Le “Memorie della mia vita” di Giacomo Leopardi – Analisi psicologica cognitivo-comportamentale (L’Orientale Editrice, Napoli 2007). Vive a Gaeta.

23 commenti:

  1. comincio con una domanda:
    "vorrei molta vaghezza nel mio dire
    ma vorrei anche che sgorgasse come sangue"
    perchè son scritti in corsivo?
    s.

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  2. ho cercato anch'io di verificarlo sulle note (dove si parla di debito verso poeti e cantanti), ma non l'ho trovato. lo chiederemo all'autore.

    ciao!

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  3. Stelvio Di Spigno12/2/10 15:18

    Ciao Silvia, che piacere ritrovarti nel gran mare della rete. I due versi sono in
    corsivo perché sono l'oggetto, l'argomento del "discorso" fatto al mare una "mattina di aprile". Il personaggio che dice "io" ricorda di aver fatto un proposito sulla sua scrittura, in una stradina che costeggia il mare. Vorrebbe scrivere così e così ma non sarà possibile perché si è bloccati dallo spavento di essere in un posto solo, mentre per mantenere quel proposito si dovrebbe essere in tutti i luoghi nello stesso tempo senza essere fisicamente in nessuno, perché nessun luogo è abitabile. Solo essendo presenti con l'immaginazione il discorso potrebbe essere vago ma insieme anche sanguigno, forte, volitivo. Penso che possa essere questa una possibile spiegazione (almeno credo). Ciao. Stelvio.

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  4. lo sapevo, che c'era una vera spiegazione.
    non che il resto non mi piaccia, ma questi due versi me li son sentiti diretti.
    ciao, stelvio!
    e grazie a stefano, che ti ha ospitato.
    s.

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  5. una domanda a Stefano:
    sento molta continuità fra queste composizioni di Stelvio Di Spigno, le loro vibrazioni di fondo e la stessa ricerca formale della loro scrittura, e i ragionamenti sviluppati dal post precedente "Superare Leopardi?", attorno alla relazione col passato che intrattengono le "scritture del presente", o "del contemporaneo-passato prossimo"

    E' solo una mia impressione, o l'hai "fatto apposta"?

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  6. non l'ho fatto apposta. mentre scrivevo quelle ossservazioni, stavo leggendo il libro di Stelvio.

    dov'è esattamente che trovi convergenza?

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  7. In questi testi trovo uno sguardo lucido che mi piace, mi coinvolge.
    Non c'è spazio per le “sfumature”, le parole fanno a pezzi la realtà, che viene spogliata dell'inessenziale, frantumata. Tutto diventa fragile, come un “cadavere nudo e disarmato”. Ma in questa fragilità c'è una grande forza.
    Ho apprezzato davvero molto (mi sa che oggi vado ad ordinare il libro).

    un caro saluto

    Stefania C.

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  8. quello che piace a me, della poesia di stelvio, è che lo sento in bilico tra classicità e pop. e gli riesce bene.
    s.

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  9. A proposito di pop e dintorni. ecco la nota che chiude il libro_

    Questo libro è dedicato a Stefania Buonofiglio.
    Alcuni testi sono apparsi su "Poeti 8t Poesia", "Specchio della stampa" e nell'almanacco Da Napoli Verso - Lo schermo d'ingen-gno (Kairós, 2007). I versi di Philip Larkin posti come epigrafe all'intero volume sono tratti da "Sympathy in White Major", inclusa nella sua ultima raccolta High Windows del 1974. Quelli di Rutilio Namaziano, in apertura della breve sezione "Civiltà", appartengono al De reditu suo. Il "poema delle stelle", cui si accenna nella poesia "Trasferimenti", si riferisce agli Astronomica di Marco Manilio.
    "Campitura e semplicità" è lontanamente ripresa da "Slowly thè ivy on thè stones" (lassa IX del poemetto "The man with thè blue guitar") di Wallace Stevens, mentre da una canzone di Kristin Hersh proviene lo spunto inziale di "Apertura all'inverno", insieme al bellissimo verso "in thè sun i feci as one" di Kurt Cobain. Un'altra canzone, Good king Wenceslas di Lorena Me Kennit, è alla base di "Memorie del Felaco", un angolo di campagna a est di Napoli (dove ho trascorso alcuni anni felici dell'adolescenza), ora trasformato in un deprimente cimitero industriale.


    un saluto a Stefania: ottima l'idea di comprare il libro. se i poeti fossero tutti come te, non ci sarebbe la crisi dell'editoria :-)

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  10. lo sapevo!
    ;-)

    i passi sono tanti, non so se ha senso qui darne una scorsa

    però, per esempio:
    "E pensare che il tempo non si misura come una clessidra da salotto, così inutile come un verso postmoderno, ma è piuttosto il raccogliere, dalla parte del ricordo e della vista, tutti i granelli di una spiaggia, il loro ingenuo sfuggirci di mano, il loro ritornare quando tutto sembra essere finito, per dare nuova vita possibile e invisibile e colorata"

    ed è un passo classificabile come "esplicito"

    ma anche l'implicito:
    "Gli abeti hanno il west wind che li divora,
    ai fiori pensano bruchi e verderame,
    anche l'anima forma i suoi nitrati
    e lo avverti, ma non la puoi toccare,
    quando sceglie cosa fare o non fare.
    Ma questa è scienza, e io scrivo un'elegia."

    Azz... è che mi stai costringendo a rileggere per la terza o quarta volta questi testi, Stefano, e mi succede quella cosa impressionante che non tutta la poesia produce, ovvero che ad ogni rilettura scopro nuova luce

    questo per me è il segno tangibile di un "superamento" in atto, vivo e verace

    ottime le intuizioni di Silvia e Stefania (quest'ultima non la conosco di persona) e ancor meglio il tuo ultimo intervento, Stefano, quando inserisci la nota del libro di Stelvio - mi ha fatto subito venire in mente una questione che avevo discusso con Pusterla un po' di tempo fa, quando lui osservava che nei suoi primi libri aveva rifiutato di integrare con note-notizie sui passi "difficili", citazionali, ecc., mentre nei suoi ultimi lavori l'esigenza di offrire al lettore informazioni "incrementali" si era fatta prepotentemente strada (ed è del resto un segno distintivo anche del tuo "La distanza immedicata", come di tanti altri libri recenti, dove senz’altro spicca l’ammiccamento ai libretti dei CD, agli “special tank”, tipico di Silvia Monti)

    Ma questa faccenda delle note informative è ancora post-moderna - Dante e Petrarca e Alfieri e... non hanno lasciato una chiosa che sia una ai loro testi, sarebbe stato un gesto abnorme, tracotante, impensabile, Montale invece ha passato la seconda metà del "cammin di sua vita" a comporre testi che chiosassero quelli scritti nella prima metà, "Satura" è il discrimine, da lì in poi siamo in pieno post-moderno

    però il superamento della post-modernità è il compito che ci aspetta da qui fino a quando avremo fortuna di campare - il "recupero di comportamenti passati", secondo la felicissima definizione che l'antropologo e teatrologo Richard Sheckner pone a fondamento delle performatività post-moderne, è solo un'illusoria risposta alla crisi ecologico-etica che attanaglia il nostro mondo, e in quanto illusoria non lascia scampo, quindi un superamento del post-moderno si pone in termini da un lato urgenti, dall'altro farraginosi

    ho la sensazione che Stelio ne sia, sotto sotto, consapevole, e stia cercando una sua proposta di soluzione (che ovviamente va intrecciata con le varie proposte dei vari "consapevoli" che stanno alacremente “facendo”, secondo la nota accezione “poièin-fare”)

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  11. gli esempio sono pertineneti, hai ragione.

    sul "superamento" del moderno, bisogna essere chiari: non si supera (nel senso che non si toglie di mezzo come se fosse una scarpa vecchia). si assorbe invece come una macchia nella pelle, lo si vivifica mettendolo in un circolo di problematicità aperta, dove il "da pensare" si fa avanti sin da principio nella storia del pensiero pur non essendo "il sempre identico" di cui parla la metafisica.

    E qui mi rivolgo agli scettici: se vogliamo parlare di postmoderno in questi termini ci sto (non qui però), altrimenti si parla di acqua fresca (che comunque disseta)

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  12. margherita ealla14/2/10 17:53

    il trasferimento,
    (non a caso al plurale è il titolo della poesia che più mi ha colpita e mi è piaciuta)
    questo il "movimento" che io avverto preponderante nelle poesie di questo post,
    forse anche per giungere a quella "formazione del bianco" (che è un arrivo "alla cancellazione dell'esistente" come detto ottimamente nella presentazione, ma potrebbe anche rappresentare una ricomposizione dello spettro di tutti i colori dell'esistente, per poi giungere al bianco o al niente :)).

    Ma dicevo del trasferimento:
    "saprei scaricare sulle cose /questa disperazione silenziosa"

    che mi sembra un'azione non di elusione o di transfer di colpa, ma un'azione che invece tenta di superare proprio la rimozione (quell'essere silenziosa della disperazione esistenziale)

    eppure, eppure il trasferimento rimane tuttavia un tentativo (di vivere in altro), chè:
    "Cambierà ancora il discorso"...

    e il relativo contorno :
    "ci sospinge uno spavento di ciò che saremmo
    se vivessimo davvero nel discorso
    come dentro una casa padronale"

    e con ciò tutto diventa un ripiegare nell'afasia di quello scrivere in bianco,
    che equivale a starsene appunto in silenzio fra le pareti del foglio, anche se è pure sempre un tentativo per salvare (da se stessi?) proprio il foglio.

    Con ciò il trasferimento mi pare si configuri come completa abdicazione del sè al sè inetto:
    "e se c'è un segnale che indica un luogo
    noi non vorremmo essere in alcun luogo".

    questo.
    inoltre molto interessata anche alle osservazioni di silvia monti e mario bertasa, fra gli altri.

    ciao!

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  13. infatti io parlavo di superamento del post-moderno, e in ciò includo anche l'accezione di un superamento del modo di guardare, strabico, al passato, che è tipico tratto del post-moderno

    ma son d'accordo, se ne parli in altra sede

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  14. un saluto a tutti i recenti commentatori.

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  15. Un saluto al mio carissimo Stelvio, direttore della collana "I germogli". Stelvio è poeta raffinato e merita molta più attenzione di quella che fino ad oggi ha ottenuto.
    Gianfranco

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  16. caro Gianfranco, sono d'accordo. comunque qui l'ha ricevuta :-)

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  17. Stelvio Di Spigno17/2/10 10:53

    Sì, amici, l'ho ricevuta e vi ringrazio tanto. Non saprei entrare nella questione modernità-postmodernità perché ci sono dentro con questo libro, il cui scopo era quello di usare la parole giuste, che poi sono sempre quelle meno (volontariamente) complicate, per mettere dentro il vissuto, il reale, l'immaginario, persino il visionario, un bisturi e far emergere le singole emozioni come se fossero i valori cromatici basilari dell'iride. Immaginiamo la tavolozza di un pittore: sulla mia ci sono una serie di parole, alcune delle quali contenute in questo libro, che vogliono essere incisive, e andare all'osso, al fondo di ciò che si parla. La mia è un'operazione "classicista": come dice un mio amico, il ritorno al soggetto-predicato-complemento. Volevo fare pulizia di troppi arzigogoli che leggo nella poesia di oggi, ma al tempo stesso non scadere nella banalità e nell'indeterminatezza. Dalle vostre parole capisco che in qualche modo ci sono riuscito, seppure in parte e con tutti i limiti del caso. E questo mi rende molto felice. Vi saluto con affetto. Stelvio

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  18. Mi permetto di lasciare qui il messaggio che scrissi a Stelvio dopo aver letto il suo libro. Pierluigi Lanfranchi

    Caro Stelvio,

    ho letto due volte il tuo libro. La prima dallo schermo del computer,
    la seconda ieri al parco dopo averlo stampato. La lettura mi ha
    talmente coinvolto che mi sono completamente dimenticato delle ragazze
    in costume da bagno stese sul prato attorno a me. A parte gli scherzi,
    è un gran bel libro. Mi è piaciuto il tono elegiaco che lo pervade.
    Credo che l'elegia sia la forma più adatta per raccontare in
    versi il mondo. Mi sono identificato (so che non è più di moda
    identificarsi) con la voce dolente dei tuoi versi e con il tuo sguardo
    che da una piccola porzione di mondo (il confine tra Lazio e Campania,
    Napoli) osserva il disfacimento di una civiltà. Perché di questo, mi
    pare, si tratta. Molte poesie parlano della fine dell'infanzia, del
    paradiso infantile perduto per sempre di cui non restano che tracce
    nella memoria e negli album di famiglia. Il trauma della fine
    dell'infanzia ha lasciato il protagonista di queste poesie smarrito,
    figlio inadatto del mondo, come scrivi nella poesia proemio, sempre in
    attesa di visioni e rivelazioni che sospendano il corso del tempo e
    gli concedano una 'libera uscita dal compito di esistere'. La poesia
    registra questi momenti o forse contribuisce a suscitarli, perché la
    poesia ristruttura il tempo (come dice Brodskij), lo fa procedere e
    retrocedere a suo grado, lo incanta e così ci sottrae alla realtà
    (penso alla bellissima chiusa di 'Campitura e semplicità' e alle
    poesie della sezione 'Fuori dal mondo'). La tua poesia è una rivolta
    contro la realtà e il tempo (altro tema fondamentale che sento molto
    anch'io). Prima ho scritto 'protagonista' dei tuoi versi, ma dovrei
    dire Stelvio Di Spigno, perché è questo nome che sta sulla copertina e
    tu non metti nessuna maschera all'io. Finalmente un poeta che dice
    'io' senza vergognarsene! Se i tuoi versi sono un'elegia sull'infanzia
    individuale, sono anche (come è leopardiano il tuo libro!) un lamento
    su una civiltà in disfacimento. Come un poeta della tarda latinità, un
    Rutilio Namanziano, che canta le rovine.

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  19. carissimi entrambi, la questione del dire "io" senza vergognarsene meriterebbe maggiore approfondimento. non tanto in questa poesia, ma nella bella italia, in cui siamo assillati di megalomani (qualcuno di questi scrive anche poesie).

    l'annotazione su questo argomento di Pierluigi riprende, mi pare, la posizione di Dal Bianco, il quale rivendica il diritto di dire "io".

    a me piacerebbe che uscissimo da questo equivoco, per cui qualcuno mette l'io e qualcun altro invece lo sottrae. la mia posizione è la seguente: io si dice comunque e mai da solo.

    capito questo, ognuno si giochi come può.

    grazie a tutti per gli interventi

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  20. Complimenti a Stelvio per questa sua ultima raccolta. C'è una forte e audace volontà, nei suoi versi, di ricuperare una linea intelligentemente lirica, densa di una classicità lucida e asciutta, che conosce anche il brivido di improvvise, nervose accensioni: una strada originale e coraggiosa, lontana sia dalle smanie sperimentaliste (e artificiose) dei figliocci del Gruppo '63 (e '93), sia dalla prospettiva oggettuale-minimalista (dal fiato assai corto..) di alcuni cattivi epigoni della linea lombarda.
    Di Spigno è, a mio parere, tra i più interessanti poeti usciti fuori negli ultimi anni.
    Mario Fresa

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  21. Adelelmo Ruggieri19/2/10 13:32

    Il tempo inteso come “raccoglimento:
    solo una piccola riflessione su alcune delle parole di Stefano Guglielmin per “Formazione del bianco”. La prima è questo rimarcare il tempo, nel libro, non come “trascorrere” ma come “raccogliere” ( “dalla parte del ricordo e della vista”). Insieme a questa cosa, inevitabilmente, non può non esserci “il diritto-bisogno di essere molto amato”.
    L’altra è la “cancellazione dell'esistente” (”concepito quale accidente malato di un'origine ormai perduta”) in rapporto stretto con quella che è chiamata “la nuova coppia originaria”, una nuova unione che dia luogo a quel sentimento, e prassi, del tempo: quella che è tale da “trasformare” “la conoscenza della corruzione cosmica nella propria seggiola d'oro, dalla quale mettersi “al riparo della morte"”.
    Questo ‘nuovo tempo’ (inteso come raccoglimento) che questa nuova ‘unione’ (e le cose paiono inevitanilmente congiunte) si dà lo si ritrova ‘per davvero’ nei versi.
    Per esempio in: “Invece io ho perso il mio rintocco interno, / e tutto mi coinvolge, anzi più niente: / ogni donna che vedo è sofferenza, / ogni uomo è paura di guardare, / banale come sono, col diritto / il bisogno di essere molto amato.” lo ‘sconvolgersi’ e la ‘banalizzazione’ stanno proprio in rapporto a quella “perdita” e al “diritto-bisogno di essere molto amato”.
    Così come nei versi: “II mondo che va meglio e che ci piacerebbe / (fino a) / la polpa del colore e le abitudini del sangue.” i temi che ci segnala Guglielmin vanno a comporsi proprio al fine di ‘elidere’ il “bianco” (di un tempo banalizzante e svuotante) per “la polpa del colore” (di ‘un tempo nuovo’, di ‘un tempo raccolto’).

    Un caro saluto
    Adelelmo Ruggieri

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  22. ringrazio Mario Fresa e Adelmo Ruggieri per i contributi critici.

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  23. Un libro da leggere assolutamente, perché è potente e curatissimo.
    Ricordo ancora l'Abboccamento di Mattinale...
    A.P.

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