domenica 4 maggio 2008

Andrea Raos


Le api migratori (edizione Oedipus, 2007) di Andrea Raos (illustrazioni di Mattia Paganelli) è dedicato ai "bambini vuoti", ma anche alla terra che mai riposa, al tempo che rompe dall'interno le forme della vita, che le squarta per naturale vocazione. Le api-assassine sono un prodotto del laboratorio umano, troppo umano, a cui il libro - poema in versi che fa tesoro dell'intera gamma linguistica novecentesca, non disdegnando gli sperimentalismi paronomasici della neoavanguardia – dà voce: spesso a parlare, infatti, è lo sciame migratore, l'io-sciame caosmico, moltitudine orientata ma imprendibile, dualità non ricomponibile che dà forma ad uno spazio-tempo inevitabilmente entropico, destinato alla polvere. Non c'è forza universale in questa weltanshauung, nessun "Amore" che tenga l'unità in eterno, che la conservi per una sostanza superiore: ogni cosa mostra la pelle lesa, la ferita che s'incolla alla medicina secondo il dettato della biologia, della chimica, a quel processo che, illudendoci, chiamiamo "amore", inevitabilmente con la minuscola.
"La vita è oscena" ci dice Raos, citando il Bellum civile di Lucano, oscenità conseguente non soltanto all'impossibilità di accettare eticamente le morti che la vita sparpaglia sulla terra, ma anche per la radice fangosa di osceno, per la sua etimologia, che in Raos diventa impasto di polvere e acqua senza soffio divino. Lo sciame assassino diventa così emblema di una sciagura che è la vita stessa, ma non solo: all'autore preme infatti mantenere un certa corrispondenza entomologica, sottolineata dalle copiose note di lettura poste in appendice, quasi a voler recuperare una tradizione di poeti competenti in ordine alla natura; penso a Lucrezio, ma anche, più vicino a noi e nello specifico entomologico, alle Farfalle di Gozzano.



Fuori dal laboratorio.


La terra esplodeva, ancora una volta. Sono milioni di millenni
in piena, per completa frantumazione
si riversano per terra – esplode, esplosa:
“nella dolcezza, nell’amore,
né la dolcezza né l’amore
stanno – non sopporta più niente,
la vita, non sopporta niente”
“venite, attraversiamo” – traversando
“volo d’animali,
l’immenso il più disteso
non ho mai visto un altro fiume” – con l’amore
come l’acqua, com’è acqua,
colma di leggera, come fuga
a malapena, a stento volo, che non vuole,
che non prende il volo. Sprofondano dentro la terra,
cascate di roccia che la roccia, voragine che dentro la voragine,
da quella stretta che, dentro, alleva,
morso dalla morsa della pietra:
“trasvolando che sento, che cadrò”.
La roccia si solleva, esplode il suolo,
si fa lava, bolle, folle:
è trasvolando che cadendo, sciame dopo sciame,
tutto passa.
Ed ora che passato
passava tutto, intero, per intero,
e su ciò che diventa, si avventa:
l’orso piccolo strappato, che confuso, dalla madre,
alla madre, ombra,
l’orso da poco nato che spaventa
ancora il mondo (che da adulti rende muti senza spaventare, è lì e
basta, è cosa che succede, uccide),
che zampetta e uggiola un po’ debole, un po’ mite – è via
dalla madre
ombra, d’ombra
“ti ho sognata ma eri già morta,
ti ho sognata ma non eri niente, un agitare
di follicoli, estinzioni, di parentesi”
cosa, oh cosa di sangue e di niente, ad annerire ora,
cosa significa restare in vita?
che cosa strazia ora questa
mano, mano che non tiene? questa gola?
capivi che ne usciva suono, nel frastuono,
non perché la vibrazione arriva,
non vedi il battere
e ribattere laringe, strepito –
è il corpo intero che si chiude esplode,
ricontrae, riesplode, nel riaccelerare che il respiro,
per respirare, spira, che i polmoni,
nel vibrare, emettono, riemettere
con tutta la carne che li chiude
mentre, ancora (e come morde, come tremito, che trema)
e nuovamente, intanto,
affollano il nascere i morenti, si affollano, al disnascere, smorenti
- l’orso piccolo, già morto, muore ancora,
cosa nasce?
l’ape pazza che attraversa, il corpo,
cosa non nasce?
sono soli, ora, il vuoto, accerchia l’erba,
verso cui, già piega, verso dove
la terra serba il pianto che le spetta,
cosa nasce e non nasce?
allontana, l’allontanarsi altrove, il numero
di api-sciame, innumerevole –
cosa né nasce né non nasce?
“Non posso, pure, non passare, vero?”



Cammini disegnati di calcare.


Api pensano, ci pensano.
Sciame che divisi, due divide.
“Non sono più gentile, anche più solo?
Se vedo quel neonato fatto a pezzi – come piena, come strazio –
e guarda e dice «non guardare»
la collettiva, mente che né guida
né non guida,
cosa farò di questo vuoto di materia, carta non graffita
e non-memoria, non-niente,
e tutta, questa, quanta pena?
So cosa devo dire. So che dico:
«La terra è scossa da vene invisibili
di materia vuota e di solida
aria. Massa
che fibra per fibra. Le sento
pulsare, che trema, terra mai così solida, mai così ferma
come quando completamente vibra.»”
È sempre così – sciamava, sciame – che urla la vita.
Animali per placche si distraggono,
che rinunciano alle ali.
Esistono
cammini disegnati di calcare,
città sfiorate punto a punto: e non
collegano.
L’estraneo
permane, microscopico:
ogni uomo, che spreco, ogni astro.
C’era l’amore, ma era con l’amore.
C’era l’amore, ma non era altrove.
Dove i giardini pendevano
e l’acqua rallenta – dove sta disarticolata, strappo
e ruga di roccia incisa, divisa – dove l’aria è cancrena
guarda le api passare, guardare:
“Lo diremo gli uni agli altri:
«ti vedo come gli animali, che nella preistoria
erano agitati,
continuare continuare
eppure fascinati dal fuoco»”
Roccia, piaga delle ere.
Niente più riguarda l’uomo.
Api, fascìna, fuoco.


[...]

“Così, quando – disciolta la compagine
del mondo – ora suprema chiuderà i secoli tanti
l’antico ripetendo ancora caos, tutte complodono
stelle mischiate ad altre stelle, ignei al mare
astri crollano, terra non vuole da sé stendere spiagge
e scuoterà il mare – al fratello contraria Febe
andrà e, nell’orbe per obliquo di condurre le sue bighe
…la morte è tragica, ma la vita è oscena…"



Andrea Raos, nato nel 1968, ha esordito con la raccolta Discendere il fiume calmo nel Quinto quaderno italiano diretto da Franco Buffoni (Crocetti, Milano 1996). È presente nel progetto ákusma. Forme della poesia contemporanea, (Metauro, Fossombrone 2000). Ha pubblicato Aspettami, dice. Poesie 1992-2002 (Pieraldo, Roma 2003) e Luna velata (cipM - les Comptoirs de la Nouvelle B.S., Marsiglia 2003). Ha curato l’antologia bilingue di poesia contemporanea italo-giapponese Chijô no utagoe - Il coro temporaneo (Shichôsha, Tokyo 2001). Presente nel VI Quaderno della rivista on line "Poesia da fare" di Biagio Cepollaro. Con Andrea Inglese ha curato Azioni poetiche. Nouveaux poètes italiens, in Action poétique, 177, settembre 2003 e Le macchine liriche. Sei poeti francesi della contemporaneità, in "Nuovi Argomenti", dicembre 2005. È membro di Nazione Indiana. Suoi testi sono apparsi sull’antologia Il presente della poesia italiana a cura di Stefano Salvi e Carlo Dentali (LietoColle, 2006). Suona il basso elettrico nella band del poeta francese Eric Suchère, di cui ha tradotto numerosi testi.

9 commenti:

  1. un gran libro, davvero un gran libro. mi sembra purtroppo che ci siamo accorti di ciò i soliti quattro/?/ spero proprio di no, scusate la poca mia "critica" /non volendo vado volando/ ma merita anche una lettura socio-antropologica.
    mi ripeto: una ottima raccolta.

    un abbraccio

    alessandro ghignoli

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  2. hai ragione: ottimo libro. E la critica dev'essere fatta davanti al libro intero. qui ho postato soltanto un assaggio, quello che il blog consente: in molte pagine domina la disposizione segnica nello spazio; irriproducibile qui.

    ciao!
    gugl

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  3. non escluderei anche un'altra ipotesi etimologica di "osceno", ma di cui non trovo riscontro nel Diz. etim. Pianigiani (forse è solo fantasiosa... però nell'etimo obs/a cagione - coenum/del fango è quel significato attribuito a obs che mi sembra un po' stiracchiato...)

    forse è fantasiosa questa che lascio, ma mi è molto cara per le sue suggestioni: ob-scaenam, ciò che va rimosso (ob) dalla scena

    infatti la morte è tragica e la sua evocazione sulla scena è ammessa - non invece l'atto del morire, secondo la poetica classica; la ferita mortale ancora appartiene a quella vita presente nel corpo violato, quindi la vita cruda accada fuori scena

    e trovare priva di manifestazioni oscene una rappresentazione di questa ineluttabile sospensione dello sguardo sulla non-memoria sul non-niente è davvero emblematico di una possibilità: quella di resistere alla tentazione del non-nulla, dell'inezia effimera la cui ironia è solo apparente: non si può far finta di niente

    non mi sarei inerpicato quaddentro se non ci fossi stato tirato dallo spectaculum sonoro di questi versi

    Mario Bertasa

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  4. sì, anxch'io ci avevo pensato. e la rua analisi è molto suggestiva!

    gugl

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  5. grazie a tutti!

    andrea

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  6. ciao Andrea, grazie a te per il dono.

    gugl

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  7. E' molto interessante qui da te.
    Passo con calma per leggere e per... pensare. ;)
    Marinella

    Ps. Vedo con piacere che oltre a Gio abbiamo anche 'Salento Poesia' in comune...

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  8. Benvenuta Marinella.
    Salento poesia l'ho clonata dal tuo blog qualche tempo fa. Volevo farmi vivo da un pezzo, visto che, mi pare, segui la poesia. questa è l'occasione.

    se passi mi fa piacere.
    ciao.

    gugl

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  9. Passerò, passerò...
    Mi piacciono queste 'clonazioni' :)
    Marinella

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