giovedì 14 gennaio 2010

L'elegia operaia di Fabio Franzin




Difficile scrivere su Fabrica (Atelier 2009) di Fabio Franzin dopo gli entusiastici ed autorevoli commenti usciti negli ultimi mesi. Difficile perché Fabio è diventato, suo malgrado, un'icona della poesia operaia, visto che Luigi Di Ruscio vive altrove e scrive in lingua. Oltretutto il poeta di Motta di Livenza (TV) usa il dialetto con maestria, lo suona persino, pescando nel paese in cui vive e, in questo libro, nell'acquario industriale. Organizzato per strofe regolari dal metro che si approssima al settenario, il poemetto racconta - dall'interno e per scene esemplari - la vita di fabbrica, di una piccola fabbrica, dove, per esempio, il "titolare" si nasconde dietro i bancali, per spiare l'efficienza del dipendente; e la forza-lavoro bestemmia, si fa le peggiori carognate, probabilmente è leghista e coltiva l'orticello dell'interesse privato, bonsai dei grandi sfruttatori multinazionali. Fra operaio e padrone c'è infatti soltanto una differenza quantitativa, che Franzin accetta nella sua verità fattuale e rinforza, sottolineando l'omologazione borghese di entrambi, che si concretizza nel sogno operaio della pensione, nel desiderio di possedere una donna ("Paperina") e – visto che egli stesso è personaggio poematico – di "giocare" con le parole, ossia (e qui sta l'osservazione critica che mi permetto di avanzare) di trasformare il dramma operaio in elegia, in qualcosa di meno doloroso dei calli che vengono alle mani, lavorando. Chiaro che per Fabio, il gioco è serio: compensa, infatti, e completa, una vita altrimenti ripetitiva. la vita dell'operaio, appunto, con quel surplus di alienazione che la pervade, rispetto a molti altri lavori dipendenti. E tuttavia, a mio parere, il piglio elegiaco non basta proprio perché addomestica il conflitto, addolcisce, con una vena malinconica, la crudezza dell'agire in fabbrica, la miseria dei rapporti umani, che pure Franzin non nasconde, ma semplicemente addita senza dare, a tutto questo, libertà di parola, con tutta la forza destabilizzante che ciò avrebbe comportato. L'esito complessivo consiste nel trasformare il tempo possibile (e utopico) della storia in ciclicità naturale, in un destino a cui non ci si può sottrarre e che si riassume nel distico seguente: "che si tenga stretta la dignità, l'operaio,/ meno duce sia il padrone". Mi chiedo: sono queste le parole più potenti che la sua poesia possa pronunciare? Certo fanno comodo alla società letteraria, che s'entusiasma nel sentire la voce operaia innocua, nel trovarle la bocca piena delle stesse cose che essa pronuncia: dolore, amore, stanchezza e quel lamento verso la vita che non diventa mai pronuncia chiara. Insomma: "Io so i nomi dei responsabili" di pasoliniana memoria mi piacerebbe sentirlo dire anche a Fabio Franzin, amico cui voglio bene e che per questo metto in guardia, affinché la sua poesia non coccoli i sentimenti piccolo borghesi di tutti noi, ma ci apra la testa con un punto di vista differente, urticante, destabilizzante. Sia chiaro, non intendo ripescare vecchi miti fortunatamente morti: epica operaista, visione dialettica della storia, purezza di classe. Mi piacerebbe invece che la voce operaia di Franzin attingesse davvero dal fondo scuro del proprio disagio, nascesse dal vuoto di senso dell'agire alienato anziché dalla rotondità intellettuale, che vorrebbe un operaio illuminista, un uomo libero ma addomesticato alle regole del sistema capitalistico. Perché è proprio questo che mi porto a casa leggendo Fabrica: una proposta moderata di conciliazione fra le parti, storicamente più consona al ceto impiegatizio e cattolico che alla rabbia operaia (che in questi giorni è evidente); una rassegnata condizione di sudditanza, la cui emancipazione è solo morale e mai sociale o politica; ma anche la consapevolezza che il dialetto del triveneto (e non solo) è tutto pregno della voce del padrone, non ha parole per dirsi nella propria singolarità, se non diventando bestemmia, urlo, orizzonte contadino (comunque luogo della servitù e dell'umiliazione), deformando insomma l'universo 'luminoso' della civilizzazione borghese. Siccome Fabio Franzin è bravo ed essere poeti significa fecondare la voce, lascio a lui il compito di uscire da questa melma linguistica, che tiene fra le proprie maglie anche la verità della sua collocazione sociale.

Qui alcune sue poesie tratte da Fabrica.

postilla: nei commenti seguiti a questo post, Fabrizio Bianchi ha consigliato di leggere "Mobilità", l'ultimo poemetto di Fabio Franzin, uscito recentemente nella rivista "Le Voci della Luna". Ora questi testi possiamo leggerli ne La dimora del tempo sospeso. Vale sicuramente la pena. 

30 commenti:

  1. Riflessioni acute e importanti, Stefano, e non solo in riferimento all'opera del bravo Fabio Franzin. Entrare nei mali sociali e del mondo e darne una percezione in versi, anche nell'avvertita urgenza e necessità, temo che spesso possa proprio apparire urlo depotenziato, esercizio retorico. Ma bisogna continuare ad esserci, in tanti, "indicando i nomi", pasolinianamente, ogni volta che questo è possibile, assumendo il rischio di una poesia imperfetta, di una poesia non poesia.
    Grazie, e un saluto a te e a Fabio.
    Giovanni Nuscis

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  2. Caro Stefano, come sempre hai espresso con grande lucidità e senza remore quanto anch’io – che amo profondamente e incondizionatamente Franzin – ho provato alla lettura di Fabrica, senza riuscire a metterlo a fuoco. O a volerlo fare: è difficile anche solo voler investigare il disagio in un rapporto comunque d’amore. Che è cieco. O rende tali, spesso, acriticamente. Tutto vero. Però sono altrettanto sicuro che non si può forzare la mano a chi scrive in un percorso che deve essere compiuto e sentito nel profondo, nella carne, prima di farne testimonianza. Il rischio è una fuga in avanti sicuramente retorica, insincera. E non c’è niente di peggio di una poesia volutamente gridata, dall’indignazione ‘istituzionale’: a San Francisco, a parte Hirschman, Brugnaro e Ambar Past, ne ho sentita ancora tanta (spero in parte dovuta alle traduzioni inappropriate), e anche qui da noi, i testi che riceviamo in lettura per i due premi che gestiamo troppo spesso grondano di un eccesso di ‘impegno’ sociale assolutamente non vissuto, solo voluto. Franzin vive in un Nord Est che è proprio quello che descrivi tu, e quella è la sua lingua, legata alla modestia della terra, dove “ciao” vuol dire davvero ‘schiavo’ e “mandi” sta per ‘comandi’, derivato direttamente dalle servitù militari di vivissima memoria. Il quadro che Fabbrica delinea ha il suo valore proprio nella mestizia che trasmette, nelle piccole vite che osserva e descrive, nel groppo che ti prende alla lettura. Mi spiace molto che tu non abbia ricevuto in tempo il numero delle Voci della Luna dove abbiamo pubblicato una parte del più recente Mobii/Mobilità, iniziato a scrivere da Fabio dopo la chiusura della sua fabbrica. Con il licenziamento suo e di quegli 80 operai che ha descritto, ancora al lavoro, in Fabrica. Qui il groppo aumenta e la testimonianza è davvero fatta sulla pelle: e quella presa di coscienza che tu auspichi si va delineando verso dopo verso. Anche se la lingua è sempre quella, dimessa e mai imprecante, pur nell’umiliazione più profonda, con qualche bestemmia solo suggerita. Se credi, puoi pubblicarle quando vuoi (se Fabio è d’accordo, ovviamente). Sperando che il tutto serva come documento dei tempi bui che stiamo costantemente subendo.
    Fabrizio Bianchi

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  3. Non conosco FABRICA, ma ho letto in RETE taluni testi di Fabio Frazin e ho sentito l’urgenza di manifestargli tutta la mia ammirazione, che in questa circostanza rinnovo. Un plauso, dunque, a Stefano per la proposta. A tutti un cordiale saluto, Marco Scalabrino.

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  4. caro Fabrizio, farò il possibile affinché Fabio trovi spazio nel mio blog. Come dici tu, non si può forzare la mano; e infatti, io lo invito a cercarsi dentro per smaltire una retorica subdola, involontaria, che - mi sembra - governa un po' la sua voce, qui. Solo dopo questo inabissamento, la parola può rinascere.

    ringrazio anche Scalabrino e Nuscis per gli interventi.

    indicare i nomi: trovarli dentro di sé.

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  5. fabio franzin14/1/10 20:23

    Caro Stefano, ho letto, e ti ringrazio, davvero di cuore, per esserti occupato del mio "Fabrica", innanzitutto, e per essertene occupato davvero "criticamente", muovendo, cioè, delle critiche al mio lavoro, atto che conferma, se mai ce ne fosse bisogno, la tua levatura di critico davvero militante, data la nostra amicizia; ma in qualche modo sento di dover dar conto degli appunti che mi muovi: innanzitutto dirti che è lungi da me l'assurda illusione che la mia poesia conquisti chiunque, ci mancherebbe! detto questo, vorrei aggiungere che io, come uomo, vivo della biblica incisione che "chi è senza peccato scagli la prima pietra", e, come poeta, dell'altrettanto biblico, per me, assunto di Saba sul cercare di fare, perlomeno, una poesia onesta. La condizione operaia non è dissimile dalla condizione sociale in cui tutti viviamo, arranchiamo, sguazziamo (bisognerebbe rileggere il testo fondamentale di Simone Weil, vedere come lei, che pur in altri temi è stata feroce, ha vissuto l'annichilimento morale dentro la fabbrica, come le sue parole si sono piegate in un canto di mestizia e di sconforto). Io ho lavorato in fabbrica per trent'anni, e le mie cose le ho scritte davvero con tutti i miei calli e le mie ernie, ma anche con quella voglia di stare, di "giocare" con le parole, così da sentirmi ancora vivo, la sera, la notte, per sentirmi salvato dall'umana miseria di mendicare le briciole, le bucce di patata, con la ruffianeria e i piccoli escamotage che puoi trovare in ogni racconto di fabbrica, o di lager. Posso garantirti, se ce ne fosse bisogno, che in fabbrica le unghie si sono sommate alle dita che indicano, lì i nomi li ho fatti, coi cognomi e i soprannomi, pagando poi l'avversione proprio di coloro per cui ho lottato, e ho rischiato anche il mio bene familiare. Sai, e non parlo certo di te, quanti critici e poeti ho conosciuto che si esaltavano per l'esempio e il sacrificio di Majakowsky, o di Mandel'Stam, riempirsi la bocca sull'intransigente verità della parola, salvo poi vederli ruffianarsi per pubblicare con una casa editrice importante o piazzare il saggetto sulla rivista. Allora ho capito che è più importante tentare di piantare un seme piuttosto che arare, ruspare tutto, che è più importante, e onesto, indicare piuttosto che urlare "maledetta razza padrona" come Brugnaro negli anni '80. Anche perché, come nella naja, come in qualsiasi consorzio umano, gli ultimi criticano l'arroganza dei primi sognando solo di diventare primi per far pagare ad altri ultimi il dolore che essi hanno attraversato. Un altro aspetto per me importante, è che io non credo nel potere che ha la parola scritta di fare rivoluzione, sarebbe caricare qualcosa di puro di una responsabilità troppo grande, e anche questo atto sarebbe sacrilego.

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  6. La prima cosa che mi viene da dire è il mio rispetto e la mia ammirazione per chi fa critica vera con coraggio, come fai tu, st, in questo pezzo. Critica vera che non significa incensare necessariamente gli amici che pure meritano tutta la stima possibile, come Fabio in questo caso, ma anche mettere in guardia, porre questioni, alimentare la riflessione perchè si crede nell'autore, si crede profondamente.

    Sul merito le mie considerazioni sono abbastanza superflue, credo, rispetto alla risposta che Franzin stesso ha dato qui sopra. Ma ne voglio aggiungere qualcuna proprio per la stima (e l'affetto grande a livello umano) che ho per lui, e non mi stanco di ribadire.

    Che Fabrica sia un bellissimo libro è anche una mia convinzione, come del fatto che, è vero, forse ripete altri lavori di Fabio ma questo non è un demerito, anzi, perchè nel corso del tempo si è costruito un'espressività che adesso lo rende riconoscibile. E' un libro anche duro ma nei modi necessariamente gentili di Franzin, perchè lui mi sembra questo, non lancerà lotte di classe, non è forse nelle sue corde: il suo timbro è più privato ma non per questo meno doloroso o meno coraggioso. Questo modo di parlare dell'esperienza della vita in fabbrica a me colpisce e molto; se poi i riconoscimenti gli sono arrivati anche (sottolineo anche) per una sorta di lavaggio delle coscienze di chi legge e valuta mi importa poco, perchè comunque sono meritati e certo di Franzin non si può dire che scriva per piacere agli altri, piuttosto per esigenza. Nella mia idea Fabio è incapace di calcoli, e non credo che sarò smentito.

    Se invece chiedi se questo sia il lavoro migliore di Franzin - è quello credo che ha ottenuto i riconoscimenti più importanti, o fra i più importanti - io non so rispondere. Il rischio di "adagiarsi" su un timbro conosciuto e forse per questo inoffensivo esiste, ma non qui, piuttosto da qui in poi: forse proprio perchè Fabrica è un lavoro compiuto chiude per sempre una porta per Franzin. A mio modo di vedere non la ha superata, non si è ripetuto adesso, ma, come mi sembra dicesse Magrelli, il mondo di Fabio ha "bruciato per sempre un suo angolo", e si dovrà ripartire in una direzione differente. Del resto credo che anche lui, proprio perchè è persona di sincerità e consapevolezza disarmanti, se ne renda perfettamente conto, e sappia anche tacere se necessario fino a quando non sarà il momento in cui le parole si chiamano fuori da sè, il che significa che saranno mature. Io ho molta fiducia in questo, anche se dentro di me spero che l'attesa non sia lunga.

    Un carissimo saluto a te e Fabio.

    Francesco t.

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  7. ringrazio Fabio per la cura con cui ha risposto alle mie osservazioni. E ringrazio Francesco per quanto dice.

    io non accusavo Fabio di finzione. solo notavo come, l'operaio da lui cantato, sia 'senza qualità', per ditrla con musil. certo questa è la sua esperienza. però sono convinto che, se cerca più a fondo nella stessa, trova altre parole, più potenti, per darci 'dolore' e 'desiderio'. che la fabbrica abbruttisce e svuota lo sappiamo già (io solo figlio di operai. lo vedevo visto tutti i giorni. come vedevo che mio padre, acora adesso, legge un sacco di libri eccetera).



    naturalmente, aggingo per chiarire a Francesco, non facevo la greduatoria dei suoi libri. ragionavo su Fabrica, esclusivamente.

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  8. un caro saluto a tutti, fabio è un poeta serio e rispettoso di se stesso e degli altri. a sentir lui sembra spesso sul punto di mollare, per stanchezza, nausea, rifiuto, problemi..poi per magia (e gran forza interiore) cala un nuovo asso dalla manica. fabrica è un libro coraggioso, dal deciso tono civile e dalla struttura solida e trascinante. un libro che come ho avuto modo di dire nella mia recensione su atelier tocca molte corde diverse senza porsi il problema di piacere o dispiacere a nessuno. grazie fabio. grazie stefano e francesco per l'utile dialogo. roberto cogo

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  9. Caro st,
    sì, avevo inteso. In ogni caso il chiarimento è gradito, e in ogni caso una bella discussione.

    fr

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  10. ho letto alcune liriche di fabrica (ma non ancora il libro e quindi prendetemi così come vengo, magari ignoratemi) e l'ho trovato di parole impotenti. non so se questa sia la condizione operaia oggi o la condizione del poeta che la vive e ne canta, e sua intenzione compositiva. non frequento operai ma operatori sì, e lì la rabbia è tutta finita e quando c'è viene stigmatizzata (in nome di un brodoso doroteismo mediatore, che sotterra ogni conflitto in nome della pacificazione smelensa e, perdonatemi, cattolica). c'è solo cattiveria e tristezza, in una sorta di passivoaggressività che ha alla radice la paura e il pericolo. Ecco, questo è forse ciò che c'è e non ho sentito nelle poesie di Fabio (che pure, davanti ad una birra s'incazza ed inveisce contro colleghi che vorrebbero essere capitalisti e capitalisti che fanno gli amiconi), perché in questo suo lavoro la sua mi sembra una scrittura contaminata da questa controfobia. per cultura, come nei veneti, che la paura ce l'hanno ma non la sentono e diventa sorriso di circostanza e ira funesta diretta a te in un istante. Che sono le due facce di una medesima malattia, che da un lato ti fa vittima e diseredato e dall'altro ti spranga (non avete mai notato che nella nostra cultura cattolica quando ci ci sei, quando ti vedo, sei mio e sei mio amico, ma quando non ci sei, quando ti allontani e non ti vedo più, tu non esisti?). Bella rogna questa discussione. Una pacca sulla spalla a tutti. GTZ (piutosto confuso da fabriche e coperative e da tuto quel che ghe va drio, che straca...)

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  11. caro Giovanni, non posso che darti ragione, come ben si vede dal cappello introduttivo. Come scrve Fafrizio Bianchi e, in privato, anche Fabio, i testi nuovi, "Mobilità", conseguenti al suo licenziamento, hanno qualcosa in più, che me li fa sentire più vicini.

    Oggi pomeriggio Francesco Marotta li posta nel suo blog, così potremo leggerli con calma e commentarli.

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  12. fabio franzin16/1/10 07:08

    Grato a chiunque è intervenuto, e lieto che la mia raccolta abbia innescato questo interessante dibattito, sento, un'altra volta di dover intervenire per puntualizzare alcune cose: come giustamente nota Nadia Agustoni, in un commento che non è riuscita a postare, ma che ho inoltrato a Stefano perché lo faccia lui, solo chi ha vissuto lo scenario dei mutamenti avvenuti negli ultimi vent'anni almeno nella realtà operaia può comprendere fino a fondo la questione: quali leggi governino, ora, quel microcosmo di violenza sottesa (sempre più proprio questa affermazione "eh, solo chi l'ha vissuta può capire" non vi sembra molto simile a ciò che hanno provato tutti gli scrittori reduci dai lager? senza voler assolutamente far confronti con queste due ben lontane realtà, sia chiaro); io mi sono limitato a "disegnarla" questa situazione, a ritrarla così com'è; che poi non piaccia, per come è, non credo sia da incolpare proprio, o solo me. Perché secondo voi negli ultimi anni è diventata di moda la parola mobbing? perché in quell'azienda telefonica francese i suicidi si sprecano? perché tutti questi infortuni sul lavoro, le cosiddette morti bianche? perché i poveri morti della Tyssen Krupp non si sono coalizzati prima e non si sono rifiutati di lavorare in condizioni così pericolose? E quelli di Marghera, col cvm, e quelli dell'amianto? Saranno mica tutti dei senza coglioni e senza coscienza?
    Certo che potrei averle urlate, certe cose, come davanti a una birra, caro Giovanni, certo che potrei averle urlate. Ma anche se avessi urlato non sarei riuscito minimamente a scalfire il problema, e credo anche che non spetti a me, almeno non a me da solo, perché è un po' questo che mi si chiede, di provare a modificare una situazione che si è agglutinata da decenni.
    Non chiediamo agli operai, o ai poeti di immolarsi per cambiare la realtà, è così complessa che sarebbe un sacrificio inutile (pensate a quegli operai che da mesi lavorano e non vedono stipendio, e che perché qualcuno li ascolti, per esasperazione hanno chiuso i manager dentro l'azienda: credete forse che vedranno lo stipendio, ora? no, ora riceveranno un avviso di garanzia per sequestro di persona, ci scommetto le palle!), chiediamolo a ognuno di noi, chiediamoci, ognuno, il perché di uno sciopero, di una manifestazione: per troppo tempo la società si è bendata gli occhi e tappata le orecchie.
    Un abbraccio a tutti.

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  13. nadia agustoni16/1/10 08:05

    Mi permetto di aggiungere la mia voce a quella di Francesco Tomada di cui condivido l'intervento. Capisco la perplessità di Stefano Guglielmin rispetto a quegli operai "senza qualità". Posso solo dire che dalla metà degli anni ottanta si è assistito nelle fabbriche a una regressione (violenta nella sua imitazione del peggio della classe dirigente) e che chi l'ha vissuta e ha pagato il ribellarsi a questo sistema ritrovandosi poi solo, abbandonato da tutti, può comprendere le parole di Fabio Franzin: "Anche perché, come nella naja, come in qualsiasi consorzio umano, gli ultimi criticano l'arroganza dei primi sognando solo di diventare primi per far pagare ad altri ultimi il dolore che essi hanno attraversato".La violenza della fabbrica nell'oggi è quasi impossibile spiegarla. Chi ha
    vissuto vicino all'operaio del decennio delle lotte farà fatica a capire il dopo. Pur da dentro la fabbrica, per anni, nemmeno molti operai hanno capito la mutazione che stava avvenendo. E di mutazione si è trattato, perchè fino a metà anni ottanta ha resistito un'altra idea di lavoro, di fare, di essere insieme. Il punto forse difficile (anche da capire) è che chi vive la condizione operaia ogni giorno da 30 anni vive certe situazioni ogni giorno e questo cambia anche la rabbia: la nasconde nell'amarezza. Conoscendo un po' meglio Fabio Franzin ho un po' compreso la sua non rassegnazione. Il suo modo di
    porsi. Ringrazio per gli spunti offerti nel post e auguro buon lavoro a tutti. Un saluto.

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  14. caro Fabio, la mia osservazione critica non voleva chiamarti i ncausa in quanto operaio che non fa la lotta di classe, ma farti riflettere sulle parole che usi, su quanto le parole che usi in 2Fabrica" siano in possesso della cultura bigotta, ipocrita e di regime del veneto più bieco. stavo insomma solo riprendendo alcune considerazioni d pasolini sulla lingua nella civiltà del neocapitalismo (vedi "empirismo eretico").

    sugli operai: la storia del movimento operaio è nota: si è passati dalla violenza contro le macchine alla violenza contro l'extracomunitario, passando per l'eufuria dei grandi scioperi degli anni '50 e '60 (si legga "vogliamo tutto" di balestrini, per esempio).
    il terrorismo brigatista degli anni '70, infine, è stato organizzato dalla borghesia colta in preda al delirio messianico e all'odio verso i padri industriali e/o intellettuali di retroguardia.

    ringrazio Nadia per questo suo intervento. sono d'accrdo sulla svolta operaia degli anni 80, in fabbrica. i più combattivi, soprattutto negli anni 90, sono stati licenziati e ora fanno i piccoli imprenditori. Qui nel veneto, già negli anni settanta, molti operai si sono messi in proprio e costituiscono ancora oggi la spina dorsale dell'economia locale (quella che sopravvive alla crisi). Voglio dire: il "decennio delle lotte" era davvero lo scontro fra autenticità e inautenticità? oppure le coscienze già da un pezzo mangiavano nello stesso piatto? la civiltà di massa diventata civiltà dello spettacolo ci racconta anche questa storia, mi pare.

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  15. rileggendo il commento a Fabio, a scanso di equivoci, aggiungo: quando affermo "le parole che usi" intendo le parole che tutti abbiamo a disposizione in quanto dialettofoni (lo sai che io parlo italiano solo a scuola e quando scrivo). chiaro che anche la lingua nazionale patisce la stessa invalidità. ma il veneto polentone, parente di arlecchino e del ruzante, furbo e ingenuo nello stesso tempo, ha una storia di servitù notoriamente marcata. vero anche, tuttavia, che proprio queste lingue, come ci insegna Bactin, elaborano l'antidoto coltivando l'osceno, l'umoristico, il grottesco, il blasfemo: tutte forme di contropotere che dovremmo tenere in conto quando scriviamo.

    un abbraccio!

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  16. bè, io veramente non dicevo che si doveva poeticamente "urlare"...anzi....quello sarebbe stato inutile e retorico. Dicevo che non sento la paura, perché la paura non si sente più, ma c'è. Mi fermo qui e seguo dallo schermo. Pat pat. GTZ

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  17. ...come dicevo non vedo operai, io, nel mio trascorrere. Ma operatori sì. Operatori che sono operai del lavoro sociale (dai 950 ai 1050 euro al mese per 38 ore di lavoro, e duro). E vedo la paura dietro ogni angolo. Ogni notizia fa scattare l'ansia, la paura, l'angoscia. Tanto che vivo il dilemma della rivelazione o meno di informazioni a meno che non siano verificate. Ma spesso tali info han a che fare con la politica e quella, sappiamo, mai parla la lingua della chiarezza. Io vedo operatori che finito di lavorare vanno a lavorare (al bar, in pizzeria, a fare dimostrazioni di crocchette per gatti al supermarket il sabato pomeriggio, ecc....). E non c'è più nemmeno il mito della fuga, se non nei più giovani. In altre ere ci salvammo almeno fuggendo, emigrando. Ora, dove andiamo? Mi rifermo qui. Ciao. GTZ

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  18. Sebastiano, leggo nel tuo intervento:

    "per parlare del dolore bisogna aver provato dolore
    per parlare della lotta bisogna aver lottato
    per parlare della rabbia bisogna essere stati arrabbiati
    per parlare degli operai bisogna essere o essere stati operai.
    Io non potrei. Non mi permetterei."

    Non sono convinto di questo in termini assoluti. L'universalità di certi sentimenti può far entrare il poeta in stati e condizioni reali e sociali che non sono le proprie, ma dei quali potrebbe esprimere aspetti non meno significativi di quelli espressi da chi invece ne fa parte; negare questo
    rischia forse di avvalorare una sorta di delimitazione tematica per classi di appartenenza (ad es. l'emarginazione razziale, economica, sociale solo da chi ne fa parte); sappiamo invece che la poesia -quando è tale- ha saputo parlare di tutto e tutti in/di ogni tempo.
    Giovanni Nuscis

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  19. Preciso che la riflessione trae spunto dalle parole dei recensori (Guglielmin e Aglieco)e non dai testi che ho avuto modo di leggere qui e altrove(a mio parere eccellenti) di Fabio Franzin.
    Giovanni

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  20. Ciao Stefano (un po’ che non mi faccio vivo…!), e un caro saluto a tutti

    il mio commento è in coda a quello che ho lasciato poco fa nell’altra discussione su “Mobii/Mobilità” di Fabio nel blog di Marotta…

    tralascio delle possibili legittimazioni o meno ad intervenire che mi potrebbero derivare dai mestieri esercitati dai miei antenati (potrei arrivare fino alle miniere del Belgio), né di quelle che mi derivano dal mio mestiere non facilmente sintetizzabile

    ma non tralascio invece di segnalare che Arlecchino non è stato inventato sicuramente da servi, ma probabilmente da astuti capocomici di “campagna” affamati e in cerca di una buona trovata per debuttare in città con la loro baracca e che uno dei suoi immortalatori, più tardi, fu un certo avvocato, rampollo di borghesi modenesi, abituati a recuperare in modi fantasiosi i propri dissesti finanziari, successivamente trapiantato in Venezia, dopo essersi aggregato per ragioni amorose ad una compagnia di comici di Chioggia

    vado a naso e ne faccio qui principalmente una questione di lingua (confessando l’invidia per chi l’idioletto lo esercita quotidianamente): quel poco che leggo di Fabrica, lo preferisco nella traduzione italiana, al contrario trovo la traduzione italiana di Mobii “minore” rispetto alla “maiuscolinità” dell’originale dialettale. Idem, leggendo Mobii mi viene da tradurlo, per capirlo, immediatamente e in profondità, nell’unico idioletto bergamasco che, pur non esercitandolo, conosco; leggendo Fabrica mi viene da “lasciar stare” la sua lingua

    sono solo sensazioni, ma le trovo, scorrendo i commenti e gli interventi critici, molto vicine alla questione che il cappello introduttivo di Guglielmin pone in termini estesi, e che personalmente traduco con: un poeta “espressionista” come Franzin (che ritrovo, mi si dimostri il contrario, in Mobii) rischia di risultare “impressionista” in Fabrica – del resto il nesso operaio-clown di charlotiana memoria è una spia evidente di questo trattamento “impressionistico” della materia, se dalla metafora viene rimossa tutta la paradossalità che il lato grottesco di Chaplin sfoderava in “Tempi moderni” - figlio di guitti, lui, non di operai; né mi risulta che abbia mai fatto lui l’operaio, se qualcuno ha fonti da opporre le citi – ma bisogna per forza essere stato un torero o aver fatto un safari in Africa per scrivere come Hemingway?

    con ciò non voglio nascondere, però, il piacere personale di leggere un autore di pasta schietta come Fabio Franzin

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  21. Interessantissimo questo blog per tutti quelli che c'interessiamo alla poesia. L'ho vincolato al mio blog TRANSEÚNTE EN POS DEL NORTE (http://transeuntenorte.blogspot.com/).
    Saluti cordiali da Barcellona.

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  22. ringrazio per i commenti ultimi postati. Mi fa particolarmente piacere risentire Mario, che davo per disperso.

    un saluto anche a Giovanni, a cui auguro ogni bene e al nuovo ospite, Albert, che ringrazio ulteriormente per le belle parole.

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  23. in tempi di guerra permanente, bisogna mettere in conto che qualche disperso ogni tanto si faccia vivo...

    :-)

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  24. sarebbe stata una perdita significativa; non possiamo permettercelo :-)

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  25. proviamo a sostituire qualcos'altro alle parole

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  26. qualsiasi cosa sia, avrà un nome. prova a pensarci.

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  27. margherita ealla19/1/10 22:40

    una discussione interessantissima (ma davvero) che ho letto con molta partecipazione (così come le poesie attraverso i due rimandi).
    Trovo che i rilievi di gugl siano molto di stimolo, non solo all'autore ma anche (e così deve essere) ai lettori.
    Inoltre quando si apre un dibattito così gli stessi acquisiscono, grazie ai diversi interventi, angolature e ottiche che consentono una migliore messa a fuoco.
    Perciò dopo questa che ha tutta l'aria di una manfrina (ma non vorrebbe esserlo)
    faccio un es.:
    a me è giunto proprio acuto e sintetico (direi illuminante) quel rilievo dell'utente Mario Bertasa su "espressionismo" di Mobii (vi aggiungo anche quelle che ho avuto modo di leggere poco tempo fa: "vocài dal càivo"), "impressionismo" in quelle di "Fabrica".

    Altro, non ho proprio granchè da aggiungere, se non una osservazione/curiosità che riguarda la forma grafica dei versi di "Fabrica" (che oltre ad ingranaggi, o ai mattoncini di composizione, per via della forma allungata e segmentata mi ha fatto pensare ad un totem, nel senso di simbolo che lega un "clan" o tribù, insomma che sigla una appartenenza)
    ecco volevo chiedere se questa forma grafica è di tutto il poemetto.

    Ciao

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  28. Intanto ringrazio tutti coloro che hanno postato un loro commento dopo l'ultimo mio, cioè: Roberto Cogo, Giovanni Turra Zan, Giovanni Nuscis, Mario Bertasa e Margherita Ealla; a lei dico, ringraziandola per la suggestiva, e calzante, "visione" della struttura ad addentellato (rif. Manuel Cohen) o ad albero a camme (rif. Roberto Cogo) dei testi di "Fabrica", rispondo che sì, hanno tutti questa struttura, composta di 5 stanze di 5 versi composti a "sbalzo" (tranne l'ultima breve sezione che, di traduzioni, non me l'avrebbe permesso. Commosso per questo interessante e importante dibattito innescato dalle note di Stefano, dibattito che, oltre a me, naturalmente, illumina un po' tutti noi, saluto, con affetto. Fabio Franzin

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  29. Ho perso un passaggio: ringrazio Margherita per la suggestiva "visione" totemica della struttura dei testi di "Fabrica".
    Fabio Franzin

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  30. anch'io ringrazio tutti per l'attiva partecipazione, che sicuramente ha un senso, non solo tecnico, in questa babele virtuale e, peggio, in questo vuoto reale.

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