sabato 15 ottobre 2011

Jacopo Galimberti


Esordio di grande interesse questo di Jacopo Galimberti nel Senso comune (2004-2009), edito da Le Voci della Luna e sostenuto da testi critici di Biagio Cepollaro e Andrea Inglese, due autori importanti, attenti alle poetiche contemporanee. Lascio al lettore l’approfondimento dei loro approcci, unanimi nel rilevare l’autenticità di questa scrittura, in cui «il dramma viene sempre descritto come un fatto, sempre reso esterno» tramite un «lavoro di mimetizzazione del dettaglio carico emotivamente» (Cepollaro); Inglese parla di «fame di realtà» colta nei «dettagli incongrui» nelle «notazioni marginali». Dettagli, dunque, di un reale che Galimberti cerca nella cornice, ai bordi della scena («oggi il cambiamento inizia dal basso»), là dove «si annida / la sfida del nostro mutamento», «nei reami della naftalina, nelle cantine, addosso a muri luridi» perché proprio lì «si stringono sacche di resistenza dove i desideri continuano».

Stretto tra un prologo dove la memoria attesta l'essere in-comune – quella gettatezza che lega ontologicamente la presenza e che il «ti ricordi?» spesso evocato chiama all’appello attraverso la storia personale, affettiva – e un epilogo in cui invece la temporalità si condensa nel presente, snaturandosi al punto di svuotare il soggetto, di stordirlo, mutandolo in «qualcosa che ha paura», il libro organizza uno spazio contemporaneo delle mutilazioni (delle speranze, del progetto di vita, del lavoro gratificante, delle relazioni sincere), essendo gli uomini «destinati a sprofondare in uno stato brutale / di promiscuità, infezioni, razzie, carne cruda», quelle razzie proprie un tempo al «mestiere delle armi» ed ora invece messe in opera non soltanto dal potere ordinario in tempo di pace, ma anche dal pregiudizio, dal senso comune che tollera o alimenta l’ingiustizia e il sopruso. Da basso, invece, in quanto pulsa sotto la superficie delle regole date, la vita sa ancora mettersi in gioco con la natura (cantata nella seconda sezione, "Nella mente della terra”), accettando la propria caducità, unica via dell’umano per sottrarsi alla violenza del moderno, al mito dell’identità forte, sovrana sulla bufera e sulla storia. Uscire da questa logica, implica prendere le distanze dalla solitudine romantica, dall’eroismo leopardiano in lotta con la matrigna senza testa, e Galimberti lo fa anzitutto auspicando un dialogo fra generazioni (frequenti i richiami agli «antenati», «braccia ricchissime che mescolano malta e latte»), spogliato dalle ideologie, dal perbenismo, poiché «tutto è ancora degno, / dal basso»: febbre alta, lunghi digiuni, amori incondizionati, cecità, vecchiaia, depressione, l’idillio, persino «l’attesa del boia o il suicidio» perché, dal basso, «nessuna esperienza perde contiguità o teme l’esilio». Contiguità e casa: lo stare in-comune, appunto, quell’a-priori della gettatezza in cui siamo davvero singolarità esposte, differenti eppure uguali perché incontrati prima di ogni disgiunzione etica o sociale, prima che il senso comune gerarchizzi il giusto e l’ingiusto, l’onesto e il disonesto.

Lo sguardo di Galimberti tuttavia, scavalcato il prologo – raccontando per dettagli crudi, scorci prelogici, frammenti che diventano gesti («la luce, l’ho accesa, ora alzarsi, fare la doccia») oppure mettendo in mostra caratteri nevrotici – sembra non credere sino in fondo alla possibilità storica di questo dialogo, anzi lo mortifica, pur dandolo per fondante. Soltanto nell'ultimo capitolo ci addita la strada personale da intraprendere per cominciare a costruire il «cambiamento», a partire dal riconoscimento delle sincronicità, sorta di «esercizio spirituale» di matrice junghiana o dall’imparare a guardare un «asse di legno», riconoscendo il cosmo e se stessi nei suoi labirinti, come in una bella poesia di Borges. «Tutto questo non lo vedevo, non lo udivo» dice verso la fine del libro; e comunque non basta, lo sa benissimo l’autore, pregno di conflittualità, evidente nel fatto che «basso», prima che fondo dell'essere in-comune, è anzitutto inteso sociologicamente, come forma di emarginazione, dolorosa, ma che purifica dal contagio conformista. Una conflittualità invero condivisibile e particolarmente forte nella nuova generazione, preparatissima eppure senza futuro, fin quando non si prenderà collettivamente le redini della Storia, piegandola ad un senso, ad una direzione, che sia comune davvero. Per intanto i versi, e non solo i suoi, non possono che uscire da bocche volutamente sdentate, da un’immaginazione ferita o franta, che si sente in pericolo, tutta dentro l’aporia messa artisticamente in scena da Beckett. E non è un caso che alcune poesie del libro siano state scritte con Vanni Santoni, Alessandro Broggi e Davide Racca, tre giovani impegnati ad indagare l'incomunicabilità contemporanea.



Prologo



Se tento di spiegare dove e come s'inizia,
non so, e mi blocco. Se non ci penso però
si addensa il gesto e l'azione ha motore, scocca.
Oggi il cambiamento inizia dal basso.
- Si rise quel natale in cui il bambino improvvisamente
ti diede la manina, mentre i genitori erano rapiti
dalle vetrine.
Oggi il cambiamento inizia dal basso.
Dal basso tutto ci può ancora aiutare, dal basso
non si sa ancora, occorre camminare a mano aperta,
tutto può dare il la, forse l'ha già dato, forse lo darà.
Il materialismo dialettico, le radici delle piante, i giocattoli olandesi,
il filatoio, un video di cicatrici, la gag dei pattini o delle bretelle,
una sega tra amici.
- Abbiamo passato tutto il pomeriggio, ti ricordi? fino alla prima stella
a parlare agli insetti del prato, alle rughe degli alberi, a immaginare
i progetti che l'umidità poteva aver tracciato nei muri.
Eravamo, come dicevi e come, a ragione, si dice, eravamo
fuori.
Oggi il cambiamento inizia dal basso.
Nel basso, ci sono tutti gli indizi, si annida
la sfida del nostro mutamento.
Non la febbre alta, né lunghi digiuni, né l'amore incondizionato,
né la cecità o la vecchiaia, né una gravissima depressione, né
gli acidi o l'idillio, l'attesa del boia o il suicidio,
nessuna esperienza perde contiguità o teme l'esilio
tutto ancora è degno,
dal basso.
- E quell'estate? che di colpo mi sei venuta addosso
e piangevi e dicevi che tutta quella gente insieme, quegli sconosciuti

che però ballavano e ballavano da ore, insomma,
ti eri commossa, ti ricordi?
Dal basso, nel nostro tempo, inizia la mutazione.
Dal basso si ricorre a un giorno di silenzio per ascoltare
il tesoro tutto attorno: l'acqua che corre, la pentola calda, la luce radente
sui disegni della fiaba, la scuola che spaventa, la strada asfaltata,
la fogna, la musica della radio che accompagna
nel sonno.
- C'era quella volta, ti ricordi? mi hai detto che ora ai piedi avevi
uno stipendio. Di un birmano che lavora un mese, hai aggiunto,
poi hai preso in mano gli stivali nuovi, un po' unti, e hai detto:
"Come sono stupendi però!".
Oggi il cambiamento inizia dal basso.
Dal basso si va in cerca di canali, circuiti,
aorte che trasmettano la metamorfosi: la parabola, l'indovinello,
il mito, la barzelletta lasciva, l'orgia nel tempio, l'arte marziale,
il silenzio. Dal basso l'esempio ha molte lingue,
tutte senza imperativo.
- Ero agitatissimo, ti ricordi quella volta? quella
che dicevo che era tempo di credere nell'assurdo
che cambino le persone
poi le cose seguiranno, così scosso,
che siamo finiti in ospedale,
mi ero slogato la mascella.
Dal basso c'è un'altra, una nuova,
un'ennesima possibilità di cambiare, dal basso
muoveremo.




Un antenato


Adesso accendo la luce e faccio la doccia.
Fintanto che c'è. Mi accendo persino la stufetta.
Poi scendo dal cinese a lasciargli i maglioni,
sarà un mattino terso.
Andrò a vedere al cantiere se hanno bisogno,
mi hanno detto che cercavano.
Sembro più vecchio di quello che sono, forse.
Questo è certo, l'attesa segna.
La colazione: al bar.
Il cameriere con il ghigno correrà tra i tavoli,
io farò sempre attenzione alle solite pagine degli annunci,
poi la spesa. Se è bello vado al parco
a vedere i cigni. Magari mi fumo un sigaro.
Io dico che prima o poi arriverà una lettera.
Credere al destino non logora mai.
Il destino di questa casa, mi copre,
ma non sa quanto mi costa.
Questo soffitto bianco è la pace raggiunta,
le formiche irretite nel loro tran tran...
le spugne erano animali che respiravano?
La luce l'ho accesa, ora alzarsi, fare la doccia.
Tutto intorno gli amici sottratti alle cure terrene:
la bici sul balcone, le maniglie consunte, la stessa
pattumiera, gli interruttori
nella loro mandorla di nume domestico.
Solo che non hanno una figlia loro.
Smetterla di cercare lavoro
spegnere la luce.



**


La placca adriatica impattò.
Questi sassi si sradicarono a un crampo millenario
iniziando a aggredirsi, a fondere.
Vennero poi trasportati
sui dorsi limacciosi dei ghiacciai
o rasi al suolo
dilavati da piogge di zolfo.
Morsi ora da una muta verde,
i cavalloni protraggono le loro ernie segrete
montandosi o franando
in schiume glabre,
su un letto di scisti.
Con gesto grande i primi licheni si inerpicarono
su questi scogli in secca
sotto un cielo livido di monsoni.

Con il treno entriamo nella montagna.
Nel tunnel pare di sapere da sempre
che tra i crepacci torneranno
le danze immense e i corteggiamenti
dei cetacei.




**


Perdo biro, accendini, sigarette,
ne reperisco, ne riperdo, le ritrovo
e di nascosto a me stesso
le rimetto nel loro corso materiale.
Gravi sottili, ignoti a dono e commercio,
circolano docili
in peripli minimi.
In altre fattezze ritornano
e trovo nuove biro, accendini, sigarette,
a caldo, senza saldi postumi.
Quasi un esercizio spirituale.




**


L'ultimo stadio dei desideri è una vita sparsa.
Nei reami della naftalina, nelle cantine, addosso a muri luridi
si stringono sacche di resistenza dove i desideri continuano.
E continuano a reinventare le storie delle cose.
Allora, senza ostilità, avvengono traslochi in cui una biografia
si lascia, poiché gli oggetti non appartengono più alla scia
di chi li ha deposti.
Un cappello di iuta evoca a tutti i costi una ferrovia, un ritorno,
di chi non partì mai. Un anello di plastica addirittura mi sposa
a una semisconosciuta.
Se un tessuto era luogo di strage, oggi si asciuga,
non restano che dosi di avventure assolutamente inavvenute.
Questo trasloco sembra un gioco
che rivela una totale assenza di solidarietà
con le opere reali della poca vita.
Eppure, però, anche la realtà è spesso una fuga.
E poi ci sono molti tipi di inesistenza. Forse vale elaborare, dal basso,
una nuova strategia d'imballaggio.
Per il trasloco di oggi gli scatoloni sono allora
quanti ne impone la mia agiografia. E seguo con rigore
solo le divisioni della vita desiderata.
Lo scatolone delle amicizie morte sul nascere, ma oggi tormentate
e terminate per un motivo valido.
Lo scatolone degli amorazzi, in realtà casti strazi: riccioli votivi,
peluche scotennati, scontrini di grandi bevute...
E così via, inviare via, nel nuovo ordine, verso nuove dimore,
nuove città, nuove mutile, malintese, mille nuove
figure di solidarietà.



Jacopo Galimberti è nato a Pavia nel 1981 ma fino a settembre 2006 è sempre vissuto tra Monza e Lissone dove ha fatto studi universitari in sociologia, antropologia e storia dell'arte. A 25 anni, tuttavia, ha deciso di lasciare l'Italia. Dopo aver lavorato e studiato a Parigi e Dublino, è ora in Inghilterra per un dottorato in storia dell'arte. Vive tra Londra e Parigi. Le sue poesie sono uscite su numerosi blog letterari, in internet ha anche pubblicato (per la Cepollaro e-book) una raccolta dal titolo Dal basso e altre poesie (2004-2007). Nel 2008 ha ricevuto il Premio Renato Giorgi per la sezione "Cantiere" e nel 2010 è stato incluso nell'antologia Mappa giovane. Voci poetiche di Monza e Brianza (Le Voci della Luna Edizioni). Oltre a testi poetici, scrive saggistica di carattere storico e prosa, come testimonia la sua partecipazione al Grande Romanzo Collettivo redatto con il metodo SIC.


L'autore presenterà il libro a Vicenza, venerdì 21 ottobre, alle 18,30 presso la libreria Mondadori "Quarto potere" (Ponte Pusterla, 14). Qui il dettaglio.





5 commenti:

  1. Molto interessante questo autore, di cui avevo sentito bene ma che non avevo mai letto.

    Francesco t.

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  2. Caro Stefano, ti leggo a salti, come accade a questa mia generazione di saltimbanchi (comunque) e ti trovo sempre serio e attento nelle tue declinazioni. Davvero interessante e serio Jacopo e ci regalerà altre sorprese. Ieri è stato con noi a Venezia, al Bistrot de Venise, alla prima serata dedicata alle voci della poesia contemporanea che ho organizzato. Ha intrecciato la sua narrazione poetica assieme ad un altro bravo poeta Rino Cortiana. Assieme ci hanno regalato non solo la loro "visione" del mondo ma anche la consapevolezza (se ce ne fosse ancora bisogno) che la poesia è sguardo colletivo, è lo sguardo offeso che ricolloca lo sguardo ostinato sul corpo e la dignità offesa senza altro alibi che la convinzione nella parola, la parola poetica. Il mondo, il nostro mondo ha bisogno di questa catramosa linfa, nonostante tutto. Grazie Jacopo, Grazie Rino.
    a te e a numerosi costanti lettori un poetico abbraccio.
    anna lombardo

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  3. grazie anna stefano e anche francesco t., a quest'ultimo dico che sto facendo varie presentazioni - 20 monza, 21 vicenza, 26 & 28 roma - magari ci si puo' incontrare. francesca matteoni mi ha inviato una recensione del mio libro che sono contento di postare almeno in parte

    "Intanto come prima nota a favore l'urgenza che si avverte tutta, quella che Andrea chiama fame di realtà o le necessità ordinarie (altrui come nostre in questo scenario contemporaneo dove il futuro è ridotto al momento seguente, il fiato è corto) e che si manifesta nel fare a meno di schemi poetici precostituiti, sono le parole e le cose che si portano dentro a dare direzione ai versi e non il contrario e non è poco. Non sei [...] uno che impara un mestiere e lo esibisce, stai dicendo qualcosa, stai facendo poesie [...] Inoltre il tuo libro sfugge a tanta pecca della poesia cosiddetta civile, che può risultare di testimonianza e nulla più, una buona azione tipo fioretto francescano per guadagnarsi il paradiso delle lettere, senza nessun sangue dentro - qui al contrario c'è il tentativo, spesso frammentario come succede quando si incontra l'altro, di indagare, conoscere delle storie, catturare o indovinare le voci, mettersi nei panni altrui sfuggendo il più possibile il giudizio morale: non sono salvi i personaggi, ma prossimi nella loro condizione precaria, come se ci fosse uno sforzo quasi fastidioso e costante che chiedi a te stesso e al lettore, una tensione orizzontale, l'unica possibile visto che tra il "basso" e le stelle fisse da cui discende l'architetto (testo tra quelli che mi ha maggiormente colpito), non sembra sussistere nessuna scala, nessun percorso graduale. Il settimo senso (il tuo senso comune) è dunque un sentimento condiviso,  una comunanza intuitiva proprio nel suo resistere in pezzi, mai nella storia complessiva, in frammenti con cui tocchiamo l'altro e noi in lui. Ogni finalismo delle singole storie, come della Storia lo abolisci, scegliendo un presente perpetuo, un innestarsi continuo di presente sul presente [...] questo è il senso che per esempio do ad un testo magistrale, disturbante, come Il sacco con un 1527 tutto contemporaneo. Storia come genealogia nietzscheana [...] I tuoi testi non sono crudeli, ma crudi, non c'è esasperazione, ma una brutalità lucida: penso alle figure femminili e alle loro voci, come la poesia di pagina 49 che riesce a lasciar uscire la vergogna, la rabbia che resta muta, il pudore violato di certe situazioni in cui se sei donna ti mortifichi il doppio [...] (ho una predilizione per i testi sul sonno e Due che dormono insieme, con l'idea di affidarsi all'altro nella quasi morte dell'addormentarsi, è un'altra delle poesie che preferisco, dove tuttavia i protagonisti non si lasciano veramente andare, ma rinserrano la lotta). Dal lavoro come condizione socio-esistenziale, ai corpi alla storia prima della storia,  il paesaggio che non è mai pura osservazione, ma sempre innesto, scontro (La ferrovia) di tempi come di reperti umani e geologici, che sta in alcuni testi de La mente della terra, mi sembra poi che emerga una dimensione spirituale non trascendente, ma in cui al contrario esseri umani e movimenti terrestri o animali ignoti, estinti, perfino semi-fantastici (la salamandra) [...] stanno al pari sono l'uno il destino ultimo dell'altro. Un ultima considerazione la merita il modo in cui tratti il sesso, declinato nel desiderio, in parte ne ho già detto, un conflitto irrisolto, come se si risolvesse in un mutuo esperimento di sopraffazione, che realizzandosi fallisce, ma senza comprensione e nemmeno superamento dell'altro. Fa un effetto strano leggerlo così, forse perchè anche io ne parlo molto, pure troppo, in poesia (connubio sesso-amore), ed è sempre una ricerca di identità, la mia, attraverso il conflitto, perfino una negazione dell'altro. Ma magari se ne riparla...
    scusa per queste note confuse e affastellate, tanto altro ci sarebbe da dire sicuramente, spero ci sia occasione.. A presto!
    Francesca

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  4. Cara Anna, come avrai letto dal commento di Jacopo, domani è a vicenza, dove continueremo il discorso veneziano. Grazie per il tuo commento. A proposito di Bistrot de Venise, mi piacerebbe leggere con le voci, in febbraio (ma ne parliamo con più calma).

    Grazie Jacopo della testimonianza tua e di Francesca, che è una poetessa e una critica letteraria davvero brava. a Domani!

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