venerdì 9 dicembre 2011

Andrea Ponso



Con una battuta, liquido prima il supporto, per non confonderlo con l'opera: possibile che Mondadori non riesca a confezionare un libro decente, punzandolo con quattro ferri che, parafrasando il titolo di Andrea Ponso, nulla hanno a che fare con il mestiere dell'editore più potente d'Italia? Detto questo, entro nel merito di I ferri del mestiere (2011).

Se La casa (La stampa 2003) metteva in scena la Madre, figura acquorea di purificazione e putrescenza, con la quale, in contraltare, interloquiva la riflessione virile, quasi a regolarne il corso, in quest'ultimo libro diventa centrale la figura paterna, che va letta, mi pare, con un compedio che lo stesso Ponso ci suggerisce in un breve saggio, rintracciabile in rete, dal titolo Visibile / invisibile. Appunti tra estetica e teologia. Il contenzioso riguarda l'eternità del Padre, che va messa in crisi – ci suggerisce l'autore – per porre l'accento sulla sua natura mortale, creaturale, animale, persino. E aggiunge, a proposito del Verbo: «Egli è umano anche in questa dis-umanità, in questo smembramento tragico del logos», forse additandoci non soltanto la via ermeneutica della teologia contemporanea, ma anche la poetica che gli preme praticare, nella quale i ferri del mestiere producano uno sguardo «strabico, cioè capace di guardare, dalla stessa direzione, in più direzioni. Ecco la vertigine, ecco il tragico: perché la vertigine non può che nascere dalla percezione dei margini, dei corrimano, delle ringhiere e dei profili». E della selva, direi, a seguire la catena significante messa al collo del tentativo di essere «all'altezza della morte»: fame, cane, arsura, cacciatore, mani e, naturalmente, morte, sono i nomi che infatti tornano e contano in questo vertiginoso poemetto in nove stazioni, scritto con i Salmi, Ezechiele e soprattutto il libro di Giobbe sul leggio (Kierkegaard: «Ogni sua parola è cibo, vestimento e balsamo per la mia povera anima»), nel cui destino di tentazione-privazione-lutto-riscatto il poeta legge la natura stesso del tragico, dell'impossibilità di scegliere e, nel contempo, della libertà dell'abbandono, del lasciar essere, mutando il «devo» in «voglio». Quest'abbandono, che è di natura mistica ma non astratta o metafisica – laddove myein (da cui mysticòs) rinvia a tacere, al non immediatamente percepibile, a ciò che sta chiuso sotto la veste del sensibile – è quanto cerca il poeta, attraverso i ferri del mestiere, quelle parole cui compete «precisione», «misura» e coraggio nel nominare «l'arsura» in cui vacilla il corpo, esposto nel suo sudario terrestre. Se madre rinviava al battesimo dell'acqua, padre prosciuga e mostra finalmente le piaghe del figlio, il suo «destino di chiodi e tiranti stesi», l'invisibile che lo sorregge, che è in gran parte impalcatura sovrastrutturale, che lo definisce e domina, pròtesi dalle quali prendere le distanze, dopo averne abitato le pieghe. In questa dimensione desiderante, in cui nulla è scontato, si gioca il secondo asse del discorso ponsiano: l'inettitudine («Dove l'azzurro conviene e rinfresca / non arrivano, stanche, queste mani»; e: «La cucina ampia che sa di frumento / e gelsomino: e ho in bocca questo / odore di ferro e chiodi»), che scalcia per mutare di segno. Ecco allora la catena metaforica cui riferivo sopra, governata dal possibile, dal gesto repentino che si apre alla polvere, al pericolo, e mai l'identità si sente al sicuro. Tutto questo è l'invisibile che cova dentro il luccichio dell'evidenza e che la scrittura, con i suoi strumenti retorici, stana, mettendo in cattività la forma (endecasillabi e settenari, soprattutto) e portando il soggetto in bilico, in «piedi nella morte / tra i cardini / di una porta». Una posizione «strabica», appunto, ossimorica, di quieto disequilibrio, in cui il desiderio eroico di vittoria sulle tentazioni d'eternizzazione ontologica e l'inetto competere con le forze ordinarie del vivere civile sono i materiali del poeta-artigiano, plasmati in nome del padre terrestre e celeste, per la nostra futura alleanza con «una totale accettazione della materialità senza scampo, della creaturalità incompiuta» e costantemente protesa all'atto della nascita, come scrive il poeta altrove.





La sete scomposta di precisione:
come provare misure sul muro,
da bambini. Non per la crescita ma
se mai siamo all’altezza della morte.



*


Da anni e pietre cresce una polvere
dura che deposita gli intonaci
negli stomaci ciechi dei braccianti.
Le bisce si fanno grumo di calce
smossa sotto alle assi, grida rauche
di un percorso segnato tra i filari.
Viene la mano che cava i bulbi
dalla terra e li scuote dal torpore:
lavori consueti, moniti chiari.



*


Le lane grezze, i cuscini lisi di
flanella: lenzuola ruvide dove
generare e morire senza
un riverbero. La lena del braccio
su barricate scoscese: la pialla
che urla nel legno quando trova
e ravviva i germogli.



*


I

Io mi nascondo qui, a pochi passi
dalla selva di ortiche recise
dove si sente odore di fresco, di
fossi: ci separano
gli orti, i cumuli fragranti di fieno,
le botti scure, i tralci.
Si viene a vedere
ciò che dura nell’arsura.



*


Nuovi germogli, tra ruggine e chiodi,
divelti dalla precisione dura
degli arnesi. Questo mestiere brucia
con rabbia primavere, tenerezze,
rifugi. Ciò che spargi è cenere:
guardo ora il viso dolce di mia madre
seppellire quello assorto e immobile
di mio padre, senza cedere luce,
senza perderne tracce.



*


A valle è scomparsa la neve, si
pensa a scavare canali di ghiaia:
a capire la secca, il suo morso
che divarica i legni del cortile,
lo stomaco del cane spaccato
col badile. Rimane
un’arcata di sasso da stringere
con le mani - un destino.



*


Bruciala, la corteccia più verde, mi
dice - lasciala, la voce impastata,
ai sordi. Fa’ che il tuo corpo la scordi.
E noi siamo mani che
scrivono, tirate dalla ruggine.



*


Passi tra le mie vene ancora vivo,
chiedi una crudeltà senza ritorno:
ogni errore verrà ricopiato con
cura e la mente rimarrà attenta, si
incrinerà di bontà.



*


Ora ti volti sudato e finito:
chi ti insegue ha ragione,
come falciare il grano
quando hai fame - bruciare
ciò che resta di un figlio.



Andrea Ponso è nato a Noventa Vicentina nel 1975. Ha pubblicato La casa (Stampa, 2003).

3 commenti:

  1. Questa poesia è semplicemente bellissima. La parola qui è materia, corpo. Una poesia immaginifica che ti trascina e ti raccoglie. Molto apprezzati i testi. Complimenti sinceri.

    AR

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  2. Andrea è poesia calcificata al fuoco del sole. Quando Apollo brucia la notte non muore; fugge. Un saluto, lungi da ogni incomprensione.
    Luca Ormelli

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  3. Posso dire che dei quattro libri usciti l'anno scorso in contemporanea nella collana de lo specchio, tra quello di Alberto (Pellegatta), di Carabba e Bernini, questo di Andrea è il più alto, forse il solo vero lavoro che mi ha appassionato per davvero.. anche se possiedo solo questo e l'ombra della salute, quello di pellegatta, che anche ha delle ottime poesie, ma in toto ho preferito questo. È un grande libro. Gli altri due, anche se ho letto solo stralci, lasciamo perdere....:)
    Purtroppo confermo la pessima "rilegatura" dei libri, con due punzate, il libro rimane aperto al centro, e sono davvero discutibili. Da mondadori uno non se lo aspetta...o forse si? :-)

    A presto

    Antonio B.

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