giovedì 8 settembre 2011

Antonio Spagnuolo


Sono talmente tanti gli studiosi che hanno scritto su Antonio Spagnuolo e che lo stesso autore antepone, quando possibile, quali testimonials della propria poesia, che verrebbe la tentazione di considerare la critica quale parte integrante dell'opera, o perlomeno elemento paratestuale, oppure, in negativo, rinforzo autorevole per supplire qualche lacuna diffusa qua e là, di libro in libro. Una ventina, da Ore del tempo perduto (1953) a Fratture da comporre (2009). La mia opinione parte dal rilievo di Ciro Vitiello in Antologia della poesia italiana contemporanea (1980-2001), secondo il quale sono le due sillogi del 1983 (Ingresso bianco e Le stanze) a rompere «coraggiosamente con la sua poesia incardinata nella tradizione», per giungere a Candida (Guida, 1985), l'opera maggiore nel clima di quegli anni, in cui, scrive altrove Mario Pomilio (e mi serve questa nuova acquisizione per sviluppare il ragionamento), si mostra «il pensato allo stato ancora amorfo».

L'autoantolgia Misure del timore (kairos, 2011) mette questa silloge in apertura, a testimoniarne l'importanza. La mia impressione è che Spagnuolo, medico, in Candida trovi spesso dei solidi snodi al flusso, all'«amorfo» del pensiero, così che l'immagine abbia una forma riconoscibile, a volte persino troppo definita. Si tratta di snodi sintattici, anzitutto, che portano a galla detriti coagulati in metafore, la cui interpretazione egli preferisce non demandarla al lettore, quasi non fidandosi: alla bellissima fonte archetipica «Lepre / fagociti la notte / distendi e mi pungi le ossa», Spagnuolo sente il bisogno di aggiungere «fra inganni di mielina», un po' rubandoci il piacere dell'immersione nell'abisso, e riportando poco dopo il tutto alle «pulsioni», ossia ad un sapere scientifico senza qualità; impoetico, dunque. Non che ciò sia un difetto, ma certo segna l'importanza nell'autore del biografico-professionale sul simbiotico, il bisogno di un distacco critico all'immersione totale nell'infermità del senso, attenuando l'oscillazione semantica, per una maggiore definizione del gesto e un più rigoroso controllo sul materiale. Non sempre è così, e ciò attesta la mobilità della sua poesia, il cui legame con il linguaggio settoriale vira solitamente al patologico, al conflitto esplicito: Candida e Fratture, tengono infatti il cerchio della malattia per contrasto violento e lo stesso Misure del timore rinvia, per paronomasia, a misure del tumore, per non dire di Infibul/azione (1988), titolo d'avanguardia, in cui troviamo, in una serie di poesie quasi d'amore, «la morte indistinta del batteriofago», con scelte ritmico-fonetiche davvero spigolose, come già aveva rilevato Gilberto Finzi ne Il decennio e un'idea di poesia (Guida, 2003), citando «abbéverami a nuvole» quale esempio di «verso impossibile». Eppure, pur sposando la scelta fonosimbolica disarmonica («Trascino artigli per le dissonanze»), il suo universo immaginativo non insiste nelle biologie scabrose, rinuncia a fare del corpo martoriato la metafora della putrescente modernità – come Benn in Morgue, per intenderci – preferendo il registro dell'eros, dell'intromissione virale del termine tecnico-medico entro un paesaggio onirico-sessuale, abitato da un femminile desiderato eppure lontano, un'atmosfera nella quale la solitudine muove sotterranea ma implacabile. Per esempio, a proposito della perdita e dell'eros, pur mascherato nella cerva, si leggano questi versi tratti da Attese (1994): «ora il mio segno è morto / colmo di cerve ed orme, / di raggiere e dolori, / di giardini e altri sonni». Anche in questo libro ci sono le «arcate femorali» e «febbre», ma il lessico si apre maggiormente al quotidiano, non tuttavia la tensione del verso, che resta alta, slogata per coerenza al modello originario, anche se meno nervosa, mentre dolorosa rimane l'esperienza, «fra ragioni e rigetti», come scrive in Corruptions (2004), dove la «malinconia morde il giaciglio» e la «stanchezza» si fa sentire, malgrado il desiderio batta sotto, spinga per una vita più piena con la donna amata, che riaccende il proprio corpo «in un perfetto omaggio» al suo uomo.

La poesia degli ultimi anni, abbandonato il riferimento al linguaggio settoriale, è sempre più distesa, comunicativa, colloquiale perfino, ma mai sciatta o prevedibile, non rinunciando ad improvvisi guizzi di giovinezza versale, tutti energia: «il tuo sguardo / è la vigna che brilla per le sette lune» scrive in Fugacità del tempo (2007), in «una strana ebbrezza» che resiste alla cognizione del dolore, nella consapevolezza che l'estate è altrove, e la sera è qui. Tuttavia Spagnuolo è un combattente, lo si capisce dalle molteplici attività in rete, malgrado i suoi ottant'anni, e dalle infinite poesie d'amore che ha scritto, almeno sino a Fratture da comporre. Gli inediti presenti in Misure del timore, invece, sono pervase da ombre e parole in cui «si narra la fine», in un timore/tremore (che, sulle orme di Kierkegaard, è anche relazione con l'Assoluto), il quale non trova vie d'uscita, se non nella scrittura, appunto, in questo luogo in cui il tempo ricomincia sempre da capo ed il sogno è ancora possibile.

Poetrydream è il suo sito, dove trovate bio-bibliografia e poesie oltre che un'attenzione critica forte per la poesia italiana contemporanea.

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