Scrive Mario Fresa ne Le tentazioni di Marsia, in perfetta sintonia con il pensiero di Tiziano Salari: "Crediamo che la prima cosa di cui si ha bisogno è che la poesia abbia un senso e che quel senso provochi tensioni e lacerazioni in primo luogo nello stesso poeta, e poi nei suoi lettori" (Nuova Frontiera, 2007). Uscire dunque dall'avanguardia ma non dallo sperimentalismo, inteso quale nucleo fecondo in cui esperienza, tecnica, emozione e pensiero si incontrano, diventando stile. Il bene (Edizioni Marocchino Blu, 2007) organizza questa complessità in un unico poemetto di 243 versi, strutturato in differenti lasse dal metro e respiro lunghi, un carme amoroso dove il meriggio antico e l'inquietudine moderna si mescolano nel pharmaco di una scrittura che non sa decidersi a diventare voce. Su questa soglia, il poeta apre sentieri che divergono, capaci, allo stesso tempo, di incandescenza e di ricamo, sfiorando - nella corsa verso il bene - la servitù d'amore provenzale, l'arme pietose e, salendo le rapide contemporanee, "biscotti" forse gozzaniani.
Originale anche la veste grafica: la copertina, in cartoncino di un rosso vivo, custodisce l'immagine di un bassorilievo raffigurante una Menade danzante, "violenza luminosa" e, probabilmente, già perduta.
Qui di colpo si annuncia un altissimo cielo bagnato
di colori: così passandoti vicino le mie vene
fanno moltiplicare, adesso, fontane sconosciute
sulle mani. Le braccia poi risplendono avidissime
di favole sottili e già discendono, vedi, sulla fresca
sostanza delle stelle precipitate ancora sulle dita:
ma sulla soglia della voce si respira
una visione che tenta e che sorride; che inventa e che
ricade; ma dentro un gioco di così dolci impasti noi
ci destiamo e già ci carezziamo.
Dentro quei nuovi flutti si disperde all'improvviso
un sole così gonfio di lame e di sorprese;
ma poi tu guardi al fiume nel riflesso di questo pieno
intendersi che subito rinasce ma non parla di giustizia;
ma custodisce morbide sostanze che inventano una
vincita di farmaci segreti e di timori.
Le leggi del volere riferiscono: gite annunciate
sopra la luce delle parole nuove.
[...]
«Io sfioravo coi gesti dissennati i più fieri annegamenti,
i celesti bisbigli. Tu sei proprio nella guerra di questo
affusolato splendere, sei nel fine ritrarsi
di quelle sacre piume».
Ecco per te un'offerta, un inventario: tocca, stupisci.
Sulla lingua discendono, adesso, laghi e battaglie.
Questa nuova tranquillità che impone fazzoletti
sul cammino, diademi che inventano perfino
una superba luce rinnovata.
Ma dimmi, ascolta: quale ventaglio di sonniferi
concederà la pace a questo vetro di visioni
che ci osserva, che ci ricorda l'arte di separare
il campo delle intese e delle feste,
quella virtù di prendere e lasciare?
Ma intanto un ramo scende e poi sospira
quando scruta quei tuoi passi, quando ti
mostri, quando vieni: e quando poi
ti mostri, il mondo non è
che una richiesta vana di tranelli.
E quando vieni, tutto il paesaggio ascolta.
E quando ascolti, la distanza si smarrisce,
dimenticando risse, martelli di sentenze,
prigioni e ritornelli.
Ora è un legame, dici, così pieno di
sacrificio: e il sacrificio è bianco, e il bianco insegna
l'inquietudine amorosa delle dita fittissime di miele:
e il tuo sorriso che si addormenta e muore;
e ancora l'innamorata impara i più feroci colpi e
ridisegna il dono, la tua memoria
inventa: e il gesto accade come un sussurro accade.
[...]
Così si è stabilito, allora: ascolta me. Ripara.
C'era il fumo che s'inchiodava sul dormiveglia
che mai nessuna gioia sfiora; e impara dunque a
ricadere, attenta: io sarei stato te, se questo è
vero? Ma è proprio la ferita che invece impallidisce,
che poi restringe i visi tutti
amici, quasi nemici. Eppure, attenta: è proprio
il gesto che ha inventato questa fine.
E adesso sulla carta dei miracoli una veglia
già parlava e ricamava porte
mai divise, sere inesperte di guarigione.
E un'altezza pericolosa è questo abbraccio:
anzi è un annuncio di frutti, di virgole
tentate, di curve riflessioni.
E invece, intorno a quella tua figura: solo battaglie;
solo nuvole e corone. La raccolta dei baci riscattava
una vera, una indecisa vocazione
al bene. C'era dunque un ansioso
contraffare le stagioni per durare, per colorare
i firmamenti e il viso.
Ed ecco la distruzione che in me diceva amore:
come la furia disciolta nella corsa; come il sole
penetrato nelle dita; come il sonno distillato
nel respiro. Davvero è nei colori
che il movimento sceglie, sogna distanze.
Non si rimane vivi, dice: non si rimane. Io viva
li ho lasciati nella memoria immensa: e tu, dicevi?
dicevi tu, che adesso? E in questa tua caduta io mi
riparo; e mi divido; e mi trasformo nella tua veste
che dice allora d'imparare; di risanare e di
toccare. Non si rincorre, dunque: si è solo presi da.
Però questo incessante muoversi fa trasformare la tua
insonnia in un tramonto nuovo: ed in sonno nuovo.
Ma se tutto questo è vero, lo specchio
significava, allora, solitudine felice e vera gioia.
Così gli uccelli mischiano le carte della luce
e queste dita poi fioriscono imbrogliando
crudeli precisioni, un'ambiziosa ressa di regali.
E tu non risvegliarti: adesso camminiamo.
Non rivestirti ancora: ma perdonami, rinasci.
Attorno a questo luminoso scialle
sia fatta luce e infanzia.
[...]
Mario Fresa è nato nel 1973. Vive a Salerno. Ha pubblicato due raccolte di versi: Liaison (introduzione di Maurizio Cucchi, 2002, Premio Giuseppe Giusti Opera Prima, terna Premio Gatto) e L’uomo che sogna (2004, Premio Capoverso Città di Bisignano per l’inedito). È autore, insieme con Tiziano Salari, di un saggio in forma dialogica sulla poesia, Il grido del vetraio. dialogo sulla poesia (postfazione di Flavio Ermini, Nuova Frontiera, Salerno 2005), e ha curato, con lo stesso autore, Le tentazioni di Marsia. Quel che resta da fare ai poeti e ai loro critici (Nuova Frontiera, Salerno 2007)
Sue poesie e prose poetiche sono apparse sulle riviste Paragone, Gradiva, Caffè Michelangiolo, Semicerchio, Il Monte Analogo, Le Voci della luna, Specchio della Stampa, Capoverso, Erba d’Arno, L’Ortica, L’area di Broca, Nuova Prosa e La clessidra.
È presente in varie antologie, tra cui Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004).
Originale anche la veste grafica: la copertina, in cartoncino di un rosso vivo, custodisce l'immagine di un bassorilievo raffigurante una Menade danzante, "violenza luminosa" e, probabilmente, già perduta.
Qui di colpo si annuncia un altissimo cielo bagnato
di colori: così passandoti vicino le mie vene
fanno moltiplicare, adesso, fontane sconosciute
sulle mani. Le braccia poi risplendono avidissime
di favole sottili e già discendono, vedi, sulla fresca
sostanza delle stelle precipitate ancora sulle dita:
ma sulla soglia della voce si respira
una visione che tenta e che sorride; che inventa e che
ricade; ma dentro un gioco di così dolci impasti noi
ci destiamo e già ci carezziamo.
Dentro quei nuovi flutti si disperde all'improvviso
un sole così gonfio di lame e di sorprese;
ma poi tu guardi al fiume nel riflesso di questo pieno
intendersi che subito rinasce ma non parla di giustizia;
ma custodisce morbide sostanze che inventano una
vincita di farmaci segreti e di timori.
Le leggi del volere riferiscono: gite annunciate
sopra la luce delle parole nuove.
[...]
«Io sfioravo coi gesti dissennati i più fieri annegamenti,
i celesti bisbigli. Tu sei proprio nella guerra di questo
affusolato splendere, sei nel fine ritrarsi
di quelle sacre piume».
Ecco per te un'offerta, un inventario: tocca, stupisci.
Sulla lingua discendono, adesso, laghi e battaglie.
Questa nuova tranquillità che impone fazzoletti
sul cammino, diademi che inventano perfino
una superba luce rinnovata.
Ma dimmi, ascolta: quale ventaglio di sonniferi
concederà la pace a questo vetro di visioni
che ci osserva, che ci ricorda l'arte di separare
il campo delle intese e delle feste,
quella virtù di prendere e lasciare?
Ma intanto un ramo scende e poi sospira
quando scruta quei tuoi passi, quando ti
mostri, quando vieni: e quando poi
ti mostri, il mondo non è
che una richiesta vana di tranelli.
E quando vieni, tutto il paesaggio ascolta.
E quando ascolti, la distanza si smarrisce,
dimenticando risse, martelli di sentenze,
prigioni e ritornelli.
Ora è un legame, dici, così pieno di
sacrificio: e il sacrificio è bianco, e il bianco insegna
l'inquietudine amorosa delle dita fittissime di miele:
e il tuo sorriso che si addormenta e muore;
e ancora l'innamorata impara i più feroci colpi e
ridisegna il dono, la tua memoria
inventa: e il gesto accade come un sussurro accade.
[...]
Così si è stabilito, allora: ascolta me. Ripara.
C'era il fumo che s'inchiodava sul dormiveglia
che mai nessuna gioia sfiora; e impara dunque a
ricadere, attenta: io sarei stato te, se questo è
vero? Ma è proprio la ferita che invece impallidisce,
che poi restringe i visi tutti
amici, quasi nemici. Eppure, attenta: è proprio
il gesto che ha inventato questa fine.
E adesso sulla carta dei miracoli una veglia
già parlava e ricamava porte
mai divise, sere inesperte di guarigione.
E un'altezza pericolosa è questo abbraccio:
anzi è un annuncio di frutti, di virgole
tentate, di curve riflessioni.
E invece, intorno a quella tua figura: solo battaglie;
solo nuvole e corone. La raccolta dei baci riscattava
una vera, una indecisa vocazione
al bene. C'era dunque un ansioso
contraffare le stagioni per durare, per colorare
i firmamenti e il viso.
Ed ecco la distruzione che in me diceva amore:
come la furia disciolta nella corsa; come il sole
penetrato nelle dita; come il sonno distillato
nel respiro. Davvero è nei colori
che il movimento sceglie, sogna distanze.
Non si rimane vivi, dice: non si rimane. Io viva
li ho lasciati nella memoria immensa: e tu, dicevi?
dicevi tu, che adesso? E in questa tua caduta io mi
riparo; e mi divido; e mi trasformo nella tua veste
che dice allora d'imparare; di risanare e di
toccare. Non si rincorre, dunque: si è solo presi da.
Però questo incessante muoversi fa trasformare la tua
insonnia in un tramonto nuovo: ed in sonno nuovo.
Ma se tutto questo è vero, lo specchio
significava, allora, solitudine felice e vera gioia.
Così gli uccelli mischiano le carte della luce
e queste dita poi fioriscono imbrogliando
crudeli precisioni, un'ambiziosa ressa di regali.
E tu non risvegliarti: adesso camminiamo.
Non rivestirti ancora: ma perdonami, rinasci.
Attorno a questo luminoso scialle
sia fatta luce e infanzia.
[...]
Mario Fresa è nato nel 1973. Vive a Salerno. Ha pubblicato due raccolte di versi: Liaison (introduzione di Maurizio Cucchi, 2002, Premio Giuseppe Giusti Opera Prima, terna Premio Gatto) e L’uomo che sogna (2004, Premio Capoverso Città di Bisignano per l’inedito). È autore, insieme con Tiziano Salari, di un saggio in forma dialogica sulla poesia, Il grido del vetraio. dialogo sulla poesia (postfazione di Flavio Ermini, Nuova Frontiera, Salerno 2005), e ha curato, con lo stesso autore, Le tentazioni di Marsia. Quel che resta da fare ai poeti e ai loro critici (Nuova Frontiera, Salerno 2007)
Sue poesie e prose poetiche sono apparse sulle riviste Paragone, Gradiva, Caffè Michelangiolo, Semicerchio, Il Monte Analogo, Le Voci della luna, Specchio della Stampa, Capoverso, Erba d’Arno, L’Ortica, L’area di Broca, Nuova Prosa e La clessidra.
È presente in varie antologie, tra cui Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004).
la poesia non può dimenticare il tema del bene; nella trattazione agostiniana abbiamo il misterium iniquitatis che indica la scelta del male “non sostanziale”, il male non esiste ma è arbitrario, resta la consolazione della sostanzialità del bene, il bene che esiste - ma oggi, in una dimensione che ha scelto palesemente il male e gli ha dato piena voce, mondo economico, realtà, lingua gutturale e nuove mitologie, esiste forse un misterium aequitatis, inspiegabile la scelta del bene, dispersa la sua sostanza, occorre rinarrarla e il bene deve essere “parlato”, è forse il senso della poesia, il “perché dire” nell’epoca della miseria e dopo ogni “20 gennaio”
RispondiEliminapaolo (donini)
Grazie Paolo: dopo ogni 20 gennaio è difficile creder ancora al Bene. però possiamo capovolgere la questione e dire:
RispondiEliminal'idea del bene è dispersa, volatilizzata.L'idea del bene è un pulviscolo, finalmente, che la poesia deve condensare in questo bene, in quello. Perso l'universale, possiamo felicemente abbracciare il particolare, prendercene cura.
gugl
1. Mi è particolarmente caro questo concetto di poesia: la ricerca del senso, che si fa 'tensione e lacerazione' già nell'autore e poi nei suoi lettori. Riottosa alle 'definizioni', la poesia, infatti, deborda rispetto al 'già condiviso', rinegoziando di volta in volta la dimensione 'comune' del senso.
RispondiElimina2. Bella l'idea del... "felicemente abbracciare il particolare, prendercene cura".
Non lo so... lavoro d'ipotesi (ci dovrei pensare su): probabilmente prendersi cura - attraverso l'arte - del 'particolare' è già credere, nonostante tutto, nell'universale del bene e della bellezza, per esempio, che non possono darsi se non nel particolare...
3. E poi - seguendo la traccia arendtiana - mi vien da aggiungere: che cosa più della dimensione generativa della poesia permette di mettere in crisi l'inclinazione al banalizzare, alla mancata problematizzazione?!
gugl, qui da te c'è di che pensare...
Felice d'essere qui!
Marinella
Marinella:
RispondiElimina1) condivido pienamente. difficile è metterlo in pratica: quante poesie leggiamo che stanno tutte attaccate (e qui muoiono) al già stato, al già pensato?
2) il mio è un soggerimento di uscire dal platonismo; anche il tuo?
3) la dimensione generativa della poesia: hai ragione e ci riporti al punto uno.
un caro saluto
gugl
2. ...non lo so, ma non mi sento di 'liquidare' l'idea di universale così: la partita con il 'B'ene non è persa per sempre (anche 'dopo ogni 20 gennaio'), essa è solamente rimandata o probabilmente - nel postmoderno - essa si realizza in una pluralità di forme e si offre meglio nei 'particolari'.
RispondiEliminaPoi, nella misura in cui già l'idea di cura traduce un'istanza politica orientata alla trasformazione ed alla liberazione personale e collettiva (le quali si compiono anche attraverso l'arte e il dire-fare poetico), nella misura in cui non può esserci un... 'art pour l'art', essendo essa ancorata ad una comunità politica che si autorappresenta e autoprogetta, allora la ricerca dell'universale ha ancora senso, sebbene essa passi dal 'limite' e si compia nella cura (della caducità) dei 'particolari'.
Marinella
ps. ...pensiero in divenire: spero di non aver detto troppe sciocchezze. ;)
non sono sciocchezze, ma l'estrema ratio della modernità che sopravvive nella tua polpa sensibile. Però quando scrivi che l'universale si compie nel prendersi cura (e non possiamo farlo che del "particolare"), allora miracolosamente apri la strada per stare nell'aperto (nel senso di cui si faceva riferimento nel post su rilke)
RispondiEliminagugl
...sì, il prendersi cura. Del resto cosa si fa quando si è feriti o si soccorre il ferito, la ferita? a noi spetta curare e curarci ma non per sempre: ogni volta. Forse la differenza postmoderna è solo questo "ogni volta"; se non c'è universalità non c'è neranche quella del male o l'abominio è una volta per tutte? se lo è, lo è anche la piccola redenzione delle mani strette, giunte, e cambiare lingua dopo aver perso la bocca, alzare nel nero una puerile, candida voce
RispondiEliminapaolo (donini)
Paolo, condivido pienamente!
RispondiEliminagugl
davvero interessante l'aria/area salernitana: oltre Fresa, Daniele Santoro, Alfonso Amendola, Marco Amendolara e altri.
RispondiEliminaun abbraccio
alessandro ghignoli
lo sai che per via di trisavola materna, anch'io (per un ottavo) sono di quell'area? il resto è venetaccio puro, celodurista :-)
RispondiEliminagugl
Chi mi fornisce un indirizzo di Mario Fresa per contattarlo?
RispondiEliminaanch'io salernitata, mia nonna salernitana doc, mio padre ci nacque nel 1918 :-) anzi, cerco da tempo parenti di mia nonna, si chiamava rossi maria antonietta, sono convinta d'avere lì un sacco di parenti. bye antonella
RispondiEliminasala consilina?
RispondiEliminagugl
ahh Stefano ho capito allora perché sei un bravo poeta!
RispondiEliminaun abbraccio
ag
:-)
RispondiEliminagugl