lunedì 6 dicembre 2010

Amelia Rosselli




Cara Romina,

a proposito della lettura di Documento (Garzanti, 1976) di Amelia Rosselli, fatta assieme nel Laboratorio Artemis: tu dici che "qualcosa non torna" leggendo i suoi versi. Per capire che cosa sia, credo convenga partire da due fulcri, due costanti che agiscono in contemporanea sulla sua scrittura, che sono, direi, la geologia e la genealogia. Quello che spiazza, anzitutto, per un orecchio come il tuo, esperto di metrica e retorica, è l'incostanza, perfino l'incoesione dei materiali di cui è fatta ciascuna sua poesia, frutto dell'emergere di differenti stratificazioni psichiche e sensoriali: l'autrice passa infatti – senza soluzione di continuità se non quella, ma non sempre, versale – dal magma fluido dell'inconscio (causa delle metafore surrealiste), alle cristallizzazioni, profonde ma ormai sedimentate e urticanti, con le quali esse stessa confliggeva, evidenti nelle asperità del carattere (misto di educazione e selva, tradotte in figure ossimoriche, quali "libidine di saggezza" e "continuità a singhiozzo" della poesia perdona le colpe), sino alle espressioni domestiche, di superficie, in una sorta di rapimento anestetizzante prodotto dall'adesione ingenua al presente, rapimento che tuttavia conserva ancora uno strascico tragico (tipo: "entrare nella cucina e non vedere più la propria moglie") e alla logica, infine, che si fa giudizio sul mondo: "Vinse il migliore nel peggiore dei modi"). Dunque, magma, cristallizzazione, registro informale, scelta gnomica costituiscono una geologia predatoria, che la stessa Rosselli vive con ansia, ma anche nella speranza che, diventando scrittura, possa "vaccinarla", ossia garantirle sopravvivenza dentro un mondo malato. A tutto ciò si mescola l'elemento genealogico-biografico: pensa alla sua esistenza nomadica, emblema di una modernità senza patria, di uno spaesamento che colpì i grandi scrittori del Novecento, i quali, proprio nella ricerca di un centro, edificarono la loro opera (penso a Canetti e a Camus, per esempio); ma più forte ancora fu la morte del padre, che si presenta come fantasma amoroso in tantissime sue poesie, un fantasma amletico capace di inoculare in lei un senso di colpa insopportabile, e forse persino quella paranoia persecutoria che le fu diagnosticata già negli anni Sessanta e che lei mascherava, vergognandosene. Non è facile essere figlia di eroi, di una famiglia di eroi, visto che in casa di Janet Nathan e Pellegrino Rosselli, nel 1872 morì Giuseppe Mazzini sotto le mentite spoglie di Mr Brown.

Il sentimento di inadeguatezza è evidente in particolare nella poesia Quale azione scegliere, prevedere, ereditare?, in cui è tutta dispiegata la distanza tra scrittura e vita, tra racconto e azione, rispetto all'urgenza della contestazione studentesca e operaia. Ma il fantasma del padre, è stato detto martedì, respira faticosamente anche in molte poesie d'amore: esso è l'assente e l'interlocutore, nel contempo, quel tu, del quale ella stessa dichiarava di volersi liberare in una vecchia intervista rilasciata a Renato Minore, che si può leggere qui: «Tendo all’eliminazione dell’io. L’io non è più al centro espressivo, va messo in ombra o da parte. Credo che solo così si raggiungono risposte poetiche e morali valide, valori utili anche alla società. Ma bisogna evitare il tran-tran montaliano: non parlare né dell’io né del tu».

Insomma questa singolarità lacerata, testimone ed emblema dei mali novecenteschi, che finisce suicida (l'annullamento dell'io non può essere praticato in altro modo, evidentemente), è impossibile circoscriverla in via definitiva, così che i conti tornino; piuttosto va attraversata e riattraversata con pazienza, ripensata non solo a cominciare dal suo breve saggio Spazi metrici, nel quale lei stessa cerca la prigione capace di contenerla e 'misurarla' (laddove la sua riflessione tiene stretta poesia e musica nel laccio delle relazioni quantitative tra forze misurabili), bensì occorre partire dall'inspiegabile che è la vita stessa, di ciascuno di noi, e della sua, così tenera e feroce, così educata da volersi regina della maleducazione, così schifata dell'Italia repubblicana da definirla "paese barbaro", ma anche innamorata delle grandi figure che, in questo paese barbaro, s'impegnarono per cambiarlo, come per esempio Rocco Scotellaro, figura centrale dell'impegno e della poesia postbellica, da rileggere senz'altro.


Ciao e grazie per l'occasione che mi hai dato.


da Documento


proprio prima di dover partire scrissi
perciò voltando il dorso alla promessa
cose molto belle che solo tu con la
tua faccia infantile da ragazzo costretto
ad esser fiero puoi indicarmi.

Sì, scrissi finalmente cose belle, tutte
per te - non v'era pubblico più disattento.



**


Sei nel mio petto, ma poi ti ritrovo,
ma poi ti perdo, ma poi sei lì, e non
vuoi addomesticare il mio sangue che
non ha altra urgenza che di chinarsi
sul tuo tutto indifferente corpo che
annega mentre m'infilo nel letto.

Sei nel mio petto o là ti ritrovo quando
non vedo nel campo o nella miniera altro
che sigarette mezze spente che rinunciano
al significare.

Significando in questo accoppiarsi del
tutto immaginario la tua unione brancolante
in un sospiro di sollievo, che nel mio
petto brilli avventuroso, trovai una

sorta di pace mal costruita mentre battezzavano
le pecore nell'ovile.



**


Quale azione scegliere, prevedere, ereditare?
Un pezzo di pane a cane senza museruola
è meglio che questo scrivere in bianchi
versi di getti lacrimogeni, a branchi
di gente tutta senza importanza o museruola

che scrive vincendo e perdendo tutte
le cause: mentre fuori il tempo gode
e esplode, senza la tua intima perplessità
intimità di cose andate e perdute mentre
tutt'occupata a scrivere versi bianchi
andavi leggendo quel che non si potè

fare.



**


La tua buia fronte
fuoco di erbe e di capitali,
danze di bolle di sapone
entrare nella cucina e non vedere più la propria moglie
o invece disertare il corso di guida
coltivare le piante e maledire le stelle
e in una tragedia ritrovarsi, e in
un verso biasimarsi
dedicati purtroppo ad una volontà di
vivere che rasenta il caos
e in un mare di sangue ritrovarsi.

Brusco mutamento di rotta
una causa che ha tutta l'aria di
voler travolgere anche noi
(parola che non smuove altro che aria
infetta).

Accettiamo di noi l'inconscia libertà
scorpacciata
d'infelici nodi nella sua gola arsa
vittoriosa sembra giocare con l'azzardo
che infine si presenta denudato
presentiamoci vittoriosi e denunciatori
di una realtà se è questa quella

per cui non combattiamo
il giorno
che non ci fu dato altro.

Vinse il migliore nei peggiori dei modi
io ero in cantina a lavare i panni
sporchi tuoi.



**


E una soneria costante; un micidiale compromettersi
una didascalia infruttuosa, e un vento di traverso
mentre battendo le ciglia sentenziavo una
saggezza imbrogliata.

Conto di farla finita con le forme, i loro
bisbigliamenti, i loro contenuti contenenti
tutta la urgente scatola della mia anima la
quale indifferente al problema farebbe meglio
a contenersi. Giocattoli sono le strade e
infermiere sono le abitudini distrutte
da un malessere generale.

La gola nella montagna si offrì pulita al
mio desiderio di continuare la menzogna indecifrabile
come le sigarette che fumo.



**


Lo sdrucciolo cuore che in me è ribelle
quasi sempre in me preferirebbe
una più saggia angoscia
l'animo è davvero poca cosa
è davvero
infernale così come tu dici.

Ma credevo nel soldo e nella miseria
assieme assetati di vendetta: o credevo
nel lento pellegrinaggio ad una fonte
dedicata ad un pubblico e anche privatissimo
dibattito, che essa ingigantisce
così ingegnosa.

Nessuna fede ha mai mosso le montagne
tu muovi le montagne in me, tu che sei
compagno di un momento e senza amore
con quel tuo chiarore di corta vita
l'estate stessa spiovente
nel suo abracadabra di giovinezza irresponsabile
ricevo dalle tue abbondanti e magrissime
braccia.



**


C'è come un dolore nella stanza, ed
è superato in parte: ma vince il peso
degli oggetti, il loro significare
peso e perdita.

C'è come un rosso nell'albero, ma è
l'arancione della base della lampada
comprata in luoghi che non voglio ricordare
perché anch'essi pesano.

Come nulla posso sapere della tua fame
precise nel volere
sono le stilizzate fontane
può ben situarsi un rovescio d'un destino
di uomini separati per obliquo rumore.

14 commenti:

  1. voltando il dorso alla promessa.


    c'è sempre qualcosa, o forse qualcuno, a leggere la Rosselli che porta una fisicità un dove, un nonpiù, un mai, c'è nella scrittura sua così "possibile" di impossibilità che non possiamo che rimanere in silenzio, e restare (a leggere, e leggerla).

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  2. Concordo,
    la Rosselli fa pensare all'Ame-n
    e a tutto ciò che si può 'com-
    prendere' tra Ome-lìa e Ofe-lia:
    talvolta il nome stesso è uno
    scrigno.
    Un caro saluto,
    Armando Bertollo.

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  3. Grazie di questa proposta. Fa bene ritrovare i maestri.

    ft

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  4. Ivana Cenci7/12/10 15:43

    Grazie per questo ulteriore approfondimento, Stefano
    e grazie di rimando a Romina, per averlo provocato.
    Fra i non pochi poeti e poetesse contemporanei, ciascuno unico e portatore della propria unicità stilistica e poetica, oltre che umana
    trovo che Amelia Rosselli sia, forse, quella che meglio e più di altri incarna in maniera esemplare la figura del poeta:
    di ogni tempo, e quello contemporaneo in particolare.
    Per la sua rara capacità di attraversare, senza minimamente scansarli, lo smarrimento, la lacerazione e l'esilio senza soluzione che l'uomo da sempre conosce e sui cui le vicende del XX° secolo hanno alzato, e quelle attuali stanno alzando un coperchio che ci lascia tutti orfani e nudi, privati di qualsiasi illusione di interezza, integrità o possibile
    medicazione: una condizione di erranza che ella traduce mirabilmente nella sua scrittura, in maniera così evidente da farla sentire tangibile, capace di contaminarci e, nel contempo, uscire dal personalismo e accedere all'universale.
    Amelia, avendo conosciuto e attraversato in prima persona e in maniera esponenzialmente drammatica una doppia perdita, quella carnale-umana e quella simbolica, tanto grave quanto irrimediabile, e costretta dai fatti, man mano che cresce e si interroga sul suo impegno politico a lasciar cadere ogni illusione che quella perdita, origine del suo dolore atroce e denso di conseguenze, possa contribuire anche in minima parte a restituire senso o consolazione all'umanità, e quindi anche a se stessa come individuo, dà corpo e voce in tutta la sua drammatica valenza,
    così come l'urlo di Munch non smetterà mai di risuonarci negli orecchi oltre che nello sguardo,
    all'aspetto più precario e ingrato della condizione esistenziale, assegnandole l'unica e la più alta dignità che rimanga possibile: quella di essere accettata e vissuta così com'è, riconosciuta e testimoniata per il tramite della parola poetica.
    Questo, colgo io, quale gesto altissimo, e quanto coraggiosamente tratto dalla carne e dal sangue, atto a salvaguardare adeguata dignità alla propria esistenza e a quella dei suoi cari, morti in conseguenza di ideali e speranze cui la storia e le umane vicende che la impregano non mostrano di riconoscere alcun fondamento, e della vacuità dei quali, come del lutto e dello smarrimento che ne conseguono, ella porta in sé la fatica ed il peso, nella scelta coraggiosa e temeraria, ma quanto valida di questi nostri tempi... di non sottrarsi a tanta inaudita e inestricabile sofferenza.
    Articolata in maniera mirabile, a tratti perfino sfiorando l'incanto: non certo per la qualità del paesaggio che ci mostra, sì per la superba e inimitabile capacità di rendere, per il tramite della scrittura,
    similmente a quanto fece la Duras alla fine degli anni cinquanta per indicare il limite proprio della scrittura,
    l'inconsolabile veridicità della devastazione che tanti hanno conosciuto, e che le sue parole rendono percepibile fino a smarrirci, fino a darci la netta sensazione che "qualcosa non torna".
    Per dire che, da come io sento, e per come la sento (l'Amelia, la sua sofferenza, la sua scrittura, le variazioni ritmiche, non a caso anche belliche e i cambiamenti di registro), quella incoesione di materiali è parte integrante della sua scrittura: voluto o lasciato agire che sia, quel qualcosa che non torna è perché, di fatto, non può e non vuole tornare.
    Consapevole a tutti gli effetti, e nel contempo smarrito, per l'impossibile ritorno.
    Da cui si evidenzia la portata, la strategia inventiva, l'incomparabile universalità ed eleganza del linguaggio di Amelia Rosselli.
    Chi ha potuto, chi avrebbe potuto, chi di noi... saprebbe reggere tanto?
    Ragazzi, io la amo perdutamente, questa donna incommensurabile!
    Vi invito ad accostarvi a lei con fare più dolce, per cogliere l'indecifrabile che ci fa percepire
    e perché lei dice e rimanda mirabilmente qualcosa di me,
    come di ciascuno di noi
    Grazie, per la bella opportunità

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  5. Non conosco poeta più poeta di A.R., trovo impossibile fare dunque io commenti...ne ho scritto un saggetto, per carità, tra le miriadi,ne l' antologia "Con la tua voce "(La Vita felice ediz. a cura di G.Fantato). Grazie per la scelta, che risulta essere sempre, data la poesia, SUPERBA.
    Maria Pia Quintavalla

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  6. Stefania Bortoli8/12/10 23:00

    Un caro saluto a Stefano,Ivana, Romina. Al laboratorio Artemis
    la parola ci ri-guarda e ri-torna anche attraverso
    i luoghi dove accade l'ascolto.
    La riflessione feconda apre così al confronto di idee.
    Grazie per avere condiviso questa profonda lettura della poesia di Amelia Rosselli.

    Stefania Bortoli

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  7. Sarebbe da studiare perché, solo dopo la morte, la Rosselli è diventata una icona del novecento, per i poeti italiani

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  8. Che strano,
    solo oggi ho letto nei commenti a
    Chiara Daino che qualcuno anche là
    aveva aperto lo 'scrigno del nome'.
    Jung, in questo caso, potrebbe
    riconoscervi una 'coincidenza si-
    gnificativa'.
    A me pare di buon auspicio per Chiara. (Per la quale avevo pensato
    un breve commento decisamente posi-
    tivo, che poi, a causa della preca-
    rietà e provvisorietà della mie
    connessioni in internet,non ho fat-
    to in tempo a 'postare'.)
    Un caro saluto a tutti.
    Armando Bertollo

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  9. p.s.
    Bello, Stefano, quello che ha
    raccolto anche il tuo 'amo' in
    Daino.
    Armando B.

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  10. Penso che lo "scrigno" di ogni autentico poeta sia qualcosa che non si può definire (il "non so" che Rovatti attribuisce alle definizioni della follia, a quello stare "sempre in bilico", a cavallo del muretto, incerti se essere sospesi o se cadere): questo "non so" appartiene alla natura instabile e infelice del poeta, ed è quello forse il suo junghiano scrigno, vaso di Pandora di venti spesso sinistri o pericolosi.
    Marco E.

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  11. Infatti lo 'scrigno',
    per come io lo intendo,
    è lo 'spazio che si apre'
    permesso dal linguaggio,
    ovvero dal suo significante,
    che il lettore, di volta
    in volta, può 'riempire'
    di... significato. Un si-
    gnificato possibile, non
    dato per definizione nè
    definito: un 'campo',
    dunque, del significato.
    Di Rovatti ho letto "Abita-
    re la distanza" (Feltrinelli
    Editore) è un libro, un og-
    getto ('scrigno') da esplora-
    re senza stancarsi, che con-
    siglio a tutti.
    Un caro saluto,
    Armando Bertollo

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  12. Caro Armando, è stato Francesco Marotta (fm) a cogliere l'"amo" in Chiara.

    Grazie a te e a Marco Ercolani per i commenti. Mi piace che citiate Rovatti, che è stato il co-fondatore del "pensiero debole", argomento della mia tesi di laurea.

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