mercoledì 5 settembre 2018

Paolo Gera recensisce Fabrizio Bregoli (prima parte)



IL SENSO ETICO DELLO STILE di Paolo Gera
Fabrizio Bregoli, Zero al quoto, puntoacapo editrice, Pasturana 2018, pp.117

La poesia di Fabrizio Bregoli ha un’incredibile forza centripeta. Immaginate un dio Eolo che riesca a raccogliere in un otre a chiusura ermetica non i soffi più o meno temperati dei quattro punti cardinali, ma i modi e gli esempi di tutte le grandi scuole poetiche del Novecento italiano, in una concentrazione turbinosa eppure equilibrata. Non venti, ma versi. Per raggiungere un tale mirabile controllo – qui i compagni di Ulisse non hanno azione che per qualche trascurabile soffio, non riuscendo peraltro a mandare fuori rotta la barca – Bregoli deve essersi seduto a quei convitti innumerevoli volte, ma soprattutto deve aver digerito benissimo ogni singola portata.
Oltre ai poeti Luzi e Sereni i cui versi citati diventano una specie di trampolino stilistico e tonale da cui gettarsi nella propria composizione, spira fortissima su ogni lembo di scrittura  il vento di Montale , sia tramontana sia scirocco, nella meditazione sincera e non manierata sul male di vivere, nell’uso dei correlativi oggettivi, nella frantumazione del verso, sino all’omaggio più identificabile che è “I limoni del Garda” che inizia così:

Il tarlo dell’addio t’accompagna
nel diseguale incedere fra vicoli
di sassi, muretti di pietra e malta,
fra pergolati ed orti nella roccia
(vv.1-4, p.113)

E così finisce:

Così s’impara a morire
sopravvivendo alla consuetudine
dell’ora, del non detto
qui, nella disequazione di parole
e senso, se solo nella provvisorietà
del tempo è commiato.
(vv.22-27, pp.113-114)

Ma l’altro scrittore da cui Bregoli trae materiale e colori, in quella che proprio Montale definiva “poesia del “faux exprès”, dei semitoni e delle armonie in grigio, quella poesia non già eroica ma “en pantoufles”, è Guido Gozzano, aggiornato ai nuovi riti e alla nuova oggettistica della borghesia postcapitalistica. Così Gozzano:

topaie, materassi, vasellame,
lucerne, ceste, mobili: ciarpame reietto
così caro alla mia Musa!
(G. Gozzano, La signorina Felicita, IV, vv.22-24)

E così Bregoli:

la stessa cricca di marchi seriali
gli Zara, gli Intimissimi, i Mc Donald’s
Kasanova che sfodera padelle
(Arbitro del minimo, vv.7-9, p. 72)

Nell’otre o nel crogiuolo ci troviamo Zanzotto con i suoi intrichi vegetali di arbusti alfabetici o con la suggestione del petèl, linguaggio prelogico e preideologico, esperanto infantile, e Sanguineti, come una specie di maestro di laboratorio che veglia sul ribollio continuo del materiale linguistico. Tanta roba. Ma andando fuori luogo, nel senso di gita all’estero, ti ritrovi la citazione di Ezra Pound e il riferimento decalcomania a T.S. Eliot in “Ode estorta da una rosa”:

Febbraio è il più lungo dei mesi, inganna
la brevità incolmabile di giorni
(vv.5-6, p.103)

Ma soprattutto è considerevole la direzione opposta fatta prendere al finale straordinario de “Gli uomini vuoti” (“not with a bang, but a whimper”), nella chiusa di “Ostello degli inguaribili”:

Dunque non lo inquietò
l’arrestarsi del fiato. E non fu rantolo
ma uno spiccare d’erba, una vela.
(vv.22-24, p 24)

Nella sacca c’è addirittura la sorpresa spiazzante della poesia più famosa di Prèvert riletta in chiave gay:

(…) solo un ragazzo
 e un ragazzo, nel semplice donarsi
senz’ombra d’omertà
nel fermo paradiso dell’istante.
(Quei ragazzi, vv.9-12, p.34)

E andando invece fuori tempo, nel senso di viaggio a ritroso nella nostra letteratura, si ritrova ancora l’estetismo di  D’Annunzio ( “Così il tuo riso che rade leggero/è un rado tintinnio di cavigliere” in (“II: Qui il mondo è un esitare”), Carducci a braccetto con Pascoli,( “Nel vorticare secco degli scoppi/ remoto stride un colpo di fucile/ un borbottio borioso, nuovi bòtti”, in “Lanterne cinesi”; Foscolo ( “ dal tumulo di polvere e macerie/s’accommiatò con passi lievi e mesti”) in “Comizio ad Accumoli”; la precettistica barocca di Emmanuele Tesauro  sulla metafora ( “ E’ in questo compiacersi il trabocchetto/ al disinganno al nulla calcinante/quella sua osmosi da menzogna in brindisi”) a p.110; la forma sonetto e i versi di Dante, a cui va anche il credito dell’espressione “s’invera” (p.105).
Ma quella che lo stesso Bregoli chiama “bulimia lirica”, porterebbe facilmente a un’obesità formale e a un vomito coattivo – allitterazioni e enjambement sparsi un po’ ovunque sul pavimento delle pagine - se Bregoli, attraverso letture minuziose e riflessioni intense, non avesse completamente metabolizzati questi cibi della mente, facendoli diventare non semplice sfoggio erudito, vezzo e ornamento, ma corpo del suo corpo e sangue del suo sangue. I prelievi cioè non sono infermieristici, ma come se nella mimesi Bregoli prendesse il materiale ancora caldo nel momento della creazione e della scrittura, così i giovani piccioni agitando le ali vanno ad imbeccarsi dai padri, “ossivora/perizia verso a verso, bolo a bolo” (p.110).
Insieme a “Zero al quoto”, sto dedicando le mie letture estive al libro di altro ipertrofico, anche se il francese in questione, Emmanuel Carrère, frequenta altri luoghi gastronomici e letterari. Mi colpisce una citazione che vorrei riportare qui e che descrive perfettamente il quadro tensivo di ogni poesia e dell’intero progetto bregoliano:

“Un giorno in cui mi sentivo sopraffatto da tutte le cose che dovevo tenere insieme, e pensavo che non sarei mai riuscito a farcela, l’I Ching mi ha regalato questa frase che ancora oggi mi serve da dichiarazione di poetica: “l’avvenenza suprema non consiste in un esteriore ornamento del materiale, bensì nella forma schietta e concreta che gli si è data”.
(E. Carrère, Il Regno, p.97, Adelphi, Milano 2015)

“Zero al quoto” è insieme repertorio coltissimo della lingua italiana, dal Trecento a oggi, summa enciclopedica e opera alchemica che riesce a trasformare il tutto caotico in argine contro il nulla, anche se il titolo segnalerebbe proprio l’esatto contrario. L’intera opera è tesa a indicare il vuoto incolmabile dell’esistenza, storico e assoluto, il colore più indelebile, come direbbe Sereni, eppure offre un rimedio forse disperato, ma unico a ben pensarci: quello della poiesi della scrittura o più in generale della creatività che eviscera i propri meccanismi nel momento stesso in cui si manifesta.
Non è però per nulla detto che la forza di attrazione esercitata dall’autore, con questo sforzo supremo di controllo e di incessante esercizio artigianale, possa corrispondere ad altrettanto rigore da parte di chi in questo momento ne sta dando una lettura critica.  Ho paura di debordare, di andare fuori, di non tenermi nel margine. Cerco allora di riprendere dall’inizio e di ripresentare la faccenda in modo ordinato, editoriale e di descrivere a una a una le sezioni in cui è divisa la raccolta, e già mi imbroglio perché questa non è una raccolta, ma è, nella sua evoluzione programmatica, un percorso di scrittura. Sono stufo di raccolte di poesie, impostate in modo pedissequo come quelle dei calciatori Panini, in cui ogni figurina rispecchia ossessivamente il ritratto dell’autore. O raccolte scritte apposta per raccogliere medaglie e puntare finalmente alla Coppa dei campioni.  Oggi la poesia non può essere altro che una riflessione sul linguaggio e sulla ideologia che esso trasmette – Foucault, il gruppo 63, fate voi – e deve mostrare, come riesce a fare Bregoli, il lavoro che ci si fa sopra. La poesia deve farci camminare e sudare e con “Zero al quoto” di strada se ne fa, eccome: in centro e fuori, tra periferie venute su male, lungo terreni abbandonati, di fianco a ingombranti centri commerciali…ma sto andando di nuovo fuori orbita. Devo analizzare organicamente le parti, le sezioni, o meglio se voglio essere coerente con la prospettiva individuata, le tappe, le stazioni.
E subito si incontra gente. Nella prima poesia de “Gli uomini (o la loro ipotesi)” ci si rende subito conto della forte storicità della descrizione poetica di Bregoli. I passanti possono essere quelli germinali della città moderna di Baudelaire o quelli futuristi, che vanno o che restano, dei dipinti di Boccioni, ma la vena verista di Bregoli riconduce la tematica dell’anonimo, dello sconosciuto a una sua ambientazione contemporanea, venata di sarcasmo, con stridore lessicale tra obsolescenze come “nudo assito” e segni del contemporaneo come la parola totem “schermo”.

Ritorneranno a sera al nudo assito
alle stanze che nel loro vuoto oro
li asserragliano, li domano alla sferza
di qualche imbonitore sullo schermo.
Si toglieranno sciarpe guanti occhiali
costretti all’evidenza d’occhi e volto.
Nel tranello che ne sfalda i contorni
lieti d’arrendersi. Finalmente uomini.
(vv.14-21, p.15)

Questa congiunzione tra vecchi retaggi lessicali, parole lise come tende non cambiate da un secolo e nuovi panorami da descrivere con le parole appropriate del presente, è una delle principali caratteristiche della ricerca di Bregoli. È come se un’anima crepuscolare, alle prese con i propri fallimenti costituzionali, si ritrovasse nella metropoli del secondo millennio e descrivesse le mutazioni tecniche attraverso le prospettive di una borghesia appena cresciuta e con le sfumature di voce di allora.

Riordinò con cura le stoviglie
quel catalogo di banchetti sfatti,
sempre un passo indietro dalla riuscita,
la figurina rara o il punto fragola
che mancano, o l’impasto che s’infradicia.
(…)
A domani interventi straordinari
come mettere a bolla la tavola
che traballa, una lacrima di tinta
per rimediare in corner la ricrescita,
regolare il flusso sodio-potassio.
(Nemesi, vv.1-5 e vv.11-15, p.28)

Le case colpiscono e costringono alla versificazione, anche e soprattutto quando le soglie non sono state violate e gli spazi non sono quelli riconoscibili dell’esperienza domestica. Sono storie di ristrutturazione e di speculazione edilizia. Può essere una vecchia dimora sopravvissuta e costretta non si sa per quanto tra le nuove costruzioni, può essere un palazzo isolato nella brughiera, dove pensi di avere scorto il fantasma di Pasolini o di Testori.

Grandeggia un po’ più inquieto tra le spoglie
di casupole sperse alle campagne,
un monolito di cemento grezzo
che non vale la pena verniciare.
(Il condominio azzurro, vv.1-4, p.29)

Ma il sentimento del marginale trova improvvise e gloriose epifanie e allora si crede di scorgere un raggio verde all’orizzonte del degrado periferico:

Alcuni narrano che dopo l’una
nelle notti che brandiscono vento,
-ma non sono da credere quei soliti
scavezzacollo sbronzi perdigiorno –
sulla pelle grinzosa di quei muri
si schiuda una pupilla color tuorlo
e in un trambusto di chincaglierie
il condominio si lucidi a festa,
in uno smalto intatto di maioliche
su tutta la facciata un solo palpito
balugini di quel suo cuore azzurro.
L’istante dove tutto si può assolvere.
(ibid., vv.25-36)


il seguito a domani

3 commenti:

  1. Ho letto, ho gustato, ho capito e ho compreso.
    E ora sono rimasta senza parole...forse indegna di liberare i miei stessi versi, ma molto, molto felice di avervi capito. Fabrizio, sei grandissimo e meraviglioso è chi ti ha analizzato e innalzato meravigliosamente. Annany.

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  2. Un ringraziamento di tutto cuore, Annany

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  3. Domani la seconda puntata che completa l'analisi critica di Paolo Gera

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