IL
SENSO ETICO DELLO STILE di Paolo Gera
Fabrizio
Bregoli, Zero al quoto, puntoacapo editrice, Pasturana 2018, pp.117
La poesia di Fabrizio
Bregoli ha un’incredibile forza centripeta. Immaginate un dio Eolo che riesca a
raccogliere in un otre a chiusura ermetica non i soffi più o meno temperati dei
quattro punti cardinali, ma i modi e gli esempi di tutte le grandi scuole
poetiche del Novecento italiano, in una concentrazione turbinosa eppure
equilibrata. Non venti, ma versi. Per raggiungere un tale mirabile controllo –
qui i compagni di Ulisse non hanno azione che per qualche trascurabile soffio,
non riuscendo peraltro a mandare fuori rotta la barca – Bregoli deve essersi
seduto a quei convitti innumerevoli volte, ma soprattutto deve aver digerito benissimo
ogni singola portata.
Oltre ai poeti Luzi e
Sereni i cui versi citati diventano una specie di trampolino stilistico e
tonale da cui gettarsi nella propria composizione, spira fortissima su ogni
lembo di scrittura il vento di Montale ,
sia tramontana sia scirocco, nella meditazione sincera e non manierata sul male
di vivere, nell’uso dei correlativi oggettivi, nella frantumazione del verso,
sino all’omaggio più identificabile che è “I limoni del Garda” che inizia così:
Il
tarlo dell’addio t’accompagna
nel
diseguale incedere fra vicoli
di
sassi, muretti di pietra e malta,
fra
pergolati ed orti nella roccia
(vv.1-4, p.113)
E così finisce:
Così
s’impara a morire
sopravvivendo
alla consuetudine
dell’ora,
del non detto
qui,
nella disequazione di parole
e
senso, se solo nella provvisorietà
del
tempo è commiato.
(vv.22-27, pp.113-114)
Ma l’altro scrittore da
cui Bregoli trae materiale e colori, in quella che proprio Montale definiva
“poesia del “faux exprès”, dei semitoni e delle armonie in grigio, quella
poesia non già eroica ma “en pantoufles”, è Guido Gozzano, aggiornato ai nuovi
riti e alla nuova oggettistica della borghesia postcapitalistica. Così Gozzano:
topaie,
materassi, vasellame,
lucerne,
ceste, mobili: ciarpame reietto
così
caro alla mia Musa!
(G. Gozzano, La
signorina Felicita, IV, vv.22-24)
E così Bregoli:
la
stessa cricca di marchi seriali
gli
Zara, gli Intimissimi, i Mc Donald’s
Kasanova
che sfodera padelle
(Arbitro del minimo,
vv.7-9, p. 72)
Nell’otre o nel crogiuolo
ci troviamo Zanzotto con i suoi intrichi vegetali di arbusti alfabetici o con la
suggestione del petèl, linguaggio prelogico e preideologico, esperanto
infantile, e Sanguineti, come una specie di maestro di laboratorio che veglia
sul ribollio continuo del materiale linguistico. Tanta roba. Ma andando fuori
luogo, nel senso di gita all’estero, ti ritrovi la citazione di Ezra Pound e il
riferimento decalcomania a T.S. Eliot in “Ode estorta da una rosa”:
Febbraio
è il più lungo dei mesi, inganna
la
brevità incolmabile di giorni
(vv.5-6, p.103)
Ma soprattutto è
considerevole la direzione opposta fatta prendere al finale straordinario de
“Gli uomini vuoti” (“not with a bang, but a whimper”), nella chiusa di “Ostello
degli inguaribili”:
Dunque
non lo inquietò
l’arrestarsi
del fiato. E non fu rantolo
ma
uno spiccare d’erba, una vela.
(vv.22-24, p 24)
Nella sacca c’è
addirittura la sorpresa spiazzante della poesia più famosa di Prèvert riletta
in chiave gay:
(…)
solo un ragazzo
e un ragazzo, nel semplice donarsi
senz’ombra
d’omertà
nel
fermo paradiso dell’istante.
(Quei ragazzi, vv.9-12,
p.34)
E andando invece fuori
tempo, nel senso di viaggio a ritroso nella nostra letteratura, si ritrova ancora
l’estetismo di D’Annunzio ( “Così il tuo
riso che rade leggero/è un rado tintinnio di cavigliere” in (“II: Qui il mondo
è un esitare”), Carducci a braccetto con Pascoli,( “Nel vorticare secco degli
scoppi/ remoto stride un colpo di fucile/ un borbottio borioso, nuovi bòtti”,
in “Lanterne cinesi”; Foscolo ( “ dal tumulo di polvere e macerie/s’accommiatò
con passi lievi e mesti”) in “Comizio ad Accumoli”; la precettistica barocca di
Emmanuele Tesauro sulla metafora ( “ E’
in questo compiacersi il trabocchetto/ al disinganno al nulla calcinante/quella
sua osmosi da menzogna in brindisi”) a p.110; la forma sonetto e i versi di
Dante, a cui va anche il credito dell’espressione “s’invera” (p.105).
Ma quella che lo stesso
Bregoli chiama “bulimia lirica”, porterebbe facilmente a un’obesità formale e a
un vomito coattivo – allitterazioni e enjambement sparsi un po’ ovunque sul
pavimento delle pagine - se Bregoli, attraverso letture minuziose e riflessioni
intense, non avesse completamente metabolizzati questi cibi della mente,
facendoli diventare non semplice sfoggio erudito, vezzo e ornamento, ma corpo
del suo corpo e sangue del suo sangue. I prelievi cioè non sono
infermieristici, ma come se nella mimesi Bregoli prendesse il materiale ancora
caldo nel momento della creazione e della scrittura, così i giovani piccioni
agitando le ali vanno ad imbeccarsi dai padri, “ossivora/perizia verso a verso,
bolo a bolo” (p.110).
Insieme a “Zero al
quoto”, sto dedicando le mie letture estive al libro di altro ipertrofico,
anche se il francese in questione, Emmanuel Carrère, frequenta altri luoghi
gastronomici e letterari. Mi colpisce una citazione che vorrei riportare qui e
che descrive perfettamente il quadro tensivo di ogni poesia e dell’intero
progetto bregoliano:
“Un
giorno in cui mi sentivo sopraffatto da tutte le cose che dovevo tenere
insieme, e pensavo che non sarei mai riuscito a farcela, l’I Ching mi ha
regalato questa frase che ancora oggi mi serve da dichiarazione di poetica:
“l’avvenenza suprema non consiste in un esteriore ornamento del materiale,
bensì nella forma schietta e concreta che gli si è data”.
(E. Carrère, Il Regno,
p.97, Adelphi, Milano 2015)
“Zero al quoto” è
insieme repertorio coltissimo della lingua italiana, dal Trecento a oggi, summa
enciclopedica e opera alchemica che riesce a trasformare il tutto caotico in
argine contro il nulla, anche se il titolo segnalerebbe proprio l’esatto
contrario. L’intera opera è tesa a indicare il vuoto incolmabile
dell’esistenza, storico e assoluto, il colore più indelebile, come direbbe
Sereni, eppure offre un rimedio forse disperato, ma unico a ben pensarci:
quello della poiesi della scrittura o più in generale della creatività che
eviscera i propri meccanismi nel momento stesso in cui si manifesta.
Non è però per nulla
detto che la forza di attrazione esercitata dall’autore, con questo sforzo
supremo di controllo e di incessante esercizio artigianale, possa corrispondere
ad altrettanto rigore da parte di chi in questo momento ne sta dando una
lettura critica. Ho paura di debordare,
di andare fuori, di non tenermi nel margine. Cerco allora di riprendere
dall’inizio e di ripresentare la faccenda in modo ordinato, editoriale e di descrivere
a una a una le sezioni in cui è divisa la raccolta, e già mi imbroglio perché
questa non è una raccolta, ma è, nella sua evoluzione programmatica, un
percorso di scrittura. Sono stufo di raccolte di poesie, impostate in modo
pedissequo come quelle dei calciatori Panini, in cui ogni figurina rispecchia
ossessivamente il ritratto dell’autore. O raccolte scritte apposta per
raccogliere medaglie e puntare finalmente alla Coppa dei campioni. Oggi la poesia non può essere altro che una
riflessione sul linguaggio e sulla ideologia che esso trasmette – Foucault, il
gruppo 63, fate voi – e deve mostrare, come riesce a fare Bregoli, il lavoro
che ci si fa sopra. La poesia deve farci camminare e sudare e con “Zero al
quoto” di strada se ne fa, eccome: in centro e fuori, tra periferie venute su
male, lungo terreni abbandonati, di fianco a ingombranti centri commerciali…ma
sto andando di nuovo fuori orbita. Devo analizzare organicamente le parti, le sezioni,
o meglio se voglio essere coerente con la prospettiva individuata, le tappe, le
stazioni.
E subito si incontra
gente. Nella prima poesia de “Gli uomini (o la loro ipotesi)” ci si rende
subito conto della forte storicità della descrizione poetica di Bregoli. I
passanti possono essere quelli germinali della città moderna di Baudelaire o
quelli futuristi, che vanno o che restano, dei dipinti di Boccioni, ma la vena
verista di Bregoli riconduce la tematica dell’anonimo, dello sconosciuto a una
sua ambientazione contemporanea, venata di sarcasmo, con stridore lessicale tra
obsolescenze come “nudo assito” e segni del contemporaneo come la parola totem
“schermo”.
Ritorneranno
a sera al nudo assito
alle
stanze che nel loro vuoto oro
li
asserragliano, li domano alla sferza
di
qualche imbonitore sullo schermo.
Si
toglieranno sciarpe guanti occhiali
costretti
all’evidenza d’occhi e volto.
Nel
tranello che ne sfalda i contorni
lieti
d’arrendersi. Finalmente uomini.
(vv.14-21, p.15)
Questa congiunzione tra
vecchi retaggi lessicali, parole lise come tende non cambiate da un secolo e
nuovi panorami da descrivere con le parole appropriate del presente, è una
delle principali caratteristiche della ricerca di Bregoli. È
come se un’anima crepuscolare, alle prese con i propri fallimenti
costituzionali, si ritrovasse nella metropoli del secondo millennio e
descrivesse le mutazioni tecniche attraverso le prospettive di una borghesia
appena cresciuta e con le sfumature di voce di allora.
Riordinò
con cura le stoviglie
quel
catalogo di banchetti sfatti,
sempre
un passo indietro dalla riuscita,
la
figurina rara o il punto fragola
che
mancano, o l’impasto che s’infradicia.
(…)
A
domani interventi straordinari
come
mettere a bolla la tavola
che
traballa, una lacrima di tinta
per
rimediare in corner la ricrescita,
regolare
il flusso sodio-potassio.
(Nemesi, vv.1-5 e
vv.11-15, p.28)
Le case colpiscono e
costringono alla versificazione, anche e soprattutto quando le soglie non sono
state violate e gli spazi non sono quelli riconoscibili dell’esperienza
domestica. Sono storie di ristrutturazione e di speculazione edilizia. Può
essere una vecchia dimora sopravvissuta e costretta non si sa per quanto tra le
nuove costruzioni, può essere un palazzo isolato nella brughiera, dove pensi di
avere scorto il fantasma di Pasolini o di Testori.
Grandeggia
un po’ più inquieto tra le spoglie
di
casupole sperse alle campagne,
un
monolito di cemento grezzo
che
non vale la pena verniciare.
(Il condominio azzurro,
vv.1-4, p.29)
Ma il sentimento del
marginale trova improvvise e gloriose epifanie e allora si crede di scorgere un
raggio verde all’orizzonte del degrado periferico:
Alcuni
narrano che dopo l’una
nelle
notti che brandiscono vento,
-ma
non sono da credere quei soliti
scavezzacollo
sbronzi perdigiorno –
sulla
pelle grinzosa di quei muri
si
schiuda una pupilla color tuorlo
e
in un trambusto di chincaglierie
il
condominio si lucidi a festa,
in
uno smalto intatto di maioliche
su
tutta la facciata un solo palpito
balugini
di quel suo cuore azzurro.
L’istante
dove tutto si può assolvere.
(ibid., vv.25-36)
il seguito a domani
Ho letto, ho gustato, ho capito e ho compreso.
RispondiEliminaE ora sono rimasta senza parole...forse indegna di liberare i miei stessi versi, ma molto, molto felice di avervi capito. Fabrizio, sei grandissimo e meraviglioso è chi ti ha analizzato e innalzato meravigliosamente. Annany.
Un ringraziamento di tutto cuore, Annany
RispondiEliminaDomani la seconda puntata che completa l'analisi critica di Paolo Gera
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