Rita Pacilio:“L’amore
casomai”.
Ovvero l’Alchimia del desiderio.
-Mito e utopia:
come l'origine è appartenuta, così anche l'avvenire apparterrà ai soggetti in
cui vi è del femminino.
(Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso)
-Non
posso dire “adesso”
senza
averne nostalgia-
(Filippo Strumia , in Marciapiede con vista,
Einaudi, 2016)
Quando trattiamo
di poesia, trattiamo di un potenziale espressivo che si esplica frequentando
una zona d'ombra non del tutto conosciuta, non del tutto consapevole. Spesso
affatto. E poiché parliamo anche di soglia, di varco/liminis, nella dimensione poetica può accadere tutto. Anche
l’imprevisto, l’inaspettato, il sorprendente. L’epifanico. Non solo per chi
legge, ma anche per chi scrive.
La poesia, se è
tale, al pari di altre arti, - anzi direi con un quid in più -, trova le sue complesse
e articolate fondamenta in uno scavo di
tipo stratigrafico, - proprio come nell'archeologia o nella geologia -, che il
poeta, strumento e fine, compie prima di tutto dentro di sé -, e nelle varie
voci polisemiche che contiene, sincroniche e diacroniche, e che riesce a far
convivere nello stesso testo, in un tempo sfalsato, non allineato, ma
compresente. A queste voci, il poeta
presta la musicalità del suo orecchio diventandone al contempo esecutore e cassa
di risonanza.
Il lavoro
poetico non è da tutti. Non è da tutti metterlo in pratica, attraverso l’azione
poetica, né tanto meno capirne la complessità. E, almeno chi scrive, neanche pretende che tutti comprendano il
lavoro/ lavorìo di un poeta. Essere un enclave ha anche dei lati positivi. Il
linguaggio è iniziatico e l’incontro con la poesia è un incontro epifanico che
lascia il segno solo a chi questo segno già lo porta dentro di sé. Lasciamo dunque
la poesia alla sua dimensione misterica, la sua inspiegabile genesi, perché il
mistero è ciò che più le appartiene non
dichiarandosi mai completamente, rimanendo sempre un po’ celata, in ombra come
è nella sua natura.
Il compimento
della rivelazione nella poesia, sebbene esista, non è mai completo né esaustivo.
Spesso la rivelazione (anche di sé), è più intuita che capita, poiché altri
sono i canali che convergono per la comprensione. La poesia, e la sua
scaturigine, non si spiega e l’arte, più in generale si auto legittima nelle emozioni
provate mediante la forza che la spinta libidica suscita e con cui rade al
suolo sovrastrutture di cartongesso; dilaga e si trasforma in vento sferzante, innova,
senza altro cercare, senza il bisogno di ulteriori certificati di esistenza. La
poesia e l’arte tutta , attingendo nel simbolico, hanno la capacità di auto
significarsi. E’ cultura non solo nel significato più alto, ma lo è
antropologicamente.
E che la scrittura
in ogni sua forma autentica, - cioè non pilotata per coprire finte urgenze di un
mercato già ampiamente dopato -, porti con sé quello stimolo inconfondibile,
quell’energia insostituibile e propulsiva, chiamata Amore, è per me un fatto
acclarato. Di conseguenza qualsiasi sia l’argomento “toccato”, si scrive sempre
e comunque d’amore e proprio nella forma che l’amore detta. E se nel caso della
poesia che parla della poesia, travalicandola e conducendola altrove rispetto
alla sua collocazione conosciuta, abbiamo
la definizione di metapoesia, quando
l’amore scrive d’amore, slittando e ricollocando il concetto d’amore stesso in una
dimensione altra da sé, estrapolato e ricollocato in quell’altrove a cui il
suffisso rimanda, saremmo forse autorizzati a parlare di “metamore”?
Dunque questa la premessa -
che comporta anche un quesito già posto a voce all’autrice stessa, e la cui
risposta lascio aperta a chi legge-, per introdurre il libro di Rita Pacilio, L’amore casomai ( La Vita Felice, 2018),
un testo che mi ha riportato alla mente una citazione di Massimo Recalcati, il quale in un’intervista afferma : “...i poeti
la sanno lunghissima sul sesso”.
E’ vero, i poeti sul sesso
la sanno lunghissima, ma perché, come pochi, sanno cogliere il senso tra il
corporeo e la sua sublimazione, tra il reale e il simbolico. Perché i poeti
sanno rendere contemporaneo ed eterno, il tempo della transizione.
Parlare e teorizzare di e
sul sesso non è mai semplice senza ricorrere a categorie sociologiche e
antropologiche, senza menzionare sistemi economici, avendo consapevolezza che,
in tema di sesso, qualsiasi tipo di potere politico ha allungato i suoi
artigli, tentando egemonia culturale per
controllare e trarre profitto. E questo tentativo egemonico è tutt’ora in corso
e prevede dei cambiamenti enormi
rispetto al conosciuto sinora, perché nulla è più politico del sesso.
Per la psicanalista e filosofa
femminista Luce Irigaray, la differenza sessuale è la differenza per eccellenza, la principale basica diversità da cui
partono tutte le altre. Solo attraverso il rispetto di questa diversità primaria del femminile, molto
sofferta in una struttura sociale gerarchica e patriarcale, - (ma anche questa è
in transizione verso qualcosa di anonimo e di peggiore), si dirama, per estensione, verso tutte le
altre forme di diversità presenti nella comunità umana , ambiente e natura
compresi.
E il sesso, attraverso il meccanismo
del piacere, è il principale strumento di riproduzione della specie (ma anche
in questo settore si annunciano novità di tipo trans-umanista), e di conoscenza
profonda di sé in relazione all’altro, grazie alla sua perfetta complementarità
anatomica. Allora il poeta archeologo/geologo,
che sonda orizzonti e abissi, profondità, crepe nel muro, nella terra, nel
corpo e nell’anima, che annusa interstizi verticali umidi e colanti, torna. Anzi
è la poeta archeologa/geologa Rita Pacilio a tornare.
In seconda istanza, e
proprio in virtù della citazione riguardante Luce Irigaray, sento di dover (parzialmente)
rassicurare quell’ala del Movimento Femminista Internazionale, che da tempo denuncia la minaccia sistemica su più fronti,
dell’evaporazione del principio femminile (ma a mio avviso, anche quello
maschile sta subendo la stessa sorte con la complicità di un’ala del movimento,
o nella sua indifferenza, - poco importa, tanto il danno umano è il medesimo);
da qui il timore (giustificato) della sparizione del femmineo finora conosciuto, e con esso dell’idea stessa dell’eterno
femminino che pure ha accompagnato il
demone creatore, preminentemente maschile, nell’iconografia dell’arte
figurativa, e nella nascita stessa di molta poesia, almeno fino alla prima metà del secolo scorso.
“Das Ewig-Weibliche zieht uns
hinan”, ovvero "L'eterno femminino ci trae in alto",
sia usato nell’accezione corrente, e cioè il fascino che una donna esercita
sull’uomo, ma anche nel senso più ortodosso inteso dal suo coniatore, Goethe, ovvero
la redenzione e la salvezza del maschile, - avendo in mente anche la Genesi con
l’albero della conoscenza, oggi potremmo dire della consapevolezza del
discrimine tra il bene e il male - attraverso la complementarità insostituibile
del femminile e mediante questo, la piena coscienza della finitezza umana.
Quel
femminino esiste e resiste in ogni pagina di quest’ultima opera di Rita Pacilio,
- un prosimetro in cui i versi, come linee spezzate dal punto che chiude, si alternano sapientemente alla prosa in una raffinata composizione
che via via diventa sempre più organica e unitaria, con affondi da vertigine. Versi
che vanno letti più che raccontati. Versi in cui l’autrice- Janara, assecondando
il Genius Loci della sua terra, disegna e scolpisce, attualizza
ed erotizza, canta e perpetua, il concetto di femminino, appunto, sino a far oscillare l’osservatorio usato
come un pendolo della profezia, in mano alla Sibilla Cumana, dall’interno del
proprio specifico femminile, verso un punto di vista più maschile, assumendolo
talvolta, nel gioco delle parti, come proprio.
Inevitabile
quindi, un richiamo agli archetipi junghiani di “anima” e “animus”, che nel
testo della Pacilio, assumono le sensuali forme dell’Androgino per eccellenza,
il Rebis che riunisce in sé i due principi opposti e complementari, l’Ermafrodito
del Bernini: farsi al contempo desiderio e attesa, diventare
simultaneamente, soggetto
e oggetto
di quel desiderio, spezzando la sequenza lineare del tempo.
Dello
scarto temporale – (parlavo indietro di un parallelismo sfalsato) - nell’uso
dei tempi verbali e in quello rarissimo delle virgole, (“Ciò che è stato non è mai accaduto se non
ci sei”); entrare, a volte, in una ulteriore oscillazione, disforica, come con La stanza vuota.
[“Il progetto non
conviene alla condizione non saputa della poesia che viene.
Il resto deriva da quella mera, e anche impensata, logica sensibile (il fluire ritmico della parola), in modo simile a come si produce la successione melodica di una composizione musicale.”
(Antonio Gamoneda)]
Il resto deriva da quella mera, e anche impensata, logica sensibile (il fluire ritmico della parola), in modo simile a come si produce la successione melodica di una composizione musicale.”
(Antonio Gamoneda)]
Dicevo
dell’uso parsimonioso della virgola, a favore di un uso frequente del punto che
traina il testo con una sonorità forte e impositiva, e lo caratterizza con una cadenza ritmica
sostenuta.
È difficile, a questo punto, leggere “L’amore
casomai” di Rita Pacilio, senza
sentire il tono, le sonorità ancestrali,
talvolta labirintiche, della voce dell’autrice. Almeno per chi ha avuto l’esperienza
di ascoltarla e vederla agire sulle tavole di un palcoscenico. Perché qui si
parla di una scrittura che ha una voce. Quindi una scrittura corroborata, sostenuta,
riconoscibile, al punto da dispiegarsi con abilità, proprio come fa la voce nel
canto, con varie modalità espressive alternate, ( prosa-poesia,
racconto-affabulazione, diario intimo - confessione, canovaccio - partitura),
usando vari corridoi di risonanza,(testa, gola, seni paranasali e non solo,
palato duro, e non solo, faringe, ecc...), poesia che diventa sempre più corpo
(d’amore) e voce che si sdoppia all’interno di una. Una voce poetica immaginifica
(produce e stimola immagini), una voce che contiene alterità. Una polifonia
dunque, in un andamento discorsivo piano, distaccato, controllato che, alla
stregua della poesia lirica dell’antica Grecia, qui si fa corale, ingoiando
l’altro o dovendolo ancora partorire, assurgendo questa dimensione ad un
indiscusso valore estetico.
E come nelle migliori
sceneggiature, la sapiente mescolanza tra un ritmo, seppure incalzante, e
pause, seppure brevi, di fiato, ansimanti, di tempi rubati e compressi, (Amore respirare, Il galoppo del respiro, Sussurò),
colloca la lettrice o il lettore, in una forte dimensione dell’Eros, - inteso esattamente come energia cosmica primigenia
e creatrice, in una introiezione-immedesimazione che non lascia scampo. E
allora si abbandonano sovrastrutture, falsi pudori, una certa ostativa pruderie
piccolo-borghese, per seguire il
percorso indicato dall’autrice fino
al parossismo di un sesso estremo, in cui Eros tocca Thanatos, per tornare poi
a ricomporsi, lisciando la gonna sgualcita, pronta ad andare a prendere i bambini a scuola. Come
descrivere dunque Eros? Come un dio o come un demone che ti coglie la nuca?
Ambedue le cose, ragionevolmente, vista la forza vitale dell’amore, ma anche la
sua capacità distruttiva (e quella di lasciarsi distruggere) non appena,
varcata la soglia di un labile confine, tutto si ribalta. Allora il rapporto
con l’Altro (e con se stesse) diviene patologia, confusione, distruzione, e si
entra in una narrazione amorosa come nelle acuzie di un delirium che divide, una
patologia che frammenta e sparge i pezzi; disconosce e smarrisce. Scompagina e
rende estranei. Das Unheimliche,
direbbe Freud, ovvero il Perturbante. E in questa narrazione, al contrario
delle favole per bambini (“non
invidiatemi, non invidiatemi!ho la pelle vecchia e stanca!”), (quella canzone, il vino rosso, un tavolo per
due. E io non c’ero), non siamo neanche costretti dall’ipocrisia di un
lieto fine:
(«Per avvicinare l'altro nel rispetto e
nella salvaguardia della sua alterità, forse è possibile partire da questa
realtà corporea, affettiva, intellettuale: l'altro è un mistero. Riconoscendo
che l'altro è e rimarrà per me un mistero, posso rispettarlo come altro senza
sottometterlo a una qualsiasi mia legge [...]» -Luce Irigaray, Essere due (Bollati Boringhieri)
Stefania Di Lino 9 giugno 2018
Senza
orario
L’intelligenza rivoltata nel cerchio della
noncuranza, la porta aperta.
Lei lo amava a
intermittenza, in modo irregolare, senza equilibrio.
Un rumore di
sottofondo. L’inquinamento dei sensi. Voce indispensabile, un bisogno reale,
fisico. Un sms al mattino che dà la sveglia. Lei ha spalle forti, quelle che
sanno portare le montagne e i rami selvatici.
Parlava con le poesie sui muri.
Qualcuno si
accorge della solitudine?
Raccoglieva le margherite lungo i marciapiedi. La gioia fragilissima di
un tempo nuovo. Un tempo in cui il coraggio è in equilibrio funambolo nello
spazio largo. Un suono.
Ho paura di quello che sto provando, sto chiudendo con il passato. Adesso
sono un chirurgo. Chiudo con quei giorni e taglio i fili. Era felice.
Cantare le odi dell’amore nella tromba delle scale
bianche. Le lingue lunghe, rubate alle ore che non durano. Fa paura. Si resta
zitti quando si è lontani. Le spalle della mancanza sono segnate da un
tatuaggio invisibile. Sotto pelle. Lei diceva di avere una lucertola. E la
mente è fatta di rombi su rombi. Ci sono geometrie che non si possono dire.
Semplificare. Scucire la mente. Ecco la mente conserva il ricordo del
grottesco, delle stagioni passate, ma poi è facile dimenticare il poco prima.
Un attimo fa.
Si resta un nome senza nome. Una rinuncia. Tutto si
ferma immortale sullo schermo. Le fotografie inviate sono richiami della forma
muta. Diventare un talismano da portare nella borsa. Barricarsi nel bagno.
Lasciare il mondo oltre la porta. Respirare le lunghe ore sistemate
nell’armadio. Venerare le difficoltà emotive, essere sacerdotessa.
Inginocchiarsi al piacere.
Cosa
fai a quest’ora?
Digitare il nome. Regalare il fiato alle mani.
Respiro veloce. Stessa ora. Guardare nel vuoto. Allargare i lati
della bocca Spingere forze. Era il segreto a sostenere l'abito da sposa. Il
tulle ingiallito. I matti cantano sotto le lenzuola credendo che il cielo si
sia fatto basso. Basso sinonimo di greve. Il dito puntato. L’uomo dalle spalle
fragili ha nostalgia di casa.
Con la
lingua, con la voce ti ho baciato
ti ho sussurrato
ti ho sussurrato
Volevi
che io impazzissi?
Mangiare ogni pietra, acqua o monte?
Mangiare ogni pietra, acqua o monte?
Come
raggiungerti?
Ingoiare
strade, rupi, alberi?
Le visioni. Nel video di pochi secondi il limite dei chilometri.
Così, senza altre parole di mezzo. Lui tacque. Il pellegrinaggio di
settembre. Freud non avrebbe trovato meccanismi di difesa per sopravvivere al
sogno. Stava accadendo lo sterminio dei viaggi.
Era cresciuto tra tante donne. Affinità elettive. Impressioni profonde.
Andare con gli occhi sulla tomba di Novalis. Un giardino in cui Fritz
punteggiava dal cielo l’incantamento.
Stanno arrivando, arrivano!
Questa l’intuizione di *Rosselli. Lo ammaliava. Un amico abitava di
fronte alla piazza principale. Ospitava un duale. *Renata, invece, portava al
polso il Cartier del marito. Si trasfigurava.
Cosa fai a quest’ora?
Spegnere la luce per la preghiera. Non ridete per piacere.
*( - Stanno arrivando, arrivano! Parole di Amelia Rosselli).
Rita Pacilio (Benevento
1963) è poeta, scrittrice, collaboratrice editoriale, sociologa, mediatrice
familiare, si occupa di poesia, di critica letteraria, di metateatro, di
letteratura per l’infanzia e di vocal jazz. Curatrice di lavori antologici,
editing, lettura/valutazione testi poetici e brevi saggi, dirige per La Vita
Felice la sezione ‘Opera prima’. Direttrice del marchio
Editoriale RPlibri è Presidente dell’Associazione Arte e Saperi. Ha ideato e
coordina il Festival della Poesia nella
Cortesia di San Giorgio del Sannio. Sue recenti pubblicazioni di
poesia: Gli imperfetti sono gente bizzarra (La
Vita Felice 2012) risultato vincitore di numerosi Premi, tra cui Laurentum
2013, è stato tradotto in francese Les imparfaits sont des gens
bizarres, (L’Harmattan, 2016 Traduction en français par Giovanni
Dotoli et Françoise Lenoir) e per Uet Tunisi la traduzione in lingua araba (a
cura del Prof. Othman Ben Taleb), Quel
grido raggrumato (La Vita Felice 2014), Il suono per
obbedienza – poesie sul jazz (Marco Saya Edizioni 2015), Prima
di andare (La Vita Felice, 2016). Per la narrativa: Non
camminare scalzo (Edilet Edilazio Letteraria, 2011). La
principessa con i baffi (Scuderi Edizioni, 2015) è la sua
fiaba per bambini; Cantami una
filastrocca è un quaderno operativo per la Scuola dell’Infanzia (RPlibri,
2018). È stata tradotta in greco, in romeno, in francese, in arabo, in inglese,
in spagnolo, in catalano, in napoletano. A marzo 2018 la pubblicazione dei
racconti in prosa poetica: ‘L’amore casomai’.
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