Le tre stazioni
successive sono “Iconoclastie”, “Memorie (da un futuro), “Diversa densità degli
infiniti”. Possiedono analogie di struttura e sono collegate da un’unica linea
di percorrenza. Se si prende spunto dal titolo iniziale le si possono immaginare
come saloni sghembi di una stessa area museale, in cui paesaggi, ritratti,
rievocazioni storiche, sono collocati gli uni accanto agli altri in una
sequenza sorprendente, ma per nulla fortuita. I personaggi inquadrati sono
reietti e oscuri e la loro leggenda nera farebbe la felicità di Guido Ceronetti
e delle sue allucinate biografie, ma se là la tragedia è raccontata alla
maniera di un notturno e sanguinario cantastorie, qui non si rinuncia alla
cesellatura formale, il dolore risulta rappreso, il sangue raggrumato. Laszlo
Toth, Cassandra, Elena Ceausescu, Frau Goebbels, Jack the Ripper, Leni
Riefensthal, tanto per dire. Anime compromesse, destini andati a male, anche
nel caso di chi lavora con la luce e ritrae muscolosi e scolpiti atleti ariani.
La rievocazione storica
che mi colpisce maggiormente è “Dàyuèjìn – Il grande balzo in avanti”, dove le
false promesse della propaganda maoista, il riscatto rappresentato da un futuro
migliore attraverso la fatica infernale del presente, è reso attraverso la
màcina della ripetizione anaforica (“riso sterile piantiamo e piantiamo”) ad
ogni nuova strofa e l’inserto di versi danteschi:
Riso
sterile di sterile zolla noi piantiamo
lo
piantiamo e piantiamo alba dopo alba
ne
cresceremo pula pula e cenere
queste misere carni, e
tu le spoglia
la
morte bussa piano ha l’orma lieve
loro
danzano madre nelle stanze solatie
di
voi faremo sabbia e spighe brezza e fiume
traete
sangue e pane la pietra ha mani d’aria
quel
tuo cuore madre è un uscio un uscio lieve
(Dàyuèjìn-Il grande
balzo in avanti, vv.32-40. P.53)
I paesaggi di “Zero al
quoto”, rappresentano il nostro centro storico o l’azienda davanti a cui siamo
sempre passati e che ora sta per essere riconvertita: riconversione del lavoro,
degli sguardi, delle pulsazioni cardiache. Oppure l’alienazione delle banlieue
dove si preparano inneschi esplosivi o le promesse non mantenute dopo il
terremoto in Abruzzo: preghiere crepitanti e svanimenti, nuove soluzioni
abitative e perdita di memoria. Tutti questi luoghi sono uniti da un senso di
precarietà e di perdita che, al di là di ogni giudizio morale, indicano la
stessa unità di misura di ogni esistenza umana.
Vivere
è la calibratura esatta
di
un’orologeria millimetrica
a
scandire il rintocco della fine
(Banlieue Shahîd,
vv.18-20, p.54)
Ma allora non riesco,
non riesco a rispettare la mia consegna e a procedere in maniera logica e
ordinata. Vado a sbattere contro la poesia “Tomtom” e lì ottengo dal poeta la
licenza di abbandonare gli strumenti tecnologici, a cui ci affidiamo ormai
anche per raggiungere i luoghi che si trovano dietro l’angolo. Ed è ovviamente
una benedizione anarchica.
Quei
peripli tra identiche campagne
in
cui ci si ritrova all’insaputa
-
smarrire unica rotta -
e
quello svicolare tra le ghiaie
impolverate
tra la luce e il vento
che
sbucano in un prato senza fine
più
oltre solo un palpito di cielo.
Quello
schianto frontale col silenzio.
(Tomtom, vv.18-25,
p.70)
Così ritorno indietro e
a un precedente svincolo poetico e mi ritrovo in una cameretta, dove si celebra
il rito sempre valido delle buone cose di pessimo gusto. È
una vera e propria dichiarazione di poetica, che mi sento di condividere a
pieno titolo sin dal titolo che è “Di un incomodo peluche”.
Ma
altro ti significa quell’indomito
relitto
d’infanzia. È nell’imbarazzo
in
cui giace attonita sul foglio
indugio
su indugio, verso su verso
la
circospezione la maestria
tua
di scrivere, perché non è afflato
di
memoria non sura non bestemmia
perché
come quello sconcio ippopotamo
mai
nulla cambia né mai serve
a
nulla mai la poesia,
declinazione
esatta
prontuario
dell’inutile. Inutile
e
irrinunciabile.
(vv. 16-29, pp.67-68)
Che la poesia, come un
ippopotamo di peluche, che ha attraversato con la sua affettuosa inerzia tutti
gli anni della vita, sia inutile e irrinunciabile, è fatto pienamente
condivisibile. Di certo non potrei trafugarlo ai ricordi e alle manipolazioni
attuali di Bregoli, ed è così con altri miei giocattoli personali che affronto
le lande sconosciute di “Amba Alagi”. “Amba Alagi” vive di quadri che
riconducono alla nuda materialità dell’esistenza, a oggetti che rivendicano un
proprio senso, non colonizzato dall’impiego quotidiano degli uomini. A partire
da questa nuova dimensione si aprono squarci ideali, inviti al viaggio, ricerca
di Altrove che naturalmente non possono essere che liberi.
Perché
sai in fondo è questo: rimediare
col
senso contraffatto d’una vita
la
trascrittura errata d’una nascita
fino
a giungere, tutti e ognuno, ad una
regione
di mezzo, una zona franca.
Ad
una terra esatta, impareggiabile.
(vv.9-14, p.91)
Il titolo “Amba Alagi”
offre però un’indicazione ambigua, come se il desiderio di evasione all’inizio
caratterizzante i poeti decadenti e poi tutta la società borghese, riveli in
controluce la cattiva coscienza dell’imperialismo e l’illusorietà di ogni idea
di fuga dalla realtà.
In ogni caso, dopo la
ricerca del posto al sole o dell’utopia, si torna tra le mura domestiche ed è
lì che si possono trovare i deragliamenti più impensabili.
Ma
pure un piatto sbreccato, una spilla
un
guanto liso, un pettine rivendicano
talvolta
dignità a esistere, intrudono
nella
geografia consueta di anni
la
deriva d’un continente prossimo.
(vv.6-10, p.89)
Jacqueline Risset
spiega bene in una sua introduzione a “Il partito preso delle cose” (1942) di
Francis Ponge, la tendenza della cultura francese con Sartre e l’école du
regard – sotto l’influenza diretta della fenomenologia di Husserl - a ridefinire non pregiudizialmente l’universo degli
oggetti che ci circondano:
“Si
tratterà quindi, scrivendo, di “aprire gli occhi” e di vedere le cose, nella loro
superficie netta, liscia, intatta, le cose “che sfidano la muta dei nostri
aggettivi animistici o casalinghi”.
Nei
due casi vi è scoperta di un’estraneità radicale, avvicinamento a una sorta di
nudità sconosciuta – sconvolgente e tragica per Sartre, neutra, trasparente,
quasi scientifica per Robbe-Grillet. Ma da tutti e due è il linguaggio a essere
messo sotto accusa – il linguaggio che “copre”, nasconde, che riduce le cose
esistenti allo stato di puri strumenti, o che per mania di profondità, impedisce
la percezione della loro superficie”.
(J. Risset, De
Varietate Rerum, p.VIII, in F. Ponge, “Il partito preso delle cose”, Einaudi,
Torino 1979).
Ma in Francis Ponge la
radicalità è spinta a un punto tale che anche le parole stesse possono essere
considerate al pari della realtà oggettuale da loro evocata e dunque ricevere
la luce di un nuovo sguardo percettivo. Si realizza l’assimilazione necessaria
tra cose e parole. Ecco come Ponge descrive i frutti di bosco:
“Sui
cespugli tipografici costituiti dal poema, su una strada che non porta né fuori
dalle cose né verso la mente, certi frutti sono formati da una agglomerazione
di sfere che una goccia di inchiostro riempie”.
(F. Ponge, Le more,
ibid., p.15)
E Fabrizio Bregoli:
Torni
alla familiarità coi gatti
quella
stirpe intermedia tra confini
di
mondi che dialogano per lessemi
provvisori,
collimazioni, ellissi.
(Amba Alagi, vv.1-4,
p.92)
Prendo ora come
lasciapassare i versi “ti sentirai a casa/dove il tempo non ha coniugazione”
(p.93), per superare l’ultima frontiera, quella di “Per una poesia possibile”,
stazione d’arrivo dell’opera e che già dal titolo indica impegni programmatici,
proposte progettuali. Se di manifesto si tratta non pare comunque affidato
all’archiviazione di file perfetti, ma destinati allo sganciamento
irrecuperabile nello spazio della virtualità. Piuttosto la sua vocazione è di
incollarsi a un muro di affissioni, di avere come impegno un’adesione del tutto
materiale allo spazio pubblico, di avere come destino gli strappi, le scritte sovrapposte,
ma anche gli sguardi interessati dei passanti, di dare la sua testimonianza di
messaggio urgente e deperibile. In questo ultimo lascito Bregoli è come se si
ricongiungesse alla scaturigine della poesia e all’identificazione del suo
compito nell’artigianalità laboriosa del suo processo, vizio assurdo, tormento
di stile, ma anche unica possibilità di riscatto, rivendicazione di povero
utile strumento umano.
È il “boves se pareba”
dell’indovinello veronese, è Guinizzelli indicato da Dante come “il miglior
fabbro del parlar materno”, sono “le triste penne isbigottite, le cesoiuzze e
‘l coltellin dolente” di Guido Cavalcanti, sino al “faccio scrittura e non sono
scrittura” del “Bisbidis” di Edoardo Sanguineti.
In “Per una poesia
possibile” il poeta riflette sul senso problematico del suo mestiere
all’interno della società e vi riflette non con proclami massimalisti, ma con
una disamina sottile, amara, provocatoria delle forme stesse della poesia.
Davvero
sai il mestiere. Hai arguzia, tecnica.
Spezzare
il verso, la sua ostia nera
farne
vino, ubriacatura lirica.
Così
dici non s’abdica. S’invera.
Come
bastasse una rima gaglioffa
un’ora
d’aria, l’ultima
sigaretta.
Il bicchiere della staffa.
(p.105)
Quella di Bregoli è
poesia densa in un’epoca di poesia volatile e quando scherzando accetta lo
status quo e gli idola tribus, così
descrive la sua finta conversione a poeta di regime, la sua nuova
predisposizione antisdrucciolo:
Serve
rigore attico, accento piano
un
rimare ruffiano.
Suv
Moncler Spritz a mite dittatura.
Vincere
sempre, male di pianura.
(vv.14.17, p. 115)
Lo stile non può essere
neutrale. La riflessione sui suoi meccanismi ideologici rivela il valore alto,
etico e non solo estetico della poesia intesa come gioco linguistico.
Bregoli ha lasciato la sua maschera di
raffinato poeta cortigiano, si è trasformato nel Matto di Re Lear che soffia la
verità sull’apparenza di questo mondo contraffatto, quindi è diventato Amleto.
Sono fuori.
Uno due polizia, tre
quattro carabiniere, cinque sei vecchia strega, sette otto buonanotte.
Esiste un luogo, zona
periferica di una nostra qualsiasi città, dove è possibile toccare con mano il
recinto altissimo da cui siamo imprigionati. Occorre farne saltare la tensione
elettrica con una metafora ben innescata e poi con il grimaldello di un
endecasillabo cercare una maglia rotta nella rete che ci stringe, balzare
fuori, fuggire. Con questo plagio montaliano – furto dichiarato – sottolineo la
differenza tra la mia lettura critica e la scrittura di Bregoli. Nella sua
poesia aleggiano le diverse voci della sua ispirazione e del suo disadattamento
che lui trasforma in un afflato forte e originale. Io semplicemente non posso
che essere la poesia di un altro.
"Bregoli ha lasciato la sua maschera di raffinato poeta cortigiano, si è trasformato nel Matto di Re Lear che soffia la verità sull’apparenza di questo mondo contraffatto, quindi è diventato Amleto". Bregoli ha lanciato il suo sasso nello stagno.
RispondiEliminaPoesia alta, illuminante quella di Fabrizio Bregoli il quale con i suoi versi dall'afflato forte e originale accompagna il lettore con levità straordinaria nel labirinto della ricerca, della meditazione attiva, delle pause di riflessione: Così si impara a morire / sopravvivendo / alla consuetudine / dell'ora, del non detto / qui, nella disequazione / di parole / e senso,se solo nella provvisorietà / del tempo è commiato.
RispondiEliminaRingrazio di cuore Paolo Gera per questa così articolata e bellissima recensione, Fabrizio Bregoli ovviamente, e Stefano Guglielmin che ci propone sempre articoli di notevole rilievo ed interesse.
Grazi a voi per i commenti
RispondiEliminaGrazie per la vostra stima, mi avete lasciato senza parole.
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