martedì 29 ottobre 2013

Giusi Montali


Seguire la dialettica luce/notte è il modo migliore per incontrare, sotto il profilo paradigmatico, fotometria (Edizioni Prufrock spa, 2013), di Giusi Montali: pag. 38 ("lei sa / di essere buio venato di luce"); p.41 (la notte "cosparge i polsi di luce"); p. 57 ("notti dalla luce spenta"); p. 61 ( io "sono le stelle disseminate [...] / [...] nel buio che illumino"). Dalla percezione di sé quale sostanza buia attraversata dall'oro della luce, alla forza solare della notte, fino ad entrare nel buio più atroce, per uscirne stella, che risolve parzialmente quel buio. Il buio tuttavia non passa mai completamente, lo si può al massimo indicare con la luce che si è conservata malgrado il lungo travaglio, dargli ragione mostrandolo (e, ma solo in piccola parte, dominandolo). Siamo perciò di fronte a un percorso verso una salvezza fisica mai del tutto compiuta e che, per questa ragione, diventa mentale: "Luce nera" s'intitola l'ultimo paragrafo, il più cupo – mi spiega privatamente la poetessa di Carpi – nel quale "il soggetto è immobile, malato, e il viaggio che si percorre è tutto interiore".

Fotometria è dunque un libro sulla luce e sulla sua mancanza, ma anche sulla malattia, raccontata per lampi e scarti, a partire da una definizione di campo, che mette a fuoco le coordinate spaziali, da leggersi come materiali di costruzione del libro stesso: "Io preferisco / la scienza dello sguardo / la prossemica infranta / la limatura del corpo / la sospensione dei sensi", si legge nella porta infernale edificata dall'autrice, per illuminare, anche di luce sinistra, la nostra lettura. Ossia ci dice, programmaticamente: il mio campo d'azione sarà il buio e il guardare, saranno i sensi e la loro mancanza, il tatto e la distanza tra i corpi, la loro eccitazione. Eccitazione (che è luce emanata dagli oggetti, fotometria, appunto, ma anche desiderio, luce radiosa dei corpi in amore) e mancanza di eccitazione, scoramento, buio siderale, che cerca compensazione alimentando l'immaginario.

Che cosa sognano i ciechi, si chiedeva Diderot nel vivo di una polemica sul rapporto tra conoscenza e percezione. Giusi Montali, nella seconda parte del libro (le ultime tre sezioni, delle sei che lo compongono) porta all'incandescenza la questione gnoseologica, declinandola in un viaggio febbricitante nella cartografia del corpo, della conoscenza del mondo attraverso il corpo: "Fuggo piano, mi elevo, supero il confine / mi arrampico sulle costole, discendo alla colonna / vertebrale, inverto la salita", sino a deflagrare e così illuminare il buio; oppure, in quell'andare, sprofonda nel "verde intenso / dell'acqua" per ritrovarsi, orribile visione, succhiata da "microrganismi tenaci" o, ancora, si ricompone "nel vuoto, nel bianco di un'ascesi inversa", valere a dire precipitando "sull'orlo di un bianco gelido che perfora / e risveglia", ad attestare che non c'è salvezza in questo lavorio dell'immaginazione per sopperire l'immobilità. Non c'è salvezza e nemmeno speranza: "Dove sei mio cuore disperato" si chiede infatti Montali verso la fine del racconto, come un'eroina ottocentesca (o forse con amara ironia), per subito compensare questo cedimento sentimentale con un lessico freddo, modernissimo: ecco allora che "il faut assassiner / la molecola, il corpuscolo e l'elettrone / costruire viali d'aria, combattere / l'antimateria", anche perché conversare, in quelle condizioni, "è un'azione anarco-insurrezionalista".

Cultura umanistica che incontra quella scientifica, paura del buio e fotometria, voglia di "labbra tremanti" e di particelle elementari: di questo intreccio su nutre quest'opera prima, microcantica infernale di sicuro effetto, nella quale passione e ragione si muovono in sinergia, al fine di coniugare ricerca interiore con quella formale, domanda sull'identità e problematizzazione sulla lingua che la deve in qualche modo lasciar essere nella sua dimensione tendenzialmente strutturata per densità/intensità di luce e ombra, anziché per quantità neutre e concetti.





la lingua assolta. IV.


il sangue si intorbida di saliva:
particella illuminata che si inscena
su questa lingua assolta
                                   
                                        illanguidisco
nell’ora meridiana: visione impressa
plastilina che ruota, ticchettio esploso



cartografia del movimento. IV.


ci scaldiamo dall’inverno
che abbiamo portato distesi
tra i muri, fotografiamo
con gli occhi appoggiati alle pietre
e camminiamo a tastoni
tra serpentina e serpentina
saltiamo tra l’interstizio
delle rette che si susseguono
nello scarto specchiato di giallo
per ritrovarci nel rifugio del vento



amaurosi. II.

nudité-crudité


pulsa l’estate nella mano aperta al viso:
strappi epidermidi, ma il nocciolo
è già esposto alle radiazioni

chiedo asilo e nel vestibolo della luce
mi spoglio: sul prato è la mia cruda
nudità e le palpebre serrano l’alba




la camera. II.


ti si ossifica il cuore
le ossa comprimono
il corpo si infiamma:
disteso, aperto, fragile
io, spiraglio, diagonale
che taglia il disordine
e parla l’altrove inquieto



klesha. éternèbres (III).


siamo persi nel deserto:
ho lasciato il corpo disteso
per raccogliere il chiarore
scricchiolano i passi
si aprono le vertebre
che ruotiamo e ammiriamo
- le articolazioni saranno
il nostro furore

camminiamo nella sabbia
seppellendoci nel sole
divoratore:
                        persi nella tenebra
                        si sfilano le arterie
                        si contrae il sesso
                        rotolano i denti
                        tra la sabbia
                        si dischiudono le gengive

e lascio il corpo a raccogliere
la fosforescenza




klesha. V.


urlano e ridono e non sanno
dell’immortalità del granchio
e ti apri l’addome e lo esponi
e guadagni un rifugio dove
scalzi il piede nella foresta

per riflessi apprendi il salto
lo schianto del petto in punta
di respiro, lo sciogliersi
della glaciazione che lascia
la terra scannerizzata
dalle radiazioni




luce nera. IV.


volatile fumo espanso dalla cassa toracica
raccoglimi negli strati aerei costellati della
gabbia aperta
                        fuggo piano, mi elevo, supero il confine
mi arrampico sulle costole, discendo alla colonna
vertebrale, inverto la salita, risalgo piano
                                                                        eccomi
sono qui tra il plesso solare e una notte corporea esplosa
ecco, sono qui tra le ciglia dischiuse e un fiore lacerato
ecco sono una passeggiata rischiarata da suoni:
sono le stelle disseminate, solamente sole
sicuramente sciolte lente nel buio che illumino




luce nera. IX.


e ho visto il mondo oltre le pareti
la luce sotto la soglia, i corpi
distesi contro i muri, ho visto
l’uomo di Rodez scalciare
le donne aprirsi lo stomaco
il condannato sedersi e piangere
ho visto le mani farsi iridescenti
divenire ali lucide
                               tagliate e allineate


Giusi Montali è nata a Carpi nel 1986. Nel 2011 si laure in Italianistica presso l'Università di Bologna con una tesi su Amelia Rosselli. Sta svolgendo il dottorato di Ricerca presso l'Università di Pavia sulla poesia di Alfredo Giuliani.



2 commenti:

  1. ho letto e riletto molte volte.. ma pur riconoscendo la qualità dei testi, non sono stata capace di farmi raggiungere..

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  2. capita, non preoccuparti: ogni poeta ha il proprio pubblico, che incontra per affinità culturali, prima di tutto. ciao!

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