Bernardo Pacini appartiene a quella schiera di giovani poeti colti che hanno fatta propria la rottamazione dell'aureola, così come aveva insegnato il bisnonno di tutti i poeti sensuali prima che filosofi. Come Baudelaire, infatti, anche Pacini in Cos'è il rosso (Edizioni della Meridiana, 2013) mette al centro la percezione sensibile, ma se il primo giocava d'attacco verso i passanti, uscendone vincente, il secondo – sin dal testo d'apertura – si fa mettere in croce da uno di loro, che gli mette di fronte la non evidenza delle cose, la complessità che si cela dietro le apparenze: cos'è il rosso? Un colore del dovere o del piacere? Un semaforo che ti impone la sosta o due labbra impossibili da dimenticare? Il giovane Pacini (o meglio la sua controfigura lirica) attraversa una Firenze notturna, godereccia ma anche piena da solitudini inconsolabili, con le quali egli si confonde, tra la paura della morte e il vanto di comporre un verso dove un sintagma raro e prezioso (per es. "le braccia insugherite") si mescola al quotidiano grigiore di una "macchina da caffè". Il gioco di miscelare il registro alto e basso, il libro e la strada non può che piacere a un poeta colto come lui, specie se ancora nell'età in cui il vivere precario non ha sulle spalle alcuna altra responsabilità che quella di uscirne vivo. E per fortuna, che così il buio e l'ombra e l'inferno che ogni tanto si impongono in questo libro non mutano in dramma, lasciando invece la voce all'ironia, all'autoironia. Sono "un dante che ha lasciato virgilio / per google": sposalizio felice tra i due motori di ricerca, che strappa il viaggio del suo concittadino medioevale dalla solennità del bene e del male, per una più modesta ricerca di uno spazio abitabile, se non altro virtuale e di natura estetica, che lo faccia sentire "in sezione aurea con l'alba" fiorentina. Eppure Pacini non sta scherzando con il lettore, non gli strizza l'occhio, ma soffre davvero come tutti gli inetti della letteratura novecentesca, e lo si sente quasi ad ogni poesia; lascia segnali, semi inequivocabili: ecco allora la "canicolare solitudine" e lo spaesamento, l'uso della negazione ad ogni piè sospinto ("Non scrivo perché non sono"; oppure: "Non c'è spazio né saliva"). "Niente anestesia", insomma, "ma soffi di sangue", di un rosso che qui sa d'amore non corrisposto, tolto da una Beatrice-Clarissa, non si sa se per vocazione claustrale oppure per disinteresse biografico. Di fatto, scrive il poeta infelice – e stufo tra l'altro di frequentare giovanastri intellettuali, suoi simili eppure nel profondo assai dissimili – "desidero la tua presenza: / come un bambino / appiccicherei il naso / sulla vetrata del tuo viso". Il verso è breve, il gusto paronomasico evidente, la paura di aprirlo alla politica, forte: forse per questo si sente "costretto all'immobilità", ad un'anarchica immobilità rispetto al tempo del progetto, che, nel libro, muta nel suo opposto: in un frenetico andare di sponda in sponda, dentro Firenze e, da lì, a Malaga a Parigi, ma come una foglia, un tronco senza radice. Il poeta lo sa, e ce lo dice: "Non credo che mi alzerò da questo scalino" se non per scrivere; ma cos'altro è la scrittura se non l'accettazione della nostra natura sociale, un tessuto in cui il molteplice si organizza in una casa comune? Un'accettazione tuttavia non ancora diventata carne, pratica quotidiana, e questo porta Pacini a una parola elitaria, che separa anziché offrirsi quale esperienza archetipica del profondo, nella quale si nasconde e gioca invece di sentirla come il meglio che un poeta possa dare alla comunità dei viventi.
la fortezza è uno scatolone chiquita
«Le
città invisibili di Calvino?
Mai
sentito, non è mai stato ristampato…»
– mi
risponde, ma pensa a sua madre morta
l’anima
lasciata ad asciugare sul filo
a
Napoli –
(E
intanto la Fortezza è uno scatolone chiquita:
un
ossuto titillare di polpastrelli
su una
balena di ceramica
o su
una maschera Bwa
intarsiata
da Olaitan o da suo nonno Sou
ma
destinata all’avv. dott. Arena
I
venditori di poche parole
attori
bugiardi
riparati
dietro paraventi rabberciati
commerciano
pezzi minimi del loro corpo
tempestati
di chiodi storti di armadi
foto
di «donne-fidanzati-fiori-donne-donne-fidanzati»
una
forchetta l’unica nella miriade di miriadi
con
ancora una crosta di pomodoro
il
dattiloscritto quello originale famoso
che recita All work and no play makes Jack a dull boy
una
pipa che non fuma più
un
Bodini spiegazzato
Plutotostapane
lo
scialle della regina Elisabetta)
«…
però ne ho molti altri di Calvino
tutti
a prezzo economico, non andartene ti prego
non
lasciarmi qua da solo…»
in sezione aurea
a
Paolo Fabrizio I.
Mi sto
staccando dalla notte
come
scotch nero al sole
ma
insiste sulla cartapesta della città
una
purea di voci e canne
fumate piano
mentre
a media velocità
vedo
rastremare Firenze
spogliarsi
e sui fianchi mostrare le smagliature
darsi
roca a una donna
bloccata
sull’arsi del passo
E voi
che mi fermate
sapete
a chi state
chiedendo
aiuto
per
far ripartire l’auto?
a un dio, a un dio cieco
a un
muto col megafono
a un
sordo che scrive sinfonie
a un
dante che ha lasciato virgilio
per
google
Tenetemi
un attimo la bici
non
strappate la ragnatela dal campanello
che
penda ancora se davvero un ragno l’ha tessuta
al
manubrio di Clarissa
Sappiate
poi che ora
che mi
sono appena staccato
mi
lega la notte con altro filo:
che
rialza lo specchio
mi
allaccia a Firenze
mi
mantiene in sezione aurea con l’alba
nei momenti di passaggio
Di rosso vestito per mano alla madre
scoprivi le contrade di Firenze
Piero Bigongiari
Scagliato
tra le vie di Firenze bene
sembro
polvere di quarzo
liberata
nel deserto:
tutte
le strade portano al duomo
anche
se forse non è vero
Scopro
di essere inelegante
ma non
perdo il passo
Le
torri e le loro iscrizioni
rovesciano
la tradizione sulla gente,
specchi
farneticanti su cui tutto il niente
scintillando
scivola
Il
castigo del sole per noi
è una
canicolare
solitudine
insonnie
Il
piano urbanistico non aveva previsto certe albe
Qualche
solitudine cingolava i suoi passi da nord a sud
sorseggiando
la luce da otri di vetro non turati
stringendo
in mano un mannello di carciofi da offrire
alla vita
che di
schiso usciva da loro in frattali
a
fiotti intermittenti
quasi
una magagna nelle tubature
un
incubo conficcato nel sonno
come
una scheggia saettata dal legno della staccionata
in fondo alla mina
a
Ronda con Clarissa
«Si
tratta di un’anatomia basata
sui
carbonati azzurri» dicono i rondegni
piangendo
un flamenco
sul
nostro piatto di gazpacho
Ciò
riguarda l’abisso di sole
che
piomba sulla groppa del cavallo mascherato
nella
plaza de toros
e il
dedalo di case bianche
come
vene vuote
invase
di dissipato clarinetto
Ciò
riguarda l’arancia
disfatta
sull’asfalto e colata nelle entraglie
di una
città ficcata nel passato
come
una ciste
dentro
un chiostro di sibili
e fantasmi
aridi, senz’acqua
Ciondola
stanca come i vecchi poeti
Ronda
vana e strepitosa
su di
un fiume che le bacia i piedi
Ronda
peccatrice
carceriera
di cigni
schiudimi
i tuoi penetrali
dimmi
per che sei
E naso
in alto o bocca sulla guancia di lei
arrivo
in fondo alla mina
del Rey Moro
al
bacio dell’acqua azzurra
a
imburrare le mie dita
delle
umide pareti carsiche
che
cingono la tua anima, Ronda
e la
mia
in treno a san mommè
a Walter, che mangira
On your marks-set-go
dal
traliccio all’acero
in sette
secondi
tre
decimi spaccati:
sono
più veloce del buio
e di
Bolt
Il
vento sbocca dalle grotte
e coi
polpastrelli
smeriglia
i miei occhi
assiepati
al finestrino
Nessun
attimo incontra se stesso
e
quindi
s’inceppa
la mola dei miei perpetui ritardi:
set-reset-go
a
certe velocità
come
la maiolica
mi
sento rinascere
Qui
ora a San Mommè
si
incastri la mia voce
tra le
braccia di un castagno
ammorbidisca
come le pere
si
bagni in un’arteria di rugiada
ottenga
la perfezione della nocciola
Chiedo
solo che torni pur fioca
sul
treno di mezzogiorno e ventotto
Bernardo Pacini è nato
a Firenze nel 1987. Si occupa di filologia moderna, in particolare della poesia
di Dino Buzzati e Carlo Betocchi. Ha diretto per alcuni anni la rivista
musicale on-line www.unprogged.com, dedicata al progressive rock. Dopo una plaquette fuori commercio, intitolata Miracolo
di Cemento, ha pubblicato Cos’è il rosso per le Edizioni della
Meridiana. Ha vinto il premio De Palchi-Raiziss 2012. Collabora con il Centro
di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna e, a Firenze, coordina
assieme a Paolo Fabrizio Iacuzzi la rassegna di eventi poetici “M’illumino di
un verso”.
Ciao Stefano! Grazie per la recensione, davvero bella e gradita. Hai colto esattamente la natura di questo libro, l'idea da cui prende le mosse, che è una ricerca fenomenologica sulla parola poetica, che, nel mio caso, è sintetizzata nel concetto del "rosso", ma che, come noti, non è affatto il tema portante, come se fosse un libro per daltonici ;). Sono lieto che tu abbia notato tutte le peculiarità stilistiche della mia scrittura, e soprattutto quel dato fondante che è l'ironia. Aggiungo due postille, affatto critiche, solo di confronto: la prima è che forse, quando sul finale parli della mancata vocazione socio-politica della poesia, semplicemente non mi trovi d'accordo in quanto è effettivamente assente, per volontà e programma: non chiedo alla poesia di darmi chiarezza sui ruoli sociali. Seconda postilla simpatica: Clarissa esiste eccome e tra un anno m'aaa sposo! Ciao Gugl e grazie ancora!
RispondiEliminaviva Clarissa, allora! :-)
EliminaSulla vocazione: sotto sotto era un invito a pensarti un po' più zoon politikon, come direbbe Aristotele, non per scelta, ma perché lo siamo per natura. Più te ne rendi conto e meno chiedi alla scrittura di darti chiarezza: quella è degli angeli!
..sto pensando all'obiezione di stefano.. di capirne bene il senso..
RispondiEliminaquindi tornerò, così come tornerò a leggere per far entrare meglio..
ma qui, dal mio saper dire ben poco, si è mosso parecchio nell'impatto..
ottimo: Blanc serve a questo.
Eliminail libro ha appena vinto questo premio "opera prima": swegno che Blanc guarda lontano :-)
RispondiEliminahttp://edmeridiana.wordpress.com/2013/11/08/cose-il-rosso-di-bernardo-pacini-vince-il-premio-beppe-manfredi-opera-prima/