giovedì 28 febbraio 2008

Lucetta Frisa



Nella postfazione a Se fossimo immortali (Joker ed 2006), Mauro Ferrari indica con chiarezza l'orizzonte entro cui si muove il libro: "l'infanzia, la memoria, il crescere e l'onnipresenza della morte, la follia e la molteplicità di maschere dell'Io, la riflessione metapoetica, il luogo buio che permette una immersione uterina nell'Io e, da qui, una più netta coscienza di sé e del mondo". Temi invero che appartengono a tutti i poeti, mentre "luogo buio" e "immersione uterina" già segnano un'area più specifica del viaggio di Lucetta Frisa. Viaggio appunto nel buio, verso il profondo, là dove tutto è cominciato. Per questo l'acqua è archetipo dominante nella sua poesia, che talvolta si confonde con la grande madre: "Nessun vaso resiste l'acqua" recita un verso di Vaso etrusco, additando l'acqua-diluvio, l'acqua-vita come flusso che non tollera le maschere se non per breve tempo (Pirandello non è lontano da questa prospettiva), maschere che sono pietre funerarie, dominio dell'immobilità: "L'acqua mia madre era eterna/ il sasso mio padre le frenava" (Vaso etrusco). Attraverso la consistenza di questi due elementi (acqua e pietra, oppure, parallelamente, notte e giorno) si può leggere l'intero volume, a patto di inserire un'altra costante: il fango dell'esistenza quotidiana, "la spina aguzza del torsolo" delle cose, spina che attenua la valenza mitica dei testi, riportandoli nell'età del disincanto, nella modernità, appunto, terra che non permette illusioni. In questo senso, Lucetta Frisa depotenzia il romanticismo che le è connaturale, facendolo incontrare con il rivo del realismo borghese. Lei si ferma al bivio dei due fiumi, in modo che il sacro possa ancora mostrarsi. Così come i buddisti costruiscono templi là dove due fiumi si incontrano, lei edifica poesie, monumenti ad un presente abitato dalla tensione verso l'infinito ("io mi inchino/ alla notte stellata") e, nello stesso tempo, dall'urgenza grigia dei piatti da lavare, come esemplarmente si legge nel Quarto autoritratto diurno.


L'affetto

[...]


Tra sillaba e sillaba metti il lungo respiro
di chi non crede all'esilio
e ti fissa con tenerezza
dietro una persiana.

Ti resta quello sguardo per millenni.
Un filo mai spezzato con la forza
tenace dell'acciaio di chi bussa
ribussa a una porta chiusa ma tu
fai cadere il seme nella terra
anche se la terra è inconsistente
fai cadere una sillaba
tra tutte le sillabe del mondo
semina il tuo vento
come sai
la tua luna invernale
nella tua prima e ultima neve.

Le parole non arrivano dal mare sono
nella bocca
appaiono e scompaiono dall'acqua torbida
per galleggiare come scorze.

Non hai guerre da combattere non hai nemici
solo la morte hai se ancora ami soffrire
e ridere. Non hai che il cordone ombelicale
delle parole.

Qui non c'è molto da fare
e sempre è troppo tardi per capirlo.
Copriti col tuo abito di sillabe di poco fiato
ama il tuo desiderio più che puoi e aspetta:
e mentre aspetti chiedi anche all'aria di aspettare,
prima di scorticarti.



limite

Ci hanno detto di non toccare il limite
ma dalla riva al mare non si salpa
e dal mare alla riva non si approda
le voci sottovento
ci assediano violente l'acqua tace.
Non perdete la calma ci hanno detto
e noi stiamo bravi sulla nave
non pensiamo
respiriamo calmi
soffriamo calmi per farvi un favore.



lettera agli annegati

La prima lotta fu uscire da un ventre
verso l'asciutto vuoto verticale
l'ultima è il ritorno all'acqua.
Lo sai che i pesci tacciono muoiono
non tentano nessun limite nuotano
nella rete chiusa del mare.
Può ancora respirare chi continua a scrivere
lettere agli annegati
e chiedere eternamente quale fessura
fine di sasso separi
chi fugge da chi resiste.




secondo autoritratto diurno

Tu non ci sei e io non cucino per me:
mangerò una mela rossa non sarò la prima
a succhiare quella polpa
sentire la spina aguzza del torsolo il mio becco
farsi insistente verso la fine quando i morsi
sono più avidi e stretti e guarderò
compiaciuta denti e gengive colare succo
le labbra ritmicamente baciarsi
senza ragione o torto da ingoiare
nessun veleno ci sarà o verme rannicchiato
che già non sappia. Tutto mi sembrerà buono.
Devo solo ricordarmi della fame.



settimo ritratto notturno

Di notte al balcone
il plenilunio entra nei pori e io mi inchino
alla notte stellata ai tetti muti e ai muri
buonasera a tutti dico sono qui e ho finito
il monologo non scomodatevi ad applaudirmi
so che le cose celesti si comportano
come quelle terrestri e nessuno ci guarda
e risponde nessuno fa un gesto e sorprende.
Rientro nella mia tana
che ho voluto trasparente per capire
e illudermi più lucidamente e chiudo il vetro
e attendo lì dietro.


Lucetta Frisa è nata e risiede a Genova. E’poeta e traduttrice. Tra i suoi più recenti libri di poesia: La follia dei morti (Campanotto,1993) Notte alta (Book,1997), L’altra (Manni,2001), Disarmare la tristezza (Dialogolibri, 2003), Siamo appena figure (GED,2003) e Se fossi immortali (Joker,2006). Ha tradotto Emily Dickinson, Henri Michaux e due libri di Bernard Noêl (Artaud e Paule, 2005 e L’ombra del doppio, 2007), entrambi per la collana "I libri dell’Arca" delle edizioni Joker, di cui è curatrice insieme a Marco Ercolani. Collabora a diverse riviste come "La mosca di Milano" e "La clessidra" ed è presente in antologie, tra cui Il pensiero dominante (a cura di Davide Rondoni e Franco Loi, Garzanti, 2001) Trent’anni di novecento di Alberto Bertoni (Book,2005) Altramarea a cura di Angelo Tonelli (Campanotto, 2006), La poesia erotica contemporanea (Atì, 2006) e Voci di Liguria, a cura di Roberto Bertoni, (Manni 2007). In coppia con Ercolani, scrive libri di storie immaginarie e non, come Anime strane (Greco&Greco 2006). Con i suoi racconti per ragazzi collabora al quotidiano "Avvenire". Tra i diversi riconoscimenti, il più recente è il Lerici-Pea del 2005 per l’Inedito

sabato 23 febbraio 2008

Paolo Fichera


Innesti è un libro prezioso per varie ragioni. Edito nel 2007 da Quaderni di Cantarena, ossia da un gruppo di insegnanti attentissimi al fare poetico contemporaneo (Giovenale, Sannelli, Seclì, Diavoli e Daino, hanno trovato in essi ospitalità), viene prefatto da Francesco Marotta, nel suo stile incisorio e laterale, mai scontato; e contiene una postfazione di Luigi Metropoli, chiarissima nel mettere a profitto le illuminazioni di Marotta e nel sottolineare la natura del flusso nella poesia di Fichera. Il libro, inoltre, contiene alcune fotografie (riprodotte con la stampante) di Federico Federici, tratte da Libro dietro la neve. Infine, durissimi, ci sono i testi di Paolo Fichera, segni smagliati che si succedono nella serialità degli "&" e delle foto scorciate di Federici, brandelli di un mondo che non può essere colto che per frammenti. In linea, sotto questo aspetto, con lo sguardo di Robbe-Grillet. Fichera, tuttavia, non accarezza il tempo con le parole dello spazio, come faceva lo scrittore francese, bensì ne canta la ferita, riproducendola nella sintassi. Nulla tuttavia è scontato in questo procedere per scissioni e, appunto, innesti: l'albero della vita, pare dirci il poeta, pianta le radici in sangue e sperma, i rami indicano l'occaso, la chioma ha le sembianze del poeta, che "ha sete e digiuna". Di questo paesaggio si nutre la conoscenza, oggi. Parlare d'altro significa fingere o godere di un privilegio senza comunità.





&
la struttura è finitudine
vento specie di un luogo:
sai maestrale, libeccio, garbino;
barbaro e povero l'innesto
un flusso adagio, un frammento del
adagio e poi il mondo è barbaro
pure una costanza flessa
tracce molli il coraggio nel
innesto


&
la terra pulita, conchiglia di rame
mare, giovane dolore che
Dio nel mio abbraccio, musica
ogni quadro un germoglio, tu sei la
ecco la stanza del fuoco, ogni arpa
i bambini rincorrono una palla,
la ruota che ricompone le membra, le fa
ora un quadro, altro
un fuoco mite


&
II cerchio non è Tutto, la questua
un dondolare di frammenti, chiusa
struttura, serena specie, dicono razza se
divario si affossa e rumina la specie ancora
il rimar lento particelle non dare al
il corpo un lento mente una farsa se
dai al corpo uova e sperma ampia la
giardino di grembi, sommerse rovine
le vergini indorate di sperma
la resa


&
la sintassi è data: sentenza
profetizza ogni fine, mantello
del rancore diviso in vesti di gioia
poi morte; ogni organo si fa sintassi
a il passo degli uomini, voce per
comandi farsi ordini. Lucra la tua
ora sintassi è fine perché data
metavita, non poesia.


&
la cicatrice si ripiega all'interno
il tozzo è sempre pane, prega
per il padre la si evolve il paesaggio
si fa sogno, infanzia battuta: proce
ssione di peccato, una mercé il
turbine soave mentre
esplode l'uomo ne siamo fieri
divarica le gambe la donna la
un uomo viola l'infante ne fa sangue
soave l'anima bella qui dove tutto
è carta macina mandibole dolore
e schiavitù, instilla al timore la
pena annidando nidi e colombe
scale e perdizione perché nulla
nel coraggio si perde latra
il poeta: ha sete e digiuna
in corpi sono fiori
il padre muore nella poesia, amen


&
ho ereditato ciò che dai
l'ho nominato in nome pasto
poi posato intatto alla fiera,
smembra il germoglio miseria scossa
invocato perdono fate del cielo
strazio uragano in la fonte sia
oltraggio ora incido sempre ora chiedi
a il luogo del sacro è dato
il bianco s'incestua nel rosso, oro


Paolo Fichera è nato nel 1972 e vive a Sesto San Giovanni (MI). Dal 2003 dirige, insieme a Mauro Daltin, la rivista "PaginaZero-Letterature di frontiera". E' stato incluso in diverse antologie collettive, tra cui "Il presente delle poesia italiana", a cura di Carlo Dentali e Stefano Salvi. Nel 2005 ha pubblicato presso la casa editrice LietoColle la raccolta poetica "Lo speziale", finalista nel 2005 nella sezione inediti del Premio Montano e segnalata nella sezione editi del Premio Montano nel 2006. Le sue poesie sono apparse su numerose riviste, tra cui: "Poesia" , "il Domenicale", "Atelier". E' presente nei principali siti di letteratura, tra cui: Nabanassar, FuoriCasa Poesia, LiberInversi, Agli incroci dei venti, l'Ulisse n.1 e n.4, El Ghibli. Alcune poesie sono state tradotte in inglese, francese, spagnolo e arabo. Qui il suo blog.

martedì 19 febbraio 2008

Omaggio a Alain Robbe-Grillet


Ricordando il maestro appena scomparso, pubblico un inedito che scrissi una decina di anni fa.


Negli anni Cinquanta, Alain Robbe-Grillet tentò di raccontare quel silenzio, quella neutralità, quella cosa che parla splendidamente in Beckett in quanto cosa senza voce personale. Perché, secondo l’autore francese, le cose sono indipendentemente da chi le guarda; sono là anche se qualcuno le guarda. Anche se qualcuno non le guarda. Robbe-Grillet ce lo disse e ce lo fece vedere. E vedere è il verbo esatto. Esatto e neutro. E descrivibile. Fu per questa ragione che egli cominciò a descrivere tutte le cose che il suo occhio mortale percepiva; che percepiva ma non assorbiva. Perché con lui accade questo, che l’io sta da una parte mentre le cose stanno dall’altra. E tutto si rivela menzogna, o possibilità di mentire: a sé o all’altro; di mentire anche al codice di appartenenza. Per esempio scrivendo un poliziesco che non abbia nulla da nascondere.


Con Robbe-Grillet, non c’è più nulla che si possa nominare con una certa convinzione e nella sua interezza, nemmeno il nulla. Come l’autore stesso sostiene nel Progetto per una rivoluzione a New York, lo scrittore “riesce a far uscire dall’ombra solo qualche particolare talmente ingrandito dalla vicinanza immediata che è impossibile attribuirgli un senso, e a maggior ragione collocarlo in un insieme”. La verità è dunque sempre troppo grande, sempre troppo piccola, è sempre troppa per noi, che vorremmo incasellarla in un mondo pensato come un archivio, come uno schedario. La verità sta dunque muta ed assente nella propria neutralità di cosa in sé. C’è, ma non si può, senza mentire, nominarla esaustivamente.


Ne Lo specchio che ritorna, Robbe-Grillet ribadisce appunto che rivolgersi “esclusivamente a dettagli concreti” non significa sostenere che essi siano anche “obiettivi”. Anche qui la verità entra in gioco: essa, nella sua formulazione ontologica, corrisponde alla totalità del reale; la letteratura può al massimo coglierne la radice coscienziale. Il mondo e l’inconscio, che non appartengono alla codificazione della lingua, rimangono invece indicibili. Tuttavia, allo scrittore che insegue quest’impossibile progetto di rappresentazione totale della verità, egli suggerisce di rappresentarla per “accumulazione” e per “eccesso” così da superare le “sue necessarie menzogne”. E’ la lezione di Th.W. Adorno nei Minima moralia, e di tutti coloro che verso l’evidenza borghese nutrono qualche sospetto.


Il conte Henri, in Angelica o l’incanto di Robbe-Grillet, lascia un’unica copia del suo lavoro ad un editore parigino, il quale la farà sparire per sempre, obbligando così gli eredi ad una ricostruzione della stessa destinata a fallire. E cos’altro fa uno scrittore, segugio dell’origine, se non tentare di ricomporre i frammenti di un mosaico che ritiene essenziale, ma del quale non può ontologicamente possedere tutte le pietre?
Si potrebbe credere che Robbe-Grillet monti per questo sulle spalle di Beckett e veda più lontano: basterebbe incasellarli in una Storia della letteratura europea, nella quale si esemplifichi il progressivo illuminarsi di un’impossibilità, quella di credere nella verità. Penso invece che convenga, per rispetto dell’uno e dell’altro autore, dar credito alle loro parole, prima d’ogni storicizzazione; pensarle pronunciate da una collocazione irripetibile, mortalmente segnata dalla finitezza e, in quanto tale, da rimettere in circolo, in un colloquio disposto a condividere, anzitutto, quella finitezza.

giovedì 14 febbraio 2008

Lucianna Argentino


Diario inverso è un dialogo con l'assente, un monologo con l'invitato di pietra. Lucianna Argentino ha un'urgenza tutta privata nel trovare le parole perdirlo, ma non nasconde nemmeno il suo tirocinio letterario. Non ultimo la familiarità con Sandro Penna, che fa capolino nella immagini più tragicamente leggere ("starei come il cuore rintanato nel battito / ma somiglia a domani oggi..."; "un camignolo fumante e una porta / da cui si possa solo entrare") e nella frequente rappresentazione del treno, il cui fischio, "trascina via" (cfr. p.42). La poetessa romana ama tuttavia anche la parola settoriale ("penetrali") o arcaica ("nepente"), ama insomma segnare il territorio per la poesia stessa, collocandola fuori dal lessico amoroso, più in alto. E' come se la sua voce scendesse dall'aria rarefatta, là dove gli immortali siedono per meglio sorvegliare gli umani, e da lì ricordasse all'amore perduto che c'è dell'altro da vivere, che la vita è (anche) altrove. sul quell'anche, Lucianna si gioca tutto il dolore possibile, e la solitudine.



*

Lei sapeva del silenzio che sarebbe venuto poi
per questo gli chiedeva "abbassa la voce"
pensava che se le parole si fossero fatte
simili al silenzio la loro assenza sarebbe stata
più lieve come un bisbigliare oltre una porta chiusa
o come qualcuno che senti muoversi nella, stanza accanto.

"Cambia tono" diceva a lei lui che non capiva,
e confuso rallentava il passo, cercava un riparo
da quell'estate improvvisa, dall'assalto dell'inatteso.
Ma fu in quella luce stinta che cominciò a sentire
che le cose a volte implodono, senza implorare altro,
e tornano in se stesse e stanno affini al silenzio.
Così cedette e abbassò la voce tanto che tacque.



*

Mimetizzata nelle quattro sillabe del mio nome
- oscurata la luce, sospesa la grazia -
tento una strenua difesa dal suo sguardo manicheo
e imito me stessa, ma senza ironia
piuttosto come un insetto imita una foglia.



*

È creatura di un'aria che arriva senza rima
la paura e chiede che lei le disegni
una casa con una finestra aperta e una chiusa
col tetto, con un comignolo fumante e una porta
da cui si possa solo entrare.



*

Una radice breve è quanto ci ha uniti
e poi divisi - un seme gettato tra i rovi
un frutto senza infanzia



*

Chi può dirmi chi sono
se lui non mi è più specchio?
Se di coraggio perso è il suo guardarmi
e di ritorni severi e di ritardi,
se nel suo sguardo disfatti vedo il tempo e me
me ridisegnata senza braccia.



*

e mi ospitasse in quel silenzio
che la sera un poco sfugge al suo parlare d'altro
starei come il cuore rintanato nel battito
ma somiglia a domani oggi...



*

Ci sono vite senza un centro
o vite in cui quel centro s'è perso
un po' come si perdono gli amici dell'infanzia
o come ci si sente quando gli sguardi altrui
ci stancano e il silenzio ingobbisce
e le parole cercano un rifugio
nell'acropoli del significato e stanno nei penetrali
dell'anima come in un abito trasparente
o come nella sua voce
di tempo ritornato sui suoi passi
o di luce giunta da una stella morta.

domenica 10 febbraio 2008

Cristina Fratini


Cristina Fratini è il nome vero di Cristina Annino. Il suo primo libro, Non me lo dire, non posso crederci, uscì nel dicembre 1969 per conto dei Quaderni di "techne" diretti da Eugenio Miccini, che ne scrisse la prefazione. Il libro è battuto a macchina e contiene 26 poesie. Ne posto tre, dove è possibile già sentire l'Annino matura: l'io maschile e maschera, l'elencazione che mette in relazione (e talvolta in cortocircuito) il privato e il pubblico, l'energia d'un sadismo surreale. A questo, si aggiunga il particolare momento storico filtrato nei versi senza alterarne il tono cronachistico, scelta amplificata dalla paratassi, che alleggerisce il dramma senza toglierne la forza.



I

Accendere
prendere una sigaretta;
non approfittate della voglia di parlare
che ho oggi
Amo il padre e la madre
mio padre e mia madre
gli abiti che indossano
il profumo che si dividono
senza mai reggere a un capitolo
del tutto personale.
"Ci siamo" dissi
e come un Francesco mi accinsi
a uscire sulla via senza mai
girarmi e impicciolivo nell'occhio di loro
il padre e la madre
lei triangolare lui rombo
sopra il davanzale quieti a guardarmi
mentre sparivo.
Ora fumo pensavo
ora accendo una sigaretta
e una mano ancora mi pende fino al ginocchio.
Il dormire mi preoccupa
e i tecnici della psiche e il mio passato piromane
e l'infanzia sottile che mi chiude
il torace.
Sono magro di media statura
i capelli tagliati corti
nulla di inconsueto.



L'assassinio di via del Guanto


Penso a Jacques, quel bravo ragazzo
nella stanza dove il sarto venne trovato morto
(rapina ricatto gelosia),
i medici sostengono altrettante premesse biologiche.
Ho deciso di non dare più alcun dispiacere a Janine.
Ma Janine, la crisi sarà lunga:
si combatte nel Kaschmir, in Indonesia,
la produzione industriale lamenta
la depressione dei settori dell'edilizia,
neppure il centro sinistra è riuscito
a migliorare la situazione.
Questo però puoi crederlo
(la sera al ristorante, la via del Guanto).
Spinse con tutta la sua forza
il calore della tenerezza, una lana finissimo, d'agnello
dove affondi sentendo dalla radio
che Sukarno non è stato ucciso.
Abbiamo fatto così,
con fede immutata abbiamo lavorato
alla tua pelle, abbiamo tarlato il '700 veneziano,
il carrello del soggiorno, il tappeto orientale;
una via aperta a qualche domanda.



XXIV

Ne citiamo uno tra i più clamorosi:
in un francobollo della Germania Ovest
si può leggere
"Uccidetevi più spesso
per capirne tutta la meccanica".
Io sono appena tornato dall'Etiopia,
io sono stanco,
sposato e padre di quattro bambini ermafroditi,
abili nel ballo, nel canto, nella recita dei versi,
molto apprezzati dai concittadini.
Sono dunque un uomo arrivato
l'ha detto anche l'imperatore Hailé Selassié
in occasione della mostra centenaria di Dante
da me organizzata.
Giungo a casa, voglio sdraiarmi,
odio i tedeschi,
tu cara accanto all'abat-jour, preparata da chissà quanto.
Tra noi è sufficiente una cosa da niente,
un'occhiata per capirci;
siamo qui, nella più desolata morte privata,
ora ho chiuso la porta, amore,
dammi subito il caldo di quattro figli anormali,
il loro "babbo" che è ogni volta un miracolo.

martedì 5 febbraio 2008

Iole Toini


Canto della mamma bambina ha un padre minuscolo, una madre fragile e cresce dalle forze arcane che lo abitano. Sono parole strappate alla terra dura, parole contadine, nate dall'abbraccio violento di sangue e bisogno, lontano dall'astrazione asettica cittadina. Un canto, che viene dalla preistoria e qui, dove s'infila la radice, fiorisce.



canto della mamma bambina


Fare la mamma, essere la ninnananna, stare senza senza,
morire morire morire come una qualsiasi fatica.


I


La cuffietta intorno al viso; un fagotto sui gradini
della stanza grande come una forma di lardo,
unico flash della mamma-bambina sdentata e senza pianto.

Dietro la porta, la madre si quieta vegliata dal grufolo caldo, il battito
dentro le costole; i segni contano le vene.

Madre nera madre troppo
fragile per i boschi per le mele cotogne le primule a novembre
madre dei soffioni senza campo.

Il padre è un peduncolo, grande come il baco
che abita la mummia. Migra dalla pancia all’osso.
Succhia, succhia. Geme.
E’ un grugnito.

Tagliati a metà, l’uomo e la sua terra, il verro e la sua donna, nel tempo perdonato
della mietitura, crescono la mamma-bambina.



II


cuore zoppicato cuore sperticato vuoto della resa
candore nella bocca calore morsicato
tappo uscio cigolio del letto


Lei è l’amore, nato amore vivo,
amore da far fuoco, con il nome corto come l’odio.

Vivi e cullami, vivi di più e proteggimi
scatola di ossa, cranio che si fonde, testa
dell’ariete contro la mancanza, mia bambina azzurra
come la porta, magra come un girino, bomba mammina
che spalmi olio sopra i muri, difesa dei massacri
vitello mai morto tuorlo
del mio altare donna inginocchiata
con lo sputo infilato nella sporta
donna nocciolina senza la barbi senza le trecce
con la gonna a pezze con le gambe
storte il sesso cresciuto contro le braghe di un uomo
uomo immacolato uomo vangato sulle pietre
calde di vermi vieni sulle dita cuore di dita
dolore respirato buio scafandro uovo crudo
libro mai avuto



III


C’era l’amore cucito vena a vena.

L’amore era nelle galline
nei vitelli nello zio del latte munto
nei fasci di fieno i giochi con le biglie.
L’amore era nel fiato dei campi.



IV


nel nome del padre nel nome della madre
nel nome della figlia bestemmia


Preghiere e muco sopra le labbra.
Lei è un podere da vangare, attecchisce sui rami
delle gambe, un baco nel frutto.
E’ dura come il piombo,
cade colpo su colpo,
poi ricresce come i cerchi dentro un albero.


Nella doglia si torce come una sposa.
Ama la madre chiusa nel ventre.
Odia il padre che è il principio e la fine.
Odia il suo corpo che li tiene: letame buono a far seme.



[...]



VIII


Le persone entrano e escono dal mio ventre come una battaglia.

[ La mamma piange.
La bimba viene al mondo.]

/

Ondeggia come uno spillo
calato in fondo al pozzo.
Dentro la pancia il padre guaisce,
Non vive; resta nel vuoto che lo colma,
limbo senza terra, cordone alla gola,
isola che affonda la carne aperta.

Respira, mamma-bambina.
colalo fuori dal cuore.

Ora nasce
ora che duole così forte
adesso che spacca la carne
adesso che ti muore.

Vivo animale, pescecane,
cibo che penetra lo strappo.
Lui che in te resiste.
Lui che mai muore.


La testa molle, rasata come un campo da tennis, vola dalla panciabambina,
attraversa l’altare come la risata di un beone.


(inedito)


sabato 2 febbraio 2008

Max Loreau

Dipinto di J. Dubuffet



Un poeta che guardava la piega dell'essere dal battello ebbro. Un poeta francese, naturalmente.


Beatus Vir


Hargne,
ma hargne, ah belle hargne,
compter sur toi pour souffle et sang
naissance ah ma naissance
toujours à refaire par brèche et sillon,
trébuche, insoumission, main accrue!
Pourquoi t’étais-tu engourdie, où fourvoyée,
Parmi faux sages avides d’images, beau dire,
narcisses, petits Lyrés, élégies?
C’était hier. Mais aujourd’hui, à s’accager, joie,
quelle désinfection!

Hargne, ah vieille hargne
remue la vie, rentre en guerre!
Reprends tes mots au papier de verre
à écorcher, raper,
à faire flamboyer chairs!
S’acharne, qu’assaille, ah corybante,
ta pointe de plume
comme un vaccin d’autrefois qui crevait la peau,
laissant à jamais son cratère!
Que noire, plus noire, et que s’élance
ta coupe d’encre, entaille, ton envie
d’outre en outre insurgée,
que scande
à travers, envers, contre tout!

A’ nous deux!
Sois tranchante, accouche!
Qu’à feux roulant vrillent et essaiment
lettres jetées, querelles
tambour battant tourbillonnées,
rafales
de mots colères démontés, cahotés, tempêtes
accents outrés, hachés, clats s’arrachant
à coups d’ictus, embellies, crises
ah ensemencer la banquise!

A’ nous deux, ma rage, ma Bacchante,
mon éperdue éprise
de se briser
en minuscules, exclamations, bâtardes,
qui brodent
folies, ces anarchies!
percer au coeur des lumières si noires,
se perdre à des riens, voir!
et ancore, plus que trop, tant voir! grands trous
d’aveugle!
et se briser, ma hargne,
en voix de tête, cassée, fausset
qui étend le vaste aspirant à plus,
crie le lyrique à trépasser
et s’égare en plus décousu,
d’en haut d’en bas débâcle
écartelée comme nuit au gré du cosmos en sommeil
-chaos, ma hargne imaginée,
mon impulsive au souffle colossal d’écrasante,
mon palais béant,
ma toute blanche,
ma perte oscure,
l’engloutie,
écris pour moi
écris




Beatus Vir
(trad. di Stefania Roncari)


Rabbia,
mia rabbia, ah bella rabbia,
conto su di te nel soffio nel sangue
nascita ah mia nascita
sempre da rifare breccia nel solco,
vacilla, ribellione, mano più grande!
Perché ti eri intorpidita, fuorviata,
tra falsi saggi avidi d’immagini, bel dire,
narcisi, piccoli Lyrés, elegie?
Era ieri. Ma oggi, devastazioni, gioia,
che disinfezione!

Rabbia, ah antica rabbia
smuovi la vita, rientra in guerra!
riprendi le tue parole di carta di vetro
da scorticare, raspare,
nella carne scintillare!
Si accanisce assalta, ah coribante,
la punta della tua penna
come il vaccino di un tempo che spossava la pelle,
lasciando per sempre il suo cratere!
Nera, più nera che la tua coppa
d’inchiostro si slanci, incida, la tua voglia
di erranza altrove insorta,
scandisce
attraverso, verso, contro tutto!

A noi due!
Sii tagliente, partorisci!
In fuochi rotanti a spirale in sciami
lettere gettate, contese
vorticose a tamburo battente,
raffiche
di parole rabbie smontate, scosse, tempeste
accenti eccessivi, spezzati, scoppi strappati
a colpi d’ictus, crisi più belle
inseminano ah la banchisa!

A noi due, mia rabbia, mia Baccante,
mio sconfinato amore
spezzato
in minuscole, esclamazioni, bastarde,
che ricamano
follie, queste anarchie!
Trafiggere il centro di luci così nere,
perdersi in nulla, vedere!
E ancora, vedere oltre! grandiosi buchi
di cecità!
E s’infrange, la mia rabbia,
nella voce di testa, rotta, in falsetto
apre il vasto aspirante oltre,
urla il poeta quando muore
e si perde più sconnesso
dall’alto in basso la rovina
dilaniata nella notte secondo il cosmo nel sonno
- caos, mia rabbia immaginata,
l’impulso opprimente del soffio colossale
il mio palazzo aperto
tutto bianco,
mia perdita oscura,
divorata,
scrivi per me
scrivi


(Poema apparso in due versioni. La prima è uscita nella rivista Phantomas, n°78-82, “Homo Ludens”, Bruxelles, dicembre 1968; la seconda, qui riportata, è apparsa nella rivista TXT-25, Bruxelles, Edizioni Lebeer-Hossmann, 1990).



Max Loreau (Bruxelles, 1928-1990) si dedicò dapprima a studi di filologia classica e, successivamente, di filosofia, presentando una tesi di dottorato su Lorenzo Valla e l’umanesimo italiano. Insegnò estetica e filosofia moderna all’Université Libre de Bruxelles dal 1964 fino al 1969, quando decise di dedicarsi interamente alla scrittura e alla ricerca filosofica. Per anni collaborò strettamente con Jean Dubuffet, redigendo i primi 28 volumi del catalogo ragionato delle sue opere. In italiano si veda: La prova (in “Origini”, IX, 25, 1995, pp. 28-31), Il corpo in rappresentazione (Intorno a un quadro di Magritte) (in “Studi di estetica”, 25, 2002, pp. 9-24), Opera da camera. Nell’erompere del momento e Il mattino di Orfeo (Rimini 2005). Bibliografia tratta da http://rebstein.wordpress.com/2007/10/29/max-loreau-tradotto-da-adriano-marchetti/