giovedì 31 agosto 2006

Isabella Morra


Morta assassinata dai fratelli, a nemmeno trent'anni, nel 1546, la poetessa lucana pare sorella, in opere ed omissioni, di Giacomo Leopardi; credo meriti questo piccolo omaggio tratto dal suo Canzoniere.




...
Quella che è detta la fiorita etade
secca ed oscura, solitaria ed erma
tutta ho passato qui cieca ed inferma,
senza saper mai pregio di beltade.


...
Ecco ch’un’altra volta, o valle inferna,
o fiume alpestre, o ruinati sassi,
o spirti ignudi di virtute e cassi,
udrete il pianto e la mia doglia eterna.


...
Scrissi con stile amaro, aspro e dolente
un tempo, come sai, contro Fortuna...



ecco infine un sonetto di chiara matrice petrarchesca:



I fieri assalti di crudel Fortuna
scrivo, piangendo la mia verde etate,
me che 'n si vili ed orride contrate
spendo il mio tempo senza loda alcuna.

Degno il sepolcro, se fu vil la cuna,
vo procacciando con le Muse amate,
e spero ritrovar qualche pietate
malgrado de la cieca aspra importuna

e, col favor de le sacrate Dive,
se non col corpo, almen con l'alma sciolta,
esser in pregio a più felici rive.

Questa spoglia, dove or mi trovo involta,
forse tale alto re nel mondo vive,
che 'n saldi marmi la terrà sepolta.

lunedì 28 agosto 2006

Ilaria Seclì


Non lo faccio mai, ma sta volta l'eccezione vale intera. Ecco alcuni inediti di Ilaria Seclì, con un suo corsivo altrettanto esplosivo.






la stessa forza del fiore che apre, la pioggia che si svuota, il muro secco inginocchiato e la nuca giunta alla prima comunione con il sole. arriva la
voce squarciante e sa la formica accanita, sa il silenzio di santuario, l'ammasso di colori alla poltrona.
guarda che l'estate non seppe il nero e tanta ne voglio e cerco ancora. tu, campana che scocchi lontana e spalanchi al palmo il mare che la bocca di febbraio strinse. per i segreti cassetti del monte sommerso che il marinaio pregò e il pesce ebbe confidente. porti la conchiglia all'orecchio per ricordarmi il suono delle madri.
io, sposa del dio estinto. del figlio perduto. se il cielo rovescia ancora

quello che la terra solleva, tu al centro tieni e afferri, gomito che sposti
alla misericordia della valle senza vento.



I

non sarà così diverso il destino di dopo
come oggi grigio e poco vento.
lo stesso filo per la roba ad asciugare
e un’ombra vaga di fumo
forse ancora dai camini. eterno novembre
o febbraio senza attesa. e la grazia, talvolta,
dei risorti alla primavera antica
con un tiepido colore di vendemmia.
un silenzio dei pesci fecondato dall’acqua
per il mistero lungo convesso alla parola
e del mai visto.
si piegano in danze familiari melodie
e col giunco d’ebano cuciono il pensiero
scivolandolo poi, e per sempre
nella quiete illesa del mare.
lì, il mantra dei millenni
lì, il segreto semplice alla porta
del rovesciamento esatto

né alcuna lingua scioglieranno.



II

se poi viene in coincidenza di soli
in balbettii di uccello e tuoni imprecisi d’aereo
di veglie precipitanti e sfatte
come il quadro sonoro che ritorna
del cimitero, del venerdì santo che la nuvola solleva. dove
l’umanità è appesa con lo stesso morso
a ogni latitudine. appesi ai cipressi, ai nomi, alle date
all’illusione della freccia che scortica l’albero.
che nessuno sa se non in rigurgito
sonnolento o leggendario di vocali, polvere
caduta alla terra di unghie rosicchiate.
tu e io siamo così capaci e invisibili all’amore
che lì tutto ci sarà familiare e scoperto
e avremo ogni tempo, ogni anno finalmente
ogni principio di novecento



III

né linea più fedele all’orizzonte.
il palmo stellare preme il muro
sui secoli di pietra. striscia la lucertola
le lancette dell’Immobile Afono
l’eterno movimento che conosce.
tutti riavvolti i respiri degli animali.
i muri d’oriente appiccicano i nomi
gli anni le storie gli attrezzi i vestiti
sui muri gialli presi ostaggi che il sole
avrà. il ferro alla terrazza
il geranio orfano d’aria puntato
alla domanda scomposta del gatto
uno scalcio d’amnio innaturale
attutito da altri mondi in mezzo
dal silenzio pieno che verrà.
tutto resiste al sinistro rombo di vento
venturo. la colomba appollaiata in cielo
l’ultimo sorriso la cenere bianca
l’ultima sillaba gracchiata sul marmo.

domenica 27 agosto 2006

arte e vita


‹‹"È compito (magari superstite) / della poesia contestare strangolare calpestare" (R. Roversi)

"Terzo: / hai il diritto di parlare liberamente / finché non sarai abbastanza stupido / da provarci davvero" (The Clash)

[...] ciò che più caratterizza il selvaggio rispetto alla letteratura è proprio il rapporto instaurato tra quest'ultima e la vita. Un rapporto che la critica non si è ancora preoccupata di stu­diare trattandolo con sufficienza. Infatti, mentre per la "let­teratura-istituzione", come la chiama A. Guglielmi, questa strada critica coincide al massimo con il biografismo — non ci può essere rapporto arte/vita con individui che passano la vita a scrivere o che vivono in funzione della scrittura —, per la lette­ratura antagonista questo rapporto diventa fondamentale, è il vero nutrimento dell'opera. Che del resto ci sia insofferenza o atteggiamenti da "non capisco" su questo tema è facilmente di­mostrabile. I pochi non selvaggi che hanno agitato il problema non sono stati presi molto sul serio. Penso a Balzen, Penna, Roversi, Zavattini, Pasolini, Majorino. Pochi riconoscono ad esempio che questa frase di Balzen ("Un tizio vive e fa bei versi. Ma se un tizio non vive per fare bei ver­si, come sono brutti i versi del tizio che non vive per fare bei versi".) non è uno scioglilingua, ma un concetto che sottende una scelta, di vita, di stile, di scrittura, e sovverte canoni e rego­le interpretative. Questo perché la società letteraria è così lontana dalla vita, snobisticamente lontana, da guardarla con sufficienza dall'alto per paura di sporcarsi di terra, di fango...››
Claudio Galuzzi (1957-1998) in abiti-lavoro, quaderni stagionali di letteratura operaia, 1986, n.10, p.627

giovedì 24 agosto 2006

TELLUS folio


Se andate nell'indirizzo linkato, troverete una rubrica intitolata"Poesia & Blog": ogni due o tre settimane sarà arricchita di nuove presentazioni. Benvenuti.

mercoledì 23 agosto 2006

kesa funzō-e


In origine, per preparare l’abito che li ricopre, i monaci buddisti ‹‹raccoglievano per la strada pezzi di tessuto di scarto, stracci luridi o sudari, li lavavano, li tingevano e li cuciva­no insieme con piccoli punti allineati e fitti (distanti 2-3 millimetri uno dal­l'altro), secondo un disegno che ricor­da i campi di riso. È così che ancora oggi si prepara il ke­sa funzō-e (lett. "abito-escremento"), considerato tra tutti il più prezioso. Se lo zazen è ciò che abbraccia le infinite contraddizioni dell'esistenza trasfor­mandole nella pura mente dell'Illuminazione, il kesa funzō-e, ricavato da ciò che c'è di più sporco e rifiutato da tutti, trasforma stracci e pezze im­monde nell'oggetto di fede più sacro, simbolo stesso della purezza originale del Sé››
(Guida allo Zen, a cura della Associazione Italiana Zen Sōtō, De Vecchi Ed., MI 1991, p.129)

martedì 22 agosto 2006

Mario Benedetti


Visto che poco sotto si nominava Scarto minimo, dal n.4 del dicembre 1988 riprendo questo bellissimo testo di Mario Benedetti.


Finché Nadine è qui nei suoi occhi ci sono altri alberi, poi ritornano nei boschi e un'altra vita non basta a guardarli. Ma non c'erano cose nella sua contentezza. Io invece sono arrivato al cortile. Le donne morte ritornano con il catino dell'acqua. Le guardo ed è la forza di rispondere: muoio adesso anch'io, com'è possibile in ogni momento per chi è assolutamente indifeso. Un ragazzo che urla dai ve­tri agli amici ma non si ode nulla. Parlano degli anni trenta come contassero gli anni e non per ve­derci come saremmo potuti essere. Il caffelatte è una cosa nella tazza ma io non ho niente da scoprire. Vorrei che fosse possibile dire: finché il senso non viene restiamo qui, finché non verrà più, tra quello che sappiamo, a noi non accadrà più nulla. A volte vorresti... / Io non so dove tutti gli uomini / ridono insieme / qui costruisco qualcosa dove tutti / posso­no / finire dopo tanto di esistere / ... Oggi abbiamo mangiato poco. Dove vuoi che ti por­ti la notte? Guardo la finestra, la sua luce. A volte l'allontano in tante immagini, a volte resto di fron­te. Sento che potrei essere qualcos'altro. Posso dire: luce, piangi tu per me. E vedo la luce piangere. Posso farlo. Nessuno dice di no, nessun altro è qui.

Non gli uomini o non questi, non questo
dell'uomo.
O come fosse la vita
eternamente.
Ma è la vita
oscura.
Il viso,
quando mi guardi e sai
che non saremo più,
piccolo e castano nella sua paura.

domenica 20 agosto 2006

ClanDestino


Dal numero 3, maggio/giugno 1989, riporto un commento di Davide Rondoni sulla situazione delle riviste poetiche italiane del tempo. Consiglio di leggere gli atti del convegno fiorentino del 2005 "Poesia: il futuro cerca il futuro" (Lietocolle 2006), per verificare che cosa è cambiato.


Serata di storia minore?

Polena, Poesia, Lengua, Margo, Bloc Notes, Schema, Steve, Anterem, Diverse Lingue, Scarto Minimo, Uomini e Libri, Hellas, Poeticamente, Feeria, Gli immediati dintorni... Molte le riviste invitate e intervenute in Milano all'incontro pro­mosso da Schema, con i fondi dell'Istituto per il Diritto allo Stu­dio Universitario.
A flashes si sono succeduti i redattori sul banco. Molte le con­cessioni al «solito lamento» e le oscillazioni tra non-chalance e retorica in un discorrere che è parso a tratti così irrimediabil­mente «fissato» e dejà vu nel suo ruolo di discorso sulla-nella-per la poesia.
Non sono mancati soprassalti (la breve e sciancata commemo­razione di Spatola: «È corso verso il disastro con il suo Tam Tam») né inquietudini: (i ragazzi di Scarto Minimo che dicono: «Ci interessa l'insensatezza. Solo la nostra morte ci interessa sia vissuta. È un'estetica dell'indifferenza») né momenti di quel pa­thos che si rovescia in ironia per ritrovarsi infine tragedia (al­lorché [Franco] Manzoni di Schema terminava invitando a scendere in piazza a difendere la poesia italiana).
Taluni interventi hanno incuriosito di più - ed è già molto in serate come queste. Inquietante, dicevamo, l'intervento di Scarto Minimo, ove il porre a sfondo la propria morte segna un'asso­luta profondità e un'assoluta possibilità di gioco. Precisi e ap­passionati Franco Loi (Lengua e Diverse Lìngue) Isella (Bloc Notes) Bertoni (il verri e gli immediati dintorni) Mezzasalma e i suoi allievi (Hellas e Feeria) nel dare le ragioni di partenza e lo status problematico del loro lavoro. Più a loro agio, attori consumati di questi «teatri»: Manzoni (Schema) Sitta (Steve) Giò Ferri (Anterem) e, tutto sommato, anche Cucchi neo-Direttore della rivista di «divulgazione alta» (la definizione è sua) Poesia, di Crocetti. Il Divulgatore ha illu­strato diligentemente le rubriche della rivista, con il medesimo tono uniforme che rischia di ingrigirla. Umberto Piersanti, in uno spigliato e documentato intervento, ha descritto la vittoria dell'«oralità di provincia» su tutti gli al­tri tentativi di diffusione della poesia in Italia. Protagonisti di una storia minore? E quella maggiore dove si svolge, negli ipersaloni, negli inserti delle gazzette, o nelle «ti­rate» dei mattatori?
La storia (cioè gli atti, le decisioni) della poesia si svolge in que­ste o in altre stanze, o non si svolge perché è divenuta rito e com­mercio, conferenza e colloquio - neppur più vero litigio... O non è storia?
Protagonisti di una storia senza decisioni (anzi senza Decisio­ne) gerarchizzata, ove varietà fa rima con immobilità, e pare che v'abbia qualcosa da vincere mentre v'è solo perdita, e per­fino della parola stessa; perdita specie per chi oggi «decide» di stare nella carne e nel quotidiano e non nella parola e nel periodico.
Si sono presentati molteplici punti di vista in quella serata, e pur in quasi tutti mancava la storia - non già come discorso o «valore» - ma come decisione. V'era un'improbabile storia del­la poesia entro cui inserire la propria storia particolare. Vuoto nel vuoto, con il rischio atroce di conferire valore vago e asso­luto all'indefinibile poesia, come sapienza e valore da servire, da condividere e da divulgare.
È meglio che taccia una poesia che non è atto (pur tragico) e decisione nella storia; meglio che celebrare riti, oggi più consi­derati dai media e dagli sponsor. Si tradirebbe di meno e meno guasto si farebbe dinanzi alla vita e ai giorni che tiriamo tra han­gar e partiti, città di pulsar e d'ombre, ospizi e balbettanti colline.

venerdì 18 agosto 2006

Salvatore Toma (1951 - 1987)


Scrive Antonio Errico: “Questo era per Toma la poesia. Non era il salotto della vecchia o nuova borghesia finto-intellettuale, i gruppi mascherati da poeti, il bitter con le olive al bar del centro, il libro come tessera dell’exclusive club. Era solitudine, bere solitario, un gioco di dadi, l’azzardo, lo stupore, il conoscere cose orrende, meravigliose, senza fondo; ed era l’ironico dire di sé “a Great Poet”, la consapevolezza triste che poeti si nasce e a volte non si finisce. [...] Quando Toma morì corse voce di un suicidio. Perché sembrava un gesto naturale, la fedeltà ad un’idea, la conclusione perfetta di una poesia. Il personaggio si prestava a questa voce. Le sue radicalità esistenziali, le roventi sue dichiarazioni di poetica, quel suo scrivere il senso del vivere con parole vere, crude, essenziali, senza mascheramenti, senza paure per la verità che gli si denudava davanti impietosa e impudica, davano una concretezza, una fisicità a questa voce. Di suicidio parla anche Maria Corti nell’introduzione al Canzoniere della morte, l’antologia pubblicata da Einaudi nel novantanove. Ma Salvatore Toma non si è suicidato [...] è morto per lo squarcio che l’alcool gli aveva aperto nel corpo.”


Ultima lettera di un suicida modello

A questo punto
cercate di non rompermi i coglioni
anche da morto.
È un innato modo di fare
questo mio non accettare
di esistere.
Non state a riesumarmi dunque
con la forza delle vostre certezze
o piuttosto a giustificarvi
che chi s'ammazza è un vigliacco:
a creare progettare ed approvare
la propria morte ci vuole coraggio!
Ci vuole il tempo
che a voi fa paura.
Farsi fuori è un modo di vivere
finalmente a modo proprio
a modo vero.
Perciò non state ad inventarvi
fandonie psicologiche
sul mio conto o crisi esistenziali
da manie di persecuzione
per motivi di comodo
e di non colpevolezza.
Ci rivedremo
ci rivedremo senz'altro
e ne riparleremo...
Addio bastardi maledetti
vermi immondi
addio noiosi assassini.



(a scanso di equivoci vorrei rassicurare gli amici: va tutto bene :-)

mercoledì 16 agosto 2006

Danilo Dolci


non è un ramo la città terrestre
cui fiorisce cristallo da cristallo
ramaglia stalattitica;
né un ramo di rami assorbenti
per capillari vene -
o arcipelago
di mandorle chiuse a isterilirsi:

fluire e rifluire
in linfe e voli -
e il centro
è nella terra

(Danilo Dolci, Creatura di creature. Poesie 1949-1978, Feltrinelli 1979)

Questa poesia, Dolci la dedica a Johan Galtung, pacifista di grande spessore. Una poesia per la pace, dunque, che nomina la mobilità dell'albero e del sangue, dei cristalli e dei mandorli in boccio, il fluire della linfa vitale nella città terrestre, dove "terrestre" dice la forza plurale di ogni città che voglia salvarsi con le proprie forze, a partire dalla non-violenza di Galtung, ghandiano, e dall'operosità di Danilo Dolci, esempio per le società aperte e per i loro nemici.

lunedì 14 agosto 2006

Montenegro tour


Il lago di Scutari confina con l’Albania. Venendo dalle Bocche del Cattaro, si percorre una stradina che attraversa un centinaio di chilometri in quota, tutta a seni e a golfi direbbe l’Alessandro, ed infine si gode questo panorama (le zanzare non si vedono).


Il fiume Tara segna il confine culturale fra Montenegro e Serbia. Il suo canyon misura sino a 1300 metri di profondità: è il secondo al mondo. Nelle vicinanze vi abita il monaco Gregorio, serbo-ortodosso, con il quale abbiamo passato la mattinata a parlare, in francese, della malattia di Fidel (e di quella metafisica del comunismo) e a bere slivovitz. Come si vede, mio figlio Elia era molto interessato alla conversazione.



Sotto, invece, siamo nell'altopiano del Durmitor, a nord-ovest del Montenegro. Come in gran parte dei paesi slavi, anche qui, nel basso medioevo, vissero comunità eretiche bogomile, che stavano sulla linea che collega teologicamente il manicheismo ai Catari. Ecco, probabilmente, due tombe.



Un altro scorcio del Durmitor: una piana infinita, abitata da pastori e villeggianti serbi, con pochi sentieri segnati e grande spazio per l'immaginazione.


sabato 12 agosto 2006

festival di poesia


Un commento dantan (1980) al rito pagano dei festival poetici: quello di Pier Vittorio Tondelli (in Un week end postmoderno, Bompiani 1990)


‹‹Nel bellissimo anfiteatro di Piazza di Siena, fra festoni spioventi di luci colorate e cascate al neon e gazebo fluorescenti, si sta svol­gendo il secondo festival internazionale dei poeti, seguito ideale delle tre giornate di Castelporziano dello scorso anno, dove, tra mi­nestroni creativi, poesie spontanee e marginali e dagli abissi, cedi­mento dei palchi, streaking, canti indiani, contestazioni più o meno violente, presenze dei santoni della beat generation, si consumò un grande happening culturale, la festa della creatività diffusa, forse l'ultimo momento collettivo e impegnato del cosiddetto "Movimento". In quei giorni, alcune migliaia di giovani e di intellettuali di ogni razza e tribù convissero su una spiaggia e attorno a un palco per celebrare il rito della poesia. Oggi invece a quella spettacolarità quotidiana che si alzava il mattino presto, anzi, nemmeno se ne an­dava a dormire, si è sostituito un dopocena letterario o, per essere precisi, un dessert culturale a sorpresa, visto che a Piazza di Siena gli organizzatori, il comune di Roma e l'associazione Beat 72, hanno infilato non solo letture pubbliche di poesia, ma pure incon­tri di astrofisica, concerti di musica indiana, spettacoli con Benigni, Tognazzi, Villaggio, per approdare infine, il 31 luglio, a ciò cui tutto approda, cioè l'Alighieri Dante: il team Leo e Perla che ese­guirà, oilalà, il trentatreesimo canto dell'Inferno.
Risulta evidente che non si potrà, durante queste giornate, par­lare di ciò che si muove sul piazzale della poesia, fissare percorsi, ri­ciclare scuole, indirizzi e codici postali, ma soltanto raccontare di come oggi, in questo momento, anche la poesia sia investita da un furore carnevalesco e, quindi, anch'essa partecipi, con modi suoi, a un più generale progetto di "spettacolarizzazione del lavoro cultu­rale". [...] Già un'ora prima dell'inizio c'è un nevrotico viavai, su e giù dalla scaletta. Si stanno decidendo i turni di lettura e il programma. I poeti si litigano la successione e girano con fogliettini di carta grandi come biglietti del metrò. Dalla platea sembra di assistere a una tombolata, perché l'organizzatore li estrae di saccoccia e non finisce più. Giuseppe Conte intanto ("Serpente orfico" lo chiamerà, con de­vota ironia, Valentino Zeichen presentandolo al pubblico) passeg­gia nervosamente in compagnia di Mario Baudino. Gli faccio un cenno, chiedo che cosa pensa del festival, come si sente. Il discorso cade su Castelporziano. "Là era una cosa molto diversa," afferma. "Il problema è tutto nel cercare una tensione fisica ed emotiva, una vibrazione collettiva. Io preferisco allora le letture con quaranta, cinquanta persone. Qui è praticamente impossibile far nascere un'armonia." [...]
E chiaro che Giuseppe Conte, con tutto il suo dannunzianesimo e il suo amore per i deliri alla D.H. Lawrence, non può essere così tranquillo sul palco a leggere in mille watt ciò che probabilmente ha creato in silenzio, a urlare in faccia a un pubblico già scaldato da tre, quattro poetesse, la sua Ballata del­l'Isola della Tartaruga. È uno dei tanti grovigli di senso di questo fe­stival che piazza davanti allo stesso microfono poeti dal sound bel­lissimo (come tutti gli americani), poeti dal sound difficilissimo (come, in generale, gli italiani) e poeti che proprio non ricercano minimamente questo aspetto della parola parlata, ma contemplano unicamente la visualità della parola scritta.
Molto più a suo agio Adriano Spatola, ormai collaudato a questo genere di esibizioni. Inizia le sue declamazioni con il poema Oca­rina. Il pubblico ridacchia, ma non sa che cosa l'aspetta. Infatti Spa­tola inizia a ululare e a far bau bau come un coyote e stropicciarsi l'ugola mentre un suo socio spiffera dentro l'ocarina (di Budrio, na­turalmente) solo alcune, iterative, note. Il pubblico assiste per­plesso. E questo è un poeta? Seguono poesie per Ulrike Meinhoff e composizioni che fino a poco tempo fa si chiamavano "poemi ci­vili". Gli spettatori tirano un sospiro di sollievo. Un po' di ideolo­gia, di belle parole, di indignazione politica, di ribellione. E invece Spatola riprende con gli "uauaaaah!" e "blaaaaahhh". Finalmente gli ascoltatori capiscono il personaggio e iniziano a divertirsi: ridac­chiano, applaudono e dimostrano, in questo modo, ciò che già da tempo si sapeva, e cioè che la poesia di Spatola, la sua ricerca fone­tica e vocale, è in grado di reggere qualsìasi platea proprio per la sua natura di divertissement, di astuto e comico gioco sonoro. E Spatola sa benissimo tutto ciò. E fa il puttanone come quelle rockstar che, conoscendo il loro successo, riservano a fine concerto il pezzo più celebre per gettare in delirio i fan già surriscaldati, e non appena attaccano il motivo tutti a urlare e a stracciarsi le vesti. Così fa Spatola quando, sornionamente, dice: "Concluderò con una co­sina che forse alcuni di voi conoscono... Aviateur Aviation." Al che tutti: "Ci siamo!" Scattiamo in piedi ad ascoltare la sua voce chioc­cia che romba e spara e s'inarca a inseguire l'utopico spettro seman­tico dell'espressione, a evocare, con giri di lingua, stirature di gola, magoni d'aria e rutti di panza, il rombo di ciò che è semplicemente convenzione linguistica. Lo Spatola prende fiato, si fa rosso e co­mincia: "A-a-a-a viation... Avia-a-a teuurrrrrrr-vrom vrom mmmm- mmmmm [risalita] crock-crack [cedimento] ta-ta-tta [guerra aerea]" Poeta d'avanguardia? Cabarettista? Attore? Lestofante? No. Sem­plicemente Adriano Spatola.
Uguale trionfo non tocca a un altro poeta sonoro, il professor Ar­rigo Lora-Totino che si presenta indossando una calzamaglia nera e recita, con corpo-voce, alcuni testi futuristi. Il pubblico non gradi­sce e non capisce e bombarda con bucce d'anguria, e quando l'eco-proiettile raggiunge il poeta e si spacca sul suo corpo con il rosso dell'anguria che schizza e le gocce d'acqua che brillano in contro­luce, è davvero un coup de théâtre. Tutti applaudono e cercano il bis, cosicché sembra che si stia facendo il tiro al piccione e non ascoltando il più grande esperto di poesia fonetica, il miglior decla­matore della poesia delle avanguardie storiche. Dovevate essere a Correggio un anno fa, a sentirlo, una ventina di persone, e lui che s'agitava e rombava e arrancava ogni parola come se fosse una massa fìsica, davvero okay (e ci fece ascoltare persino una registrazione radiofonica, l'unica, della voce di Antonin Artaud)... Va be', le contestazioni non hanno mai ammazzato nessuno. La serata di poesia procede con i lieti arrivi di Alberto Moravia ed Enzo Sici­liano. Si succedono sul palco altri trenta, quaranta poeti che, un po' stancamente, col pubblico che scivola via, raggiungono le ore pic­cole. E la nottata finisce con l'occupazione del palcoscenico da parte dei soliti freak che cantano, declamano e gesticolano le pa­gine dei loro diari o, peggio, quelle brevi frasi smozzicate che, per quasi tutto il decennio appena passato, si sono messe addosso il nome di "poesia"››

martedì 8 agosto 2006

Giulia Niccolai

Come unire aria di vacanza, Armenia e poesia? Negli anni Settanta, Giulia Niccolai scrisse alcuni versi dedicati ad Adriano Spatola, suo compagno, e a Charles Aznavour, il quale, negli anni Sessanta, aveva scritto una canzone dal titolo "Com'è triste Venezia":




Igea travagliato
trento, treviso trieste
di disgrazia in disgrazia
fino a Pomezia.
Como trieste Venezia...