Un commento dantan (1980) al rito pagano dei festival poetici: quello di Pier Vittorio Tondelli (in Un week end postmoderno, Bompiani 1990)
‹‹Nel bellissimo anfiteatro di Piazza di Siena, fra festoni spioventi di luci colorate e cascate al neon e gazebo fluorescenti, si sta svolgendo il secondo festival internazionale dei poeti, seguito ideale delle tre giornate di Castelporziano dello scorso anno, dove, tra minestroni creativi, poesie spontanee e marginali e dagli abissi, cedimento dei palchi, streaking, canti indiani, contestazioni più o meno violente, presenze dei santoni della beat generation, si consumò un grande happening culturale, la festa della creatività diffusa, forse l'ultimo momento collettivo e impegnato del cosiddetto "Movimento". In quei giorni, alcune migliaia di giovani e di intellettuali di ogni razza e tribù convissero su una spiaggia e attorno a un palco per celebrare il rito della poesia. Oggi invece a quella spettacolarità quotidiana che si alzava il mattino presto, anzi, nemmeno se ne andava a dormire, si è sostituito un dopocena letterario o, per essere precisi, un dessert culturale a sorpresa, visto che a Piazza di Siena gli organizzatori, il comune di Roma e l'associazione Beat 72, hanno infilato non solo letture pubbliche di poesia, ma pure incontri di astrofisica, concerti di musica indiana, spettacoli con Benigni, Tognazzi, Villaggio, per approdare infine, il 31 luglio, a ciò cui tutto approda, cioè l'Alighieri Dante: il team Leo e Perla che eseguirà, oilalà, il trentatreesimo canto dell'Inferno.
Risulta evidente che non si potrà, durante queste giornate, parlare di ciò che si muove sul piazzale della poesia, fissare percorsi, riciclare scuole, indirizzi e codici postali, ma soltanto raccontare di come oggi, in questo momento, anche la poesia sia investita da un furore carnevalesco e, quindi, anch'essa partecipi, con modi suoi, a un più generale progetto di "spettacolarizzazione del lavoro culturale". [...] Già un'ora prima dell'inizio c'è un nevrotico viavai, su e giù dalla scaletta. Si stanno decidendo i turni di lettura e il programma. I poeti si litigano la successione e girano con fogliettini di carta grandi come biglietti del metrò. Dalla platea sembra di assistere a una tombolata, perché l'organizzatore li estrae di saccoccia e non finisce più. Giuseppe Conte intanto ("Serpente orfico" lo chiamerà, con devota ironia, Valentino Zeichen presentandolo al pubblico) passeggia nervosamente in compagnia di Mario Baudino. Gli faccio un cenno, chiedo che cosa pensa del festival, come si sente. Il discorso cade su Castelporziano. "Là era una cosa molto diversa," afferma. "Il problema è tutto nel cercare una tensione fisica ed emotiva, una vibrazione collettiva. Io preferisco allora le letture con quaranta, cinquanta persone. Qui è praticamente impossibile far nascere un'armonia." [...]
E chiaro che Giuseppe Conte, con tutto il suo dannunzianesimo e il suo amore per i deliri alla D.H. Lawrence, non può essere così tranquillo sul palco a leggere in mille watt ciò che probabilmente ha creato in silenzio, a urlare in faccia a un pubblico già scaldato da tre, quattro poetesse, la sua Ballata dell'Isola della Tartaruga. È uno dei tanti grovigli di senso di questo festival che piazza davanti allo stesso microfono poeti dal sound bellissimo (come tutti gli americani), poeti dal sound difficilissimo (come, in generale, gli italiani) e poeti che proprio non ricercano minimamente questo aspetto della parola parlata, ma contemplano unicamente la visualità della parola scritta.
Molto più a suo agio Adriano Spatola, ormai collaudato a questo genere di esibizioni. Inizia le sue declamazioni con il poema Ocarina. Il pubblico ridacchia, ma non sa che cosa l'aspetta. Infatti Spatola inizia a ululare e a far bau bau come un coyote e stropicciarsi l'ugola mentre un suo socio spiffera dentro l'ocarina (di Budrio, naturalmente) solo alcune, iterative, note. Il pubblico assiste perplesso. E questo è un poeta? Seguono poesie per Ulrike Meinhoff e composizioni che fino a poco tempo fa si chiamavano "poemi civili". Gli spettatori tirano un sospiro di sollievo. Un po' di ideologia, di belle parole, di indignazione politica, di ribellione. E invece Spatola riprende con gli "uauaaaah!" e "blaaaaahhh". Finalmente gli ascoltatori capiscono il personaggio e iniziano a divertirsi: ridacchiano, applaudono e dimostrano, in questo modo, ciò che già da tempo si sapeva, e cioè che la poesia di Spatola, la sua ricerca fonetica e vocale, è in grado di reggere qualsìasi platea proprio per la sua natura di divertissement, di astuto e comico gioco sonoro. E Spatola sa benissimo tutto ciò. E fa il puttanone come quelle rockstar che, conoscendo il loro successo, riservano a fine concerto il pezzo più celebre per gettare in delirio i fan già surriscaldati, e non appena attaccano il motivo tutti a urlare e a stracciarsi le vesti. Così fa Spatola quando, sornionamente, dice: "Concluderò con una cosina che forse alcuni di voi conoscono... Aviateur Aviation." Al che tutti: "Ci siamo!" Scattiamo in piedi ad ascoltare la sua voce chioccia che romba e spara e s'inarca a inseguire l'utopico spettro semantico dell'espressione, a evocare, con giri di lingua, stirature di gola, magoni d'aria e rutti di panza, il rombo di ciò che è semplicemente convenzione linguistica. Lo Spatola prende fiato, si fa rosso e comincia: "A-a-a-a viation... Avia-a-a teuurrrrrrr-vrom vrom mmmm- mmmmm [risalita] crock-crack [cedimento] ta-ta-tta [guerra aerea]" Poeta d'avanguardia? Cabarettista? Attore? Lestofante? No. Semplicemente Adriano Spatola.
Uguale trionfo non tocca a un altro poeta sonoro, il professor Arrigo Lora-Totino che si presenta indossando una calzamaglia nera e recita, con corpo-voce, alcuni testi futuristi. Il pubblico non gradisce e non capisce e bombarda con bucce d'anguria, e quando l'eco-proiettile raggiunge il poeta e si spacca sul suo corpo con il rosso dell'anguria che schizza e le gocce d'acqua che brillano in controluce, è davvero un coup de théâtre. Tutti applaudono e cercano il bis, cosicché sembra che si stia facendo il tiro al piccione e non ascoltando il più grande esperto di poesia fonetica, il miglior declamatore della poesia delle avanguardie storiche. Dovevate essere a Correggio un anno fa, a sentirlo, una ventina di persone, e lui che s'agitava e rombava e arrancava ogni parola come se fosse una massa fìsica, davvero okay (e ci fece ascoltare persino una registrazione radiofonica, l'unica, della voce di Antonin Artaud)... Va be', le contestazioni non hanno mai ammazzato nessuno. La serata di poesia procede con i lieti arrivi di Alberto Moravia ed Enzo Siciliano. Si succedono sul palco altri trenta, quaranta poeti che, un po' stancamente, col pubblico che scivola via, raggiungono le ore piccole. E la nottata finisce con l'occupazione del palcoscenico da parte dei soliti freak che cantano, declamano e gesticolano le pagine dei loro diari o, peggio, quelle brevi frasi smozzicate che, per quasi tutto il decennio appena passato, si sono messe addosso il nome di "poesia"››
Risulta evidente che non si potrà, durante queste giornate, parlare di ciò che si muove sul piazzale della poesia, fissare percorsi, riciclare scuole, indirizzi e codici postali, ma soltanto raccontare di come oggi, in questo momento, anche la poesia sia investita da un furore carnevalesco e, quindi, anch'essa partecipi, con modi suoi, a un più generale progetto di "spettacolarizzazione del lavoro culturale". [...] Già un'ora prima dell'inizio c'è un nevrotico viavai, su e giù dalla scaletta. Si stanno decidendo i turni di lettura e il programma. I poeti si litigano la successione e girano con fogliettini di carta grandi come biglietti del metrò. Dalla platea sembra di assistere a una tombolata, perché l'organizzatore li estrae di saccoccia e non finisce più. Giuseppe Conte intanto ("Serpente orfico" lo chiamerà, con devota ironia, Valentino Zeichen presentandolo al pubblico) passeggia nervosamente in compagnia di Mario Baudino. Gli faccio un cenno, chiedo che cosa pensa del festival, come si sente. Il discorso cade su Castelporziano. "Là era una cosa molto diversa," afferma. "Il problema è tutto nel cercare una tensione fisica ed emotiva, una vibrazione collettiva. Io preferisco allora le letture con quaranta, cinquanta persone. Qui è praticamente impossibile far nascere un'armonia." [...]
E chiaro che Giuseppe Conte, con tutto il suo dannunzianesimo e il suo amore per i deliri alla D.H. Lawrence, non può essere così tranquillo sul palco a leggere in mille watt ciò che probabilmente ha creato in silenzio, a urlare in faccia a un pubblico già scaldato da tre, quattro poetesse, la sua Ballata dell'Isola della Tartaruga. È uno dei tanti grovigli di senso di questo festival che piazza davanti allo stesso microfono poeti dal sound bellissimo (come tutti gli americani), poeti dal sound difficilissimo (come, in generale, gli italiani) e poeti che proprio non ricercano minimamente questo aspetto della parola parlata, ma contemplano unicamente la visualità della parola scritta.
Molto più a suo agio Adriano Spatola, ormai collaudato a questo genere di esibizioni. Inizia le sue declamazioni con il poema Ocarina. Il pubblico ridacchia, ma non sa che cosa l'aspetta. Infatti Spatola inizia a ululare e a far bau bau come un coyote e stropicciarsi l'ugola mentre un suo socio spiffera dentro l'ocarina (di Budrio, naturalmente) solo alcune, iterative, note. Il pubblico assiste perplesso. E questo è un poeta? Seguono poesie per Ulrike Meinhoff e composizioni che fino a poco tempo fa si chiamavano "poemi civili". Gli spettatori tirano un sospiro di sollievo. Un po' di ideologia, di belle parole, di indignazione politica, di ribellione. E invece Spatola riprende con gli "uauaaaah!" e "blaaaaahhh". Finalmente gli ascoltatori capiscono il personaggio e iniziano a divertirsi: ridacchiano, applaudono e dimostrano, in questo modo, ciò che già da tempo si sapeva, e cioè che la poesia di Spatola, la sua ricerca fonetica e vocale, è in grado di reggere qualsìasi platea proprio per la sua natura di divertissement, di astuto e comico gioco sonoro. E Spatola sa benissimo tutto ciò. E fa il puttanone come quelle rockstar che, conoscendo il loro successo, riservano a fine concerto il pezzo più celebre per gettare in delirio i fan già surriscaldati, e non appena attaccano il motivo tutti a urlare e a stracciarsi le vesti. Così fa Spatola quando, sornionamente, dice: "Concluderò con una cosina che forse alcuni di voi conoscono... Aviateur Aviation." Al che tutti: "Ci siamo!" Scattiamo in piedi ad ascoltare la sua voce chioccia che romba e spara e s'inarca a inseguire l'utopico spettro semantico dell'espressione, a evocare, con giri di lingua, stirature di gola, magoni d'aria e rutti di panza, il rombo di ciò che è semplicemente convenzione linguistica. Lo Spatola prende fiato, si fa rosso e comincia: "A-a-a-a viation... Avia-a-a teuurrrrrrr-vrom vrom mmmm- mmmmm [risalita] crock-crack [cedimento] ta-ta-tta [guerra aerea]" Poeta d'avanguardia? Cabarettista? Attore? Lestofante? No. Semplicemente Adriano Spatola.
Uguale trionfo non tocca a un altro poeta sonoro, il professor Arrigo Lora-Totino che si presenta indossando una calzamaglia nera e recita, con corpo-voce, alcuni testi futuristi. Il pubblico non gradisce e non capisce e bombarda con bucce d'anguria, e quando l'eco-proiettile raggiunge il poeta e si spacca sul suo corpo con il rosso dell'anguria che schizza e le gocce d'acqua che brillano in controluce, è davvero un coup de théâtre. Tutti applaudono e cercano il bis, cosicché sembra che si stia facendo il tiro al piccione e non ascoltando il più grande esperto di poesia fonetica, il miglior declamatore della poesia delle avanguardie storiche. Dovevate essere a Correggio un anno fa, a sentirlo, una ventina di persone, e lui che s'agitava e rombava e arrancava ogni parola come se fosse una massa fìsica, davvero okay (e ci fece ascoltare persino una registrazione radiofonica, l'unica, della voce di Antonin Artaud)... Va be', le contestazioni non hanno mai ammazzato nessuno. La serata di poesia procede con i lieti arrivi di Alberto Moravia ed Enzo Siciliano. Si succedono sul palco altri trenta, quaranta poeti che, un po' stancamente, col pubblico che scivola via, raggiungono le ore piccole. E la nottata finisce con l'occupazione del palcoscenico da parte dei soliti freak che cantano, declamano e gesticolano le pagine dei loro diari o, peggio, quelle brevi frasi smozzicate che, per quasi tutto il decennio appena passato, si sono messe addosso il nome di "poesia"››
fare poesia è bellissimo, stare insieme è significativo per l'essere (poetico) come per l'essere (prosastico). I festival dovrebbero essere spunti di vicinanza sia culturale sia conviviale. Gli italiani riescono con il loro bieco cinismo a rendere grottesco ogni evento collettivo, ad imbruttirlo, imbrattarlo e volgarizzarlo. Non è l'evento in sé del festival poetico ad essere vuoto di senso, fatuo: è ilmodo in cui lo riduce lo sprezzo italico, lo snobismo dei frustrati, che è il male peggiore. Questo rende tristi. (erminia)
RispondiEliminaproprio ieri leggevo su carmilla questo:
RispondiEliminahttp://www.carmillaonline.com/archives/2006/07/001851.html#001851
che strane coincidenze! a.
http://www.carmillaonline.com/archi
RispondiEliminaves/2006/07/001851.html#001851
no, ora che ci penso nessuna coincidenza, se ne parlava da erminia e sono andata a cercare. che delusione, mi piacciono le coincidenze. a.
RispondiEliminaoddio ragazzi, il 31 vado un attimo fino a Ostia (Roma)a un festival di poesia come ospite e devo adesso pure temere che sarà come i festival sul modello di questo testo di PV Tondelli, una saga di pazzi, saltibanchi, guitti e giullari?
RispondiEliminasopra ero io, (erm.)
RispondiEliminami sa ch hai ragione, erminia: non c'è gusto in italia ad essere intelligenti:-)
RispondiEliminaa parte la citazione (skiantos), è vero che il pubblico di piazza tende ad essere "brutto".
anto, le coincidenze meglio non perderle alla stazione; per il resto. è tutta una storia di forze da indagare.
si diventa subito oggetto di ridicolo e invidia....(e la gente si fa la guerra, una piccola guerra, invece di collaborare e sorridere....)
RispondiEliminaio oltre ad avere capacità poetica zero, ho anche capacità attoriale zero, dunque sarei un ottimo performer di aria fritta :D
RispondiEliminaci sono molti performers di aria fritta; anzi spesso si diventa performer per supplire ciò che manca. ovviamente non è sempre così.
RispondiEliminaè un testo davvero bello questo, e pericolosamente vero: sono contento che tu stefano lo abbia recuperato, e me lo abbia fatto scoprire. credo che anche questo faccia parte del dialogo e dell'importanza del blog, fare conoscere testi anche di riviste introvabili, insomma, fare conoscere. mica poco. credo che qualche testo introvabile prossimamente lo metterò anche io su UP.
RispondiEliminamatteo.
sono d'accordo con te, Matteo: la rete serve per moltiplicare le occasioni di scambio di informazioni significative. E questa di Tondelli, mi pare, lo è.
RispondiEliminaPostalo quando vuoi in UP.
ciao
grazie tante, non mancherò: qualche altro lo sto selezionando proprio in questi giorni, nemmeno si immagina anche solo a distanza di 10-15 anni cosa si vada perdendo di ad esempio tante fondamentali riviste italiane.
RispondiEliminamatteo
sulle riviste: ne ho degli anni ottanta, e mi emoziono ancora a leggere nomi che adesso non si sentono più.
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