foto di Dino Ignani
UNA MAPPA PER DECIFRARE L’INFELICITÀ
Chiama in causa la felicità per poi
subito relegarla a mera eventualità teorica, che avrebbe bisogno di riscontri
concreti e di precise condizioni, il titolo del nuovo libro di Alberto
Pellegatta (classe 1978), Ipotesi di felicità. Uscito dopo meditata gestazione per Lo Specchio di
Mondadori, collana che ha visto negli anni sfilare i nomi più rilevanti della
poesia del Novecento e di quella contemporanea – da Ungaretti a Montale, da
Sereni a Raboni, passando per gli stranieri Dickinson, Shakespeare e Auden –,
il prosimetro di Pellegatta è diviso in cinque sezioni, più un’appendice
intitolata “La salute”, contenente le poesie dal 1996 al 2011, già edite nella
plaquette Mattinata larga (LietoColle
2002) e in L’ombra della salute
(Mondadori 2011). Proprio il concetto plurisenso di salute, intrecciandosi con
quello di felicità, può costituire uno dei perni attorno a cui ruotano le
sezioni-costellazioni del libro: come per la felicità ridotta a mera ipotesi,
però, anche qui non ci troviamo di fronte allo stato di salute nella sua
pienezza, bensì a un’ombra pallida e sbiadita, formulazione che finisce per
negare ciò che afferma secondo il procedimento tipico dell’ironia.
La sezione che
dà il titolo al libro è anche la più breve e concentrata con soli sei testi, ma
di speciale densità, che hanno come scenario “l’azzurro ruffiano degli ospedali”
(p. 73) dove “la pena ha un orario di visite” (p. 74): un luogo atroce dove la
mano di un padre si tiene “in mano come un palloncino” (p. 75). La fine dell’esperienza
umana o di qualcuno a noi caro – a cui si allude senza mai nominare, per scongiurare
ogni tentazione biografica – è per ciascuno un momento tragico di bilanci e di
rimorsi. Non abbandona, tuttavia, neppure le scene più intime un’affinata
ironia esistenziale, quale cifra dell’autore, senza sottrarsi talvolta alle
tinte più scure: “Non suda per il caldo/ ma per una diagnosi sbagliata” (p. 78).
Di fronte al male, tutto diventa impossibile e il quotidiano si rovescia come
in un quadro espressionista di Salvador Dalì (“La bici si stacca da terra e
vola”, p. 78) forse a suggerire che l’unico rifugio alla mancanza di senso è la
sua negazione in radice attraverso lo stretto sentiero dell’assurdo. Cercare un’alternativa,
infatti, significa sentirsi addosso “il panico dei naufraghi” (p. 80) fino all’annegamento
finale, difficile dire quanto liberatorio. Ed è a questo punto che le parole
non reggono più e solo l’interruzione del discorso rende sopportabile il
dolore. Pudore del dire eppure, al tempo stesso, anche clausola di stile: un
preferire alla visione del film per intero il suo trailer fatto di spezzoni, immagini, allusioni per lasciare alla
mente di ciascuno infinti possibili completamenti. A tale osservazione sullo
stile fa eco un’altra, di poco precedente, che spinge oltre l’asciugarsi di
ogni forma: “Senza verbi/ funzionerebbe lo stesso, puro stile senza significato”
(p. 74), ripresa con variatio nella
seconda sezione (“Come scriveremo tra decenni – in codice, senza verbi –”, p.
32).
Solo dopo esserci
accostati al nucleo centrale, è possibile ora riaffacciarsi alle altre parti
del libro, rispettandone l’ordine espositivo, ma tenendo altresì a mente che
esse sono “autonome e parziali”, come da monito iniziale dell’autore. La prima
sezione, di nove poesie, si serve prevalentemente della sinestesia per
spiegarci cosa sia “Pensare male”: una sorta di cattività del pensiero che,
segregato nelle strutture sociali del lavoro e della dittatura della
maggioranza e in quella biologica del corpo, non scorre più, ma si contamina e
imputridisce come “due grossi pesci” (p. 11) maleodoranti nel salotto. In
questo clima angusto di doppia sorveglianza, esterna e interna, quale essenza
più autentica può assumere la poesia se non l’ozio come sottrazione al meccanismo
coercitivo? Eppure “anche la letteratura ha il suo basalto” (p. 14) – materia di cui è fatto spesso il
piedistallo delle statue – e infatti riaffiora graffiante l’ironia, constatando
come invece “altri diventano poesie pensando di essere poeti” (p. 12). Da
segnalare le due dediche di questa sezione, entrambe assai significative: al
poeta e maestro Maurizio Cucchi con un delicatissimo incipit quasi
impressionista (“Si allunga, neanche fosse inchiostro, ma rimane un ciliegio”,
p. 17) e al pittore Lorenzo Mazza con cui l’autore condivide l’arte della
disgregazione e sovrapposizione delle forme “in attesa di significare” (seguirà
quella a Mary B. Tolusso nella sezione successiva); ad esse si aggiunge una
citazione da John L. Ashbery, ponte di dialogo con la sua idea di ricerca della
felicità.
L’avvio della seconda
sezione “Fine della geografia”, che consta di undici poesie, è nel segno di una
presa di coscienza dei limiti delle risorse del pianeta, sistematicamente
violati dal sistema di produzione di beni e servizi. In “Giacomo o dell’infanzia”,
titolo di gozzaniana memoria, si mostra quanto presto sia svuotato l’idillio
del fanciullino-poeta, che precipita quasi subito nell’arido vero: “Tanto non
ci sono cose più importanti/ che spingere liquidi fuori dal corpo” (p. 26). La
sezione prosegue con un tentativo laico di ascensione (“anabasi”, in senso
interiore) che l’autore conduce attraverso la propria poesia definita “Magari
gialla, come un fiume interrato, ma potabile” (p. 27), ribaltando l’antico tòpos della fonte incontaminata dell’opera
d’arte. Forte è il richiamo montaliano all’essenzialità in “Vacanze non pagate”
(“Di quattro cose al massimo ho bisogno”, p. 29) e il poeta ligure è
esplicitamente richiamato – questa volta con riferimento alla celebre lirica “La
casa dei doganieri” – nella sorprendente “Lunga lettera a A.P.”, in cui
Pellegatta evoca le figure di due giganti del Novecento (l’altro è Sereni) con
rimandi a elementi del paesaggio divenuti per essi caratterizzanti (tracce di
animali sulla neve e robinie). L’apice di quel pessimismo che un tempo si
sarebbe detto “cosmico”, radicato e non episodico, si raggiunge forse nella
definizione di “quel fastidio tra le ghiandole che chiami pensiero” (p. 34) e nella
riflessione tranchant sull’utilità
dell’umanità intera (“Serviamo solo a consumare l’ossigeno in eccesso”, p. 34).
Notevole è senz’altro
la terza sezione di prose brevi che deriva il suo titolo “Zoologiche” dalla
centralità del mondo animale indagato con il taglio, a prima vista algido e
neutrale, del manuale tecnico-scientifico. Si tratta, tuttavia, di un’apparenza
che tradisce a sprazzi un suggestivo côté
antropomorfo (“La socievolezza del tasso è proverbiale nelle mezze stagioni, ma
si scontra con la diffusa perdita di valori”, p. 40). Il meccanismo analogico
sotteso a questi testi è rivelato dallo stesso autore con un coup de théâtre nella chiusa di “La
collera degli ermellini”, poesia dedicata contemporaneamente a Geoffrey Chaucer,
ritenuto uno dei padri della tradizione poetica anglosassone, e a Jack
Underwook, giovane promessa della poesia british
(Faber nel 2015 ha pubblicato la sua prima raccolta intitolata, non
casualmente, Happiness) quasi a delimitare
l’inizio e la fine di un ciclo. Altrove, nella medesima sezione, l’autore,
senza declassare il registro, lo tende anzi al punto da ottenere un vero
effetto “comico”: ciò accade, per esempio, con l’uomo-rana che “in ufficio
gonfia il petto e salta da un argomento all’altro” (p. 42) o con l’uomo-orso il
quale “pur essendo un solitario, con il sopraggiungere dell’inverno diventa
inquieto, perde l’appetito e si mette alla ricerca di una discoteca” (p. 44) o,
infine, dell’alce che, “al contrario della renna e dei crepuscolari, non ama i
licheni” ma ha “gli stessi gusti delle capre e degli avanguardisti” (p. 48). La
sezione si chiude con un autoritratto dell’autore, immortalato di fronte alla
foto scattata insieme al maestro (o al compagno di versi) in “Vista felina e
arte poetica”, dove si sancisce una volta di più il parallelismo classico tra
lo sguardo di distinzione, affilato e preveggente, dei felini e quello dei
poeti.
La penultima
sezione “L’impronta della specie” è la più generosa di testi, ben quindici, e
più vasta nei temi: il titolo è tratto dal verso di chiusura della poesia
dedicata a Nada Pivetta, nota scultrice milanese, una delle cui opere (“Nulli
Certa Domus”) è oggi collocata presso l’Idroscalo. In apertura di sezione,
Pellegatta torna sul gesto dello scrivere – non tanto “eroico” quanto piuttosto
“attento” –, la cui materia prima è “una filamentosa angoscia” (p. 52). L’autore
mette in guardia dapprima dalla tentazione di sostituire o, rectius, occultare l’opera con il
proprio comportamento, quindi dal rischio di una poesia priva del substrato
forte dell’esperienza (“Il talento senza esperienza è malcostume”, p. 55). L’ironia
però non cessa di trafiggere come un contrappunto infinito dai mille aghi, che
siano quelli dell’amore (“C’è anche chi cerca per anni la donna giusta e
finisce per vivere con la badante”, p. 54) o della caricatura sociale, con la
tragicomica personificazione dell’inettitudine boriosa nel “Ritratto di Mario
Allori”. Continua anche la lieve didassi dello scrivere, che accompagna
sommessamente tutta l’opera, quando l’autore avverte che “Per scrivere un
numero sufficiente di versi/ bisogna essere stati nervosi molti giorni/ in
ulcerata gioia” (p. 58). Ma i corpi che si raffreddano riportano in bocca le
domande ultime, rimettendo al centro del discorso i rapporti che fanno fumare
le mani: “Parli così bene al mio dolore che lo fai parlare:/ pensando di
guarire peggioravo” (p. 58) fino all’efficace epigramma del giorno più
doloroso, dedicato ad Alice. Da notare a margine, in chiusura ormai di sezione,
“La moltiplicazione dei comignoli, o dove accompagnare il lettore”, uno dei
testi più immaginifici del libro in cui la forma poetica si ibrida con quella
del noir con esiti finali quasi
stranianti: “Togliti la giacca per entrare in questa poesia/ siamo qui solo per
l’italiano e avremo aerei sufficienti” (p. 68).
Oltre la sezione
“Ipotesi di felicità”, di cui si è parlato in esordio, conclude il volume una
nutrita appendice che raccoglie poesie già assai note al lettore attento di
Pellegatta. In quest’ultima sezione, tutt’altro che “giovanile”, si individuano
i semi degli sviluppi futuri in una sorta di imbuto rovesciato che parte dai
testi mondadoriani del 2011 scanditi da sentenze (“Mentre la salute è un
mistero sconcio, meraviglioso/ e, finalmente, senza futuro”, Non c’è nessuna
casa”, “La morte è una specie/ di cottura”, “Non è mai/ ciò che abbiamo scritto”)
fino a quelli più antichi di “Mattinata larga” (LietoColle 2012). Si pone così l’ultimo
mattone al nuovo, parziale tratto della “muraglia cinese” dell’autore, con i versi
delicati di questo “animaletto accoccolato dentro la pupilla” (p. 105), già
forse premonitori della tassonomia zoomorfa proposta in “Zoologiche”.
Matteo
Zattoni
Alberto
Pellegatta, Ipotesi di felicità, collana Lo Specchio, Mondadori, 2017,
pp. 112, € 18,00.
La collera degli
ermellini
a Geoffrey
Chaucer e Jack Underwood
L’ermellino assomiglia alla donnola, e
quindi a un bicchiere di latte bollito o, per gli inglesi, alle caviglie di una
ragazza castana. Detesta le zone agricole, passa le giornate nel buco di un
muro a guardare il panorama immobile dei fiumi che scorrono. Lungo le pareti
arcua il dorso ben più dei gatti. Un contadino, incontrandone due esemplari, ne
ferì uno a sassate, per poi venire attaccato alla nuca dall’altro. Al loro
grido ne sbucarono molti altri dai cespugli, e per poco il tizio non ci rimase
secco. Il loro numero varia di anno in anno e le lumache sono responsabili di
questo fenomeno: durante le annate piovose gli ermellini se ne nutrono, anche
se a volte queste ospitano un parassita letale, l’analogia.
*
Lasciare
tutto in ordine per fare finta di niente –
pastiglie
e terrazze meglio che fucili e rasoi.
Asciuga
sotto cespugli di mirto.
Si
inarca inconsolabile
l’azzurro
ruffiano degli ospedali.
Non
dorme mai
neppure
quando cedono le bestie
sembra
un cuore robusto.
La
pena ha un orario di visite.
Non
basta questa superficie
se
pure si allungasse in un miracolo.
Troppo
rudimentale, di poche pretese
ancora
troppo acustica, ancora non
impronta
di animali nella neve. Senza verbi
funzionerebbe
lo stesso, puro stile
senza
significato. Senza mani da lavare.
Sempre
un bene di circostanza, una fantasia
su
cotone. Dimentica di essere un telefono
per
diventare affetto. Scrivimi indietro.
Sparirebbe
anche da altri appartamenti
coperto
da un bianco sfibrato – eccidi che accelerano
le
armonie naturali. Pure con altri atteggiamenti.
Nei
tuoi bicchieri l’acqua diventa asma.
Forse
un esaurimento, su grandi ali
come
un sollievo. Si battono i bisonti nella nebbia.
Il
dolore esce oleoso dal rubinetto chiuso male.
Nell’incavo
del ginocchio dove prude.
Per
questo le scariche, il trauma, non per ritrovare
l’equilibrio,
non per formare piazze o tendenze
ma
per disobbedire alla natura, che poco a poco
diventi
libertà. Dolci sparatorie rischiarano la notte.
Per
ogni forma il suo contrario. Andare in pezzi
per
migliorare.
*
La
morte è una specie
di
cottura. Devi essere vivo
per
cuocere tanti anni.
Il
sangue si fa crema, schiuma,
le
gambe si allargano, si gonfiano le nocche
cedono
i tessuti. La malattia produce acqua
e
persino la nascita brucia.
Alberto Pellegatta (Milano, 1978) ha pubblicato "Ipotesi di felicità" (2017) e "L’ombra della salute" (2011) nella collezione dello Specchio - Mondadori. Presente nelle antologie "I poeti di vent’anni" (Stampa, 2000), "Nuovissima poesia italiana" (Mondadori, 2004) e "Almanacco dello Specchio" (Mondadori, 2008), ha vinto la prima edizione del Premio Biennale Cetonaverde, il Premio Amici di Milano 2002 e il Premio Meda 2002. Scrive d’arte (L’artista, il poeta, catalogo Skira 2010) e collabora come critico con Gazzetta di Parma, Nuovi Argomenti, Quotidiano La Provincia e Juliet. È corrispondente dalla Spagna della rivista svizzera Galatea
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