Credo
non sia cosa facile per nessuno raccontare una personalità complessa e
articolata come quella di Mauro Macario perché Macario, nel corso della sua
vita e della sua carriera, ha saputo attraversare tutti i campi della scrittura
con una disinvoltura notevole, perché Macario prima ancora di essere poeta e
scrittore è stato un lettore intelligente e avvertito, un interprete raffinato
del mondo e della cultura contemporanea, un intellettuale, nel senso più
profondo del termine, che ha compreso il nesso inscindibile tra la letteratura
e la realtà.
Credo
che la sua opera poetica, che oggi abbiamo la possibilità di rileggere
integralmente grazie a questo volume antologico, abbia il pregio di mostrare la
statura dell’intellettuale, oltre che il valore dell’artista. Questo libro che
ho avuto il piacere di curare insieme al critico Francesco De Nicola, che è
autore di una bella e nostalgica prefazione in cui ripercorre per sommi capi le
tappe del Macario poeta, è un’opera necessaria per comprendere il suo percorso
a partire dall’esordio del Novanta con Le
ali della Jena, fino ad arrivare all’ultimo volume edito Metà di niente del 2014 e agli inediti
degli ultimi anni.
Basterebbe
leggere il titolo scelto per questo volume per comprendere quale sia da sempre
la ratio che muove la scrittura di Macario: le trame del disincanto. Ecco la parola “disincanto” non vuole
semplicemente essere un sinonimo di “disillusione”, come a voler rimarcare un
progressivo venir meno dell’illusione, della fiducia nella realtà, ma si pone
volontariamente in antitesi all’idea dell’ “incanto”, quell’incanto che la
poesia lirica ha costruito nei secoli e che forse oggi davanti alle tragedie
della contemporaneità è impraticabile nonostante certa poesia si ostini a
farlo, incurante delle tante, troppe storture della realtà. C’è in questo
titolo insomma una dichiarazione di poetica che già era implicita nello
splendido titolo che Macario scelse nel 2003 all’atto di antologizzare le raccolte
degli anni Novanta: il destino di essere
altrove.
Il
“destino” era allora, come oggi, quello di essere sempre “altrove”, in un altro
luogo, in un’altra dimensione, fuori del coro ebete degli uomini omologati e
spersonalizzati dentro una modernità svilente, fuori della schiera dei
poetanti, dei sedicenti pensatori, che annegano in uno sterile edonismo della
parola e hanno smarrito la forza di raccontare e di denunciare il cancro che
divora la nostra società e il nostro mondo. Alla base di tutta la poesia di
Macario c’è insomma l’idea che il poeta sia chiamato quasi a una missione, che
non possa restare in silenzio di fronte alle tragedie che gli si consumano
davanti agli occhi, l’idea che il poeta sia spinto da un’urgenza di dire che è
dettata dalla stessa realtà e che la scrittura non debba essere un semplice
esercizio di stile, fine a se stesso.
Credo
che questa riflessione sulla funzione e sul ruolo del poeta all’interno della
società sia centrale in tutto il suo percorso, ma questo libro ci consente di
valutare come la scrittura di Macario nel corso degli anni abbia assunto forme
e aspetti diversi e come quell’indignatio
che muove il poeta fin dalle origini si sia fatta pagina dopo pagina più acuta
e tagliente.
Se
nelle prime raccolte, e penso al pometto frammentato Le ali della Jena o alle sequenze di Crimini naturali, il poeta è trincerato dietro la rappresentazione
di una realtà allucinata, tra paesaggi suburbani e atmosfere notturne, e la sua
scrittura è allusiva e simbolica, in Cantico
della resa mortale e in Piantagione
dei relitti, la silloge che chiude il volume antologico dei primi anni
Duemila, il poeta assume una fisionomia definita, veste i panni del censore
sempre pronto a confutare la morale fasulla della contemporaneità, sempre in
procinto di dichiarare guerra a una società che ha tradito l’uomo e lo ha
condannato a una tragica perdita d’identità.
Il
Macario di queste raccolte è sempre sospeso tra una dimensione privata,
personale, talvolta quasi intimistica, e una dimensione corale, collettiva ed è
sempre disposto a fondere queste due dimensioni in una visione univoca.
Se
la raccolta Silenzio a Occidente dichiara,
ancora una volta, fin dal titolo l’intento di dissacrare la società occidentale
votata al consumismo, allora la stessa giovinezza del poeta, che si colloca
proprio nella frattura tra due epoche, diventa uno strumento per denunciare
quel cambiamento irreversibile, perché il tradimento di quel mondo che gli
apparteneva è in realtà il tradimento di un’intera generazione. E la memoria
della sua iniziazione sessuale, anche la stessa scoperta del sesso, è forse un
modo per affossare quel perbenismo che, da un lato, difende la vita come valore
assoluto, dall’altro mostra di non avere più nessun rispetto per la vita e per
la morte, nessuna compassione per l’uomo. Non è raro difatti trovare in queste
pagine echi di un passato personale, un passato mitico e in qualche maniera
“mitizzato”, anche se non esente da quelle tarlature che col tempo finiranno
con lo squarciare il tessuto della società e del mondo contemporaneo. Non è
raro trovare slanci nostalgici nella scrittura di Macario, rievocazioni leggere
di un tempo definitivamente andato, anche se i fotogrammi di quel mondo
sommerso sono intrisi di un’ironia amara, di un sarcasmo graffiante che
mantiene intatta la vocazione eretica, l’intonazione caustica della parola di
Macario.
Anche
il capitolo forse più tragico dell’esistenza di Macario che rappresenta
peraltro anche uno dei momenti più alti della sua opera, sfugge a qualsiasi
logica autoreferenziale. Nella raccolta La
screnza – e la screanza del titolo è da intendere come una forma di
“disubbidienza” verso la società e verso il mondo – Macario racconta infatti
della tragica scomparsa del figlio. Ma la sua poesia non si limita a tessere un
commosso compianto del figlio, ma ricuce l’esperienza privata, il tema della
perdita che appartiene solo a lui, al tessuto del mondo. Penso ai versi in cui
si parla del conto macabro dell’assicurazione che calcola il premio sulla
sofferenza che ha dovuto patire, sui brandelli dei vestiti salvati dalle
fiamme, e penso a come questi versi ci parlino di quanto quella logica del
consumismo, quell’idea del profitto abbia avvelenato irrimediabilmente la
nostra esistenza, l’esistenza di noi tutti.
Quella
logica di cui ancora Macario ci parla nell’ultima raccolta Metà di niente in cui il bilancio, si capisce da subito, è ancora
più tragico, se ciò che ci rimane è ancora la metà del nulla che già
possedevamo. Qui ancora si parla di “civiltà addizionale”, si parla di mercato,
di globalizzazione, si parla dei sentimenti umani, quotati in borsa, quasi
fossero azioni, e qui ancora, gli affetti privati di Macario che tornano con
tanta passione ad affacciarsi sulla pagina, sono gli affetti di tutti, e la sua
vecchiaia, il suo senso di impotenza verso le cose è quello di tutti noi.
Ora
ho cercato di aprire uno spiraglio, di suggerire una possibile chiave di
lettura dentro un’opera che, come si sarà capito, è tanto articolata e che
merita certo una lettura più attenta di quella che ho tentato, un’opera in cui
emergono tante suggestioni, tanti spunti di riflessione in cui anche il
racconto di sé, anche quando scende più nel profondo, non è mai
un’auto-compatirsi, ma sempre un’analisi lucida della propria interiorità.
Eppure, a chiusura di questo discorso, qualcosa lo vorrei dire ancora. Sono
certo che quella di Macario è in maniera definitiva una poesia “civile”, lo è
proprio perché si sottrae alle regole della poesia civile, come siamo stati
abituati a pensarla. Perché fare poesia civile non vuol dire guardare fuori,
raccontare ciò che avviene oltre di noi, con la giusta dose di compassione o
solidarietà, ma significa sentirsi una fibra del mondo, una parte di quel tutto
che ci circonda cui apparteniamo nostro malgrado, vuol dire, e credo sia questa
la vera lezione del Macario poeta, sentirsi calati dentro il mondo e riuscire a
raccontare attraverso la parola da dentro anche tutto ciò che accade fuori.
Il cappellaio matto
Così
ti sogno
corpo
privato
e
corpo pubblico
per
essere io
in
molti ad amarti
amando
te sola
di
un lungo estenuante
languore
morfinico
guardandoti
guardata
negli
specchi liquidi
dei
miei impazzamenti
al
di là del possesso
trasversale
ed
è per amore che profano
la
sacra ghiandola monogama
moltiplicando
il tuo corpo
in
tante eucarestie
(da Cantico
della resa mortale)
Ritratto dell’autore da giovane
Solo
nei bar
ripiegato
in un angolo
come
fuori grandinasse
anni
di esercizi solitari
guardando
tutti
senza
vedere nessuno
anni
afasici
per
trovare la lingua
che
si stacca dal mondo
e
poi nel mondo precipita
come
una bestemmia in picchiata
dentro
una tomba aperta
e
mai un fiore
mai
una visita
chi
l’ha cremata
e
le ceneri disperse
passa
tranquillo
prende
un treno
apre
un negozio
spinge
una culla
e
parla da sola
la
lingua trovata
come
i matti per strada
innocui
e penosi
che
pensano all’inverso
e
capirli è impossibile
un
cielo triste di luce boreale
mi
chiudeva alle corde
fatto
a pezzi da un vino cattivo
cadevo
giù al sesto bicchiere
con
grida di soccorso
appena
ultimate
sul
taccuino a quadretti
in
ginocchio sui versi
mi
sbucciavo la pelle
tra
scarabocchi infernali
e
sigarette d’incenso
avvolto
come un vecchio
in
una bruma avvelenata
di
sogni fumosi
Sarzana,
5 novembre 2006
(da Silenzio a
Occidente)
Mantra di
primavera
L’urna
che porto tra le mani
grida
forte nel silenzio
nessuno
si accorge
chi
preme disperato
per
uscire a respirare
solo
io riesco a udire
quel
richiamo soffocato
e non
posso liberarlo
né
dirgli sottovoce
che
appena il vento gira
volerà
tra le nubi
si
poserà sulle foglie
e
rinascerà figlio
e rinascerò
padre
sanati
da un destino di riserva
a
ripercorrere un cammino parallelo
ma da
questa umile urna
che
sembra una culla di morte
solo
vagiti feroci
strappano
al cielo
promesse
impossibili
Sarzana,
31 -10-2010
(da La
screanza)
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