Recensione di Rosa Salvia a Ciao cari (La Vita Felice, 2016), uscita in versione ridotta ne "L'Immaginazione", n. 302, nov.-dic. 2017.
Che Stefano Guglielmin non sia poeta orfico lo si
coglie subito scorrendo le pagine di questa raccolta di versi delicati amari,
asciutti limpidi, dipinti su vetro. Poeta esistenziale forse, se mi si consente
questo termine.
L’analisi può partire di qui: l’universo poetico di
Stefano Guglielmin si tiene unito, in modo saldo e circolare, tutto pare già
dato e compiuto fin da subito per l’assoluta fedeltà a momenti dell’esistenza.
Momenti esaltati, dilatati, addolciti, talora forse solo sognati, che
Guglielmin percorre attraverso un dire colloquiale e diretto, per coglierne
tutte le possibili implicazioni, i possibili significati di un passato che si
proietta nel futuro. E’ questa la sua vocazione alla fedeltà: ai vivi e ai
morti, in un intreccio armonioso che muove molti echi e che possiede, per dirla
con Bergson, la qualità della durata: ponte fra un passato e un presente
altrimenti impenetrabile, flusso vitale fra poesia pura e narrazione, tensione
originaria fra emozione, ispirazione e scrittura.
Bastano i versi della poesia In limine che apre la raccolta per cogliere il senso profondo di
questa poetica: Una vita, ti dico / la
puoi scrivere soltanto, fingere / che ci sia stata, unendo i fuochi / tra poco
e poco: stare in sala / d’attesa quando piove, né felice / né infelice, altro
non c’è. // Però fuori si muore, mi dici. / Anche dentro si muore / ti dico. E
si semina altra delizia / dentro e fuori, altra sporcizia.
Il libro è composto da una prima sezione – Il mondo
visto da dentro, che comprende le poesie sotto la voce Ciao cari e Cartoline da casa
in cui la lingua si piega in intimità dialogica con amici o amiche cari che
non sono più fra noi, sull’eco della foscoliana corrispondenza d’amorosi sensi,
e da una seconda sezione – Il mondo visto da fuori, che comprende le poesie
sotto la voce Dediche, Anonimi, Ritratti
(1) e Ritratti (2) le quali “sperimentano con maggiore libertà, modulandosi
sullo stile delle figure nominate o cogliendone ossessioni, atteggiamenti,
circostanze,” come lo stesso Guglielmin precisa nella nota introduttiva.
In Ciao cari
si avvicendano versi talora crudi, taglienti, come nella poesia Flavia (1945-2009): Chiedo scusa se non c’ero al tuo / funerale: due ore di aereo non
dicono / il vero o solo in parte, ma con tanta morte / uno s’impasta o perde
quota. // Qui comunque in terra piove / e ogni tanto sterzo a casa, guardo / altrove.
(p. 24), talora intensi e struggenti come nella poesia Antonella (1958-1993): L’ultima volta in giardino / pesavi metà di ogni
cosa felice. // Aspetto un figlio / ti ho detto. E io la morte, hai risposto /
quieta, come se ci fosse una logica /segreta, che lega forbice a fiore. // Sei
stata la prima a saperlo /l’ultima a partire. (p. 19)
Ci s’innamora di queste figure simmetriche che
compongono una sorta di collage: mosaici vivi e nitidi che si susseguono senza
mai ripetersi, pur partendo dalla stessa matrice, dallo stesso specchio,
nell’accettazione del ‘destino’ della poesia che è di vivere fra la luce e
l’ombra, in certe ore contigue, intermedie, alla frontiera fra vivi e morti:
per convertire la pena esistenziale in qualcos’altro, riscattandola dalla
chiusa, dolorosa inespressività.
In Cartoline da
casa: tre bellissime poesie: Schio
fine ottocento (p.29), Vicolo
Valsesia 8 (p.30) e Via Pisa 22
(p.31), il ‘cerchio familiare’ che
poco ha di consolante, col suo dolente e insieme affettuoso disinganno, coglie
in maniera ancora più incisiva il nesso fa etica e “oggetti”, caratteristico
della poesia di Guglielmin, fra nitore del visibile e perplessità
interrogativa.
Emmanuel Lévinas afferma che “il principio di ‘etica’
è separazione, muoversi verso l’altro sentito come altro da sé, l’altro come
fine non come mezzo” (Totalità e
infinito, Jaca Book, Milano 1980).
Stefano Guglielmin è sulla stessa onda. In queste
poesie, ci sono il Sé e l’Altro, mai dimenticato, che si alternano, si
incontrano, si sfiorano. La stessa medesima dialettica si fa vicinissima.
Riflessioni in punta di piedi, monologhi sussurrati, un microcosmo in cui vivi
e morti possono confondersi ambiguamente le parti, consegnati al tempo senza
più schemi.
Tutto reinventato e tutto vero, e sempre fondendo
sensi e ragione, piacere, dolore e pensiero, libertà e realismo visionario.
Il tema della memoria è un tema forte ancor più nelle poesie
raccolte in Ritratti(1) e Ritratti(2), tutte
dedicate a poeti, poetesse, artisti, scrittori, particolarmente amati dal
nostro autore: un tempo vissuto che diventa attività onirica, che ti fa entrare
nel sogno come nella poesia dedicata a Carl Gustav Jung: Mentre scrivi / della maschera funerea e dell’acqua come processo /
collettivo, la femmina che sei nuota nel fondo del bicchiere / animale da
assalto o da richiamo. // Si divarica il profondo / lascia il suo cielo alla
domanda. (Ritratti (1), p. 67) Molto
bello il ricorso all’elemento femminile dell’acqua come ‘processo collettivo’
che cancella e che purifica, che travolge e che richiama, elemento come segno
vitale, di eternità che domanda…
Il rapporto memoria-poesia pone peraltro in primo
piano la grande questione della necessità di immobilizzare gli istanti per
conservarne la traccia, nella speranza di non vederli disperdere in un tempo
che, nel suo continuo andare oltre, non tornerà mai indietro a restituirceli.
La traccia è un “passato che non è mai stato presente” scrive ancora Lévinas,
definizione che si può assimilare alla junghiana nozione psicoanalitica di
“inconscio collettivo” così poeticamente espressa dal nostro autore, il cui
‘avvenire’ non sarà mai la produzione o la riproduzione nella forma della
presenza. Il concetto di traccia è dunque incommensurabile con quello di
ritenzione, di divenir-passato di ciò che è stato presente.
Altra riflessione che sorge spontanea è che questa
raffinatissima raccolta ci
restituisce il senso di attesa e di sorpresa che recava in passato il ricevere
una ‘lettera’ o una ‘cartolina’. (Non a caso dunque Cartoline da casa di cui
sopra).
Una lettera è testimone di eternità, dona magia, pur
nella consapevolezza che, se per certi aspetti può anche restituirci il
passato, ne trattiene con sé un pezzo, impedendoci di assaporare
quell’appagamento di possedere, ancora e sempre, ciò per cui proviamo grande
nostalgia.
Molto interessanti, alla fine del libro, le schede
sugli autori citati al fine di accompagnare il lettore a una migliore
comprensione dei testi, ma anche, o soprattutto, ulteriore omaggio, anamnesi che
continua a scorrere in un flusso di sensazioni, di trame e ricordi (basti
citare Paola Febbraro, scomparsa prematuramente nel 2008 la quale scrisse un
poemetto A fratello Stefano, morto
suicida.
A riguardo Guglielmin ricorda: mi mandò la copia
“fatta da me per te”, come mi scrisse in un foglietto volante. Un dono
straordinario, che merita ben più di questa mia povera poesia).
Un’anamnesi che ci trasmette atmosfere interiori,
stati d’animo, umori e sentimenti. Una raccolta di frammenti, schegge che possiedono
una valenza simbolica. E la rievocazione è ripercorsa scavando dentro il corpo
alla ricerca di un particolare, di una immagine. Di una verità.
Ed è fatica, sofferenza necessarie a ritrovare la
strada, a ridare vigore all’animo contuso, ancor più perché Stefano Guglielmin
ha imparato da Italo Calvino, l’ultimo degli autori cui dedica una poesia, “a
guardare il mondo e a pensare il labirinto non come una condanna, ma quale
stimolo a tracciare mappe sempre più dettagliate, diffidando delle semplificazioni”.
(Schede degli autori citati, p.84)
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