Questo
articolo nasce dalla lettura di un post di Mariapia Quintavalla pubblicato
sulla sua pagina facebook. Eccolo:
“Questa sera una
notizia scioccante ha fermato la mia vita e dio non la sapevo: è morta MARTA
FABIANI, una grandissima, coetanea poeta, del secondo novecento. E'avvenuto
questa estate, nessuno me ne ha parlato. Sento quasi ogni giorno poeti o
sedicenti, e nessuno, ripeto, ne ha dato notizia, Segno che i desaparasidos
devono essere zitti. Ora, Marta pur avendo avuto una certa fortuna di
pubblicazione e lettura, e riconosciuta da Raboni, Porta ad es. negli anni
settanta, all'improvviso, col
girare del vento degli anni ottanta, solidificate confraternite, scompare!!! Va
a vivere in Francia, le tolgono le figlie, (figlia di una famosa critica
d'arte). Ora quello che mi sconvolge è che cosa io debba fare: di fronte a
queste, troppe ormai, sorelle di cui la chiave si è persa nel castello (anche
interiore ) di Barbablù. Omertà e silenzi, cupole e indifferenza le hanno
tacitate. Sono ancora viventi o sono morte, sono però inoffensive: le pagine
della critica e del canone hanno saltato a piedi pari di integrarle, ritenerle,
come si doveva, innovatrici formidabili, come i loro coetanei! Vorrei qui
ripetere che Fabiani e è una grandissima . Ed io avevo deciso che la mia vita
svoltasse verso auto realizzazioni e amore di sé pacificati, oltre all'impegno
etico dei sempre, io, ora, sono impietrita. Come ignorarlo al convegno su Nadia
Campana, come non essere scossa, dalla loro vita marginale ed eroica e
distruttiva, sacrificale di sé? Non lo so. Quando vedo ogni giorno la
cancellazione progressiva di memoria di uno, di due, di tre decenni addietro,
mi prende la voglia di cancellare tutto, allora. E sarebbe partita vinta, ma
giovani o meno, svegliatevi è l'ora: di riaprire tutte le carte rimescolare
tutti i giochi, chiusi –”
***
È il “Correre della sera”, il primo
luglio 2014, a dare la notizia della morte di Marta Fabiani a livello
nazionale. Se ne incarica Franco Manzoni, che con un breve ma sincero
coccodrillo, la definisce “Poliedrica, sensibile, geniale, una donna forte e fragile,”
ricordando che fu tra “le prime in Italia ad eseguire performance utilizzando
voce, corpo, movimento per rappresentare il malessere femminile nel quotidiano.”
Manzoni ricorda che la Fabiani aveva pronta una nuova raccolta, L’arte del
sognare, che si augura di poter vedere edita presto. Sarebbe doveroso, a questo
punto, che tutta l’opera della poetessa vedesse la luce.
***
Un’interessante lettura della sua
poetica la diede Luigi Cannillo, inserendola in uno studio intitolato La
Resa dei corpi. La ferita della materia nella poesia di Giorgio Luzzi, Marta
Fabiani, Patrizia Valduga, Michelangelo Coviello, Dario Bellezza (in Sotto la superficie-Letture di
poeti italiani contemporanei, Bocca Editori, Milano, 2004):
[…]
Negli ultimi decenni è sembrato
emergere ed affermarsi piuttosto un distacco problematico/critico rispetto alla
rilevanza delle dimensione sociale e alla capacità affermativa o seduttiva del
corpo. […] Quello che ci perviene, in autori/autrici e raccolte significative,
è la rappresentazione di una condizione del corpo non solo di rivendicazione,
ma anche di separazione e rinuncia, come di distacco dalla propria vicenda
materica contingente. Si tratta di un arresto, se non di una resa provvisoria, di fronte alla complessità di fenomeni
politici collettivi o, anche, di una presa di coscienza del proprio stesso
deperire. Lontano e separato dai suoi presunti fasti, il corpo resta testimone
insostituibile, naufrago, scarnificato nella sua funzione, reso itinerante alla
e dalla poesia come prototipo, simulacro, bambola.
Allo stesso tempo sono proprio i nodi
problematici che attraversano il corpo a innalzarlo a figura emblematica del
distacco e della ferita all'interno della natura, della materia e della nostra
società.
[…]
In Marta Fabiani la funzione della
scrittura poetica accentua ancora maggiormente la forza del vissuto, non tanto
su un piano collettivo o metafisico. Qui il corpo più che pensante è corpo
percettivo e percepito nella propria storia personale. Le esperienze
esistenziali sono strettamente legate al femminile, a una linea a un
quadro familiare definito. Sia che ci troviamo in un ambiente domestico
borghese che in una dimensione onirica l'autrice trasmette il tragico e
ineluttabile nell'eseguire il proprio vissuto, sia nel rapporto con l'uomo,
suggestivo ma deludente, che nella propria identità familiare di donna, sulla
quale pesano pregiudizi precedenti o aspettative che il Soggetto non riconosce:
un insieme di vanità e tragico che indignano, portano alla denuncia oppure
sfociano in fantasie di morte.
Nelle raccolte poetiche di Marta
Fabiani è assolutamente centrale la componente autobiografica, posta in gioco
direttamente, messa alla prova ed evocata da e con personaggi talvolta
circoscritti, ricorrenti e riconoscibili, altre volte da figure fantastiche,
angelico-diaboliche. I testi vivono la pressione della centralità assoluta
dell'Io rispetto agli avvenimenti e della loro restituzione attraverso una sincerità spudorata o rifermenti
simbolici: «Qui è il gennaio perenne, in una stanza/ vuota spazzata sempre
sporca e sempre/ rutilante. Tentenno sulla soglia, criminale,/ truffatrice,
profferta, che al risveglio/ si pettina e si trova sempre uguale./ E tu non sai
perché si aggroppano i capelli/ perché vengono i brufoli, e ti attacchi/
circospetta alle bambole, perché devi/ infinite volte/ toccar con la sinistra
quel ch'è stato/ con la destra. Stretta da confini/ che incalzano, dai dirupi
degli sguardi/ come verghe su pecore smarrite.»
Lo spazio vuoto e la soglia, evocati in
questa poesia da Le nanerane (Ed. Il gatto dell'ulivo, Balerna, 1988), evocano una storia di donna, per
raccontare la quale Fabiani vive e supera orrore e vertigine. Nei cicli del
corpo, come nei cerchi nel legno di un albero, è inscritta la propria vita, e
ognuno di quei cerchi porta con sé personaggi, microstorie.
La forma lirica, incline sempre più
verso la narrazione, ha assunto poi la forma della ballata, utilizzata in senso
moderno come ampia e duttile struttura narrativa. Così in particolare la
raccolta Ballate dell'odio e del disonore (Manni, Lecce, 2002) ha
consentito all'autrice una libertà espressiva assoluta nel sottolineare slanci
e ripiegamenti, ed è pare integrante
della necessità di raccontare l'estremo e la complessità dell'esistere. La
materia del vissuto così stratificata si presenta in questi grandi affreschi
con i riferimenti simbolici e la carica visionaria tipica della Fabiani.
Specificamente femminile, spia per esempio le funzioni corporali più intime e
la materia emblematica delle fasi della vita di una donna e del rapporto tra i
sessi: il sangue mestruale: «Ricusata/ con l'acqua sporca buttano la bambina,/
la donna che affluisce nel suo sangue/ e vi affoga, adieu, adieu./ Dissero che
era il suo: dei suoi peccati/ mensuali, calcolati secondo un calendario/
sfasato gregoriano. Ora/ l'alta marea le copre le ginocchia/ come una gonna
rovesciata, rossa/ di venature marmoree di candoglia./ Il sangue che segnala la
presenza/ di una vita cosciente è la sua assenza/ la caduta del vessillo
dell'ape-navicella/ che si gonfia e si affloscia a un ritmo personale,/
estenuante, purgandosi ogni volta del suo sangue./ La coppa e l'interezza, ecco
ciò/ che non riusciva a reggere: ogni cosa/ si falla e defluisce, la pietà, la
casa, l'amor filiale./ Il marito, un Davide colossale che gettò il sasso,/ e
fece sgorgare quello zampillo rosso notte e giorno/ perché non fosse più
soggetto alla strenua legge/ naturale, ma getto continuo, verticale, eretto/
come un esempio, un monito illustrato per aver/ navigato l'intero fiume della
legge del menarca/ fino alla fonte, e avervi trovato/ l'Arconte, il padre morto
e smemorato/ il padre del suo fiammante libro rosso.
Il vissuto sembra quindi assumere una
forma circolare, di ritrovamento, dove ogni punto di arrivo può coincidere con
un punto di partenza. “Senza passato/ non si costruisce passato”, scrive
esplicitamente Fabiani. Le sue poesie sono stazioni di perdita e ricerca del
Sé, descrizioni di personaggi, identità che diventano maschere, in un apparente
disordine di allegorie e divagazioni descrittive. Dignità e rivendicazione sono
i fili a cui annodare i diversi testi e che fanno esplodere la necessità di
osare dire l'indicibile, ciò che di più intimo e riposto esiste sotto le
apparenze delle convenzioni sociali. Fino a ricercare quella interezza ferita
che l'autrice non riesce a ricomporre. Tra la donna-bambina, figura ricorrente
nei versi, e il compimento della cosiddetta maturità esiste una serie di
passaggi, le stazioni del dolore, dove l'unità si frantuma, la vecchia
identità/età è in pericolo, messa alla prova, e la nuova non si realizza
ancora, non si riconosce né nel proprio passato né in prospettive future.
A prescindere da ogni retorica
rivendicativa, sono le convenzioni borghesi, le costrizioni familiari, fatte
proprie e tramandate da una linea familiare femminile, a essere carnefici della
libera esistenza. Si tratta però di un processo portato successivamente a
compimento dall'Uomo. Nel rapporto tra i corpi si misura la distanza e la separazione,
e nel corpo la scissione dell'identità. La salvezza è per Fabiani, più che nel
non subire nuove stagioni esistenziali, la sopravvivenza delle diverse parti di
sé, e il riconoscimento di queste non
può prescindere dalla spietata analisi e dal dire contro e oltre le
convenzioni: «Con l'Uomo consumavo il mio calvario,/ il fornicante,
maleodorante gnere infisse/ chiodi su chiodi nei miei polsi bianchi/ e
bravamente, credendolo oltraggiare, tenendo testa,/ lo spingevo avanti. Quel
delirio corrivo reiterato/ lasciò un pesante strascico nuziale/ carico d'api,
lungo come un convoglio/ di deportati che non giungono al campo./ E nella luce/
devastante del giorno sul telone/ vedono visi aztechi, il male/ venuto fin qui
a propagandare/ le sue fiale ormonali 'ingoia e taci'./ E la vita che avanza di
spalle al finestrino,/ quella prima del male, scansata, piccina,/ ancora tuta
da coltivare/ per poterla finalmente adottare/ un giorno, come orfana.»
[…]
***
Le
nanerane
avevano la prefazione di Mario Lunetta (la riporta “Le Edizioni ulivo”):
[…] Adesso, in questa nuova raccolta Le nanerane, l’inclinazione
meno rassicurante della torva vocalità della Fabiani pare riprendere nettamente
quota, e sistemarsi perigliosamente all’interno di un canto soffocato, di una
sliricata smemoratezza di sé. Le “nanerane”, sono definite dall’autrice “raccapriccianti revenants” e comunque
insopprimibili “muse ispiratrici e inquietanti”, e hanno ambigua funzione di
spiritelli o di angeli.
[…] Il tutto, dentro un delirio
accentuato di perdizione e di instabilità, di disordine e di buio, regolato con
estrema sicurezza da una griglia metrica in cui l’endecasillabo lavora da pivot insostituibile, e al tempo stesso si
pone come diagramma regolatore di un magma interno che fa crudeltà a se stesso
fingendosi acquietamenti e pause che all’antica virulenta vitalità sostituiscono
puri movimenti di teatro, fantasticherie sceniche; insomma – ancora una volta –
simulacri e nulla di più.
***
Le Ballate dell'odio e del disonore contenevano una nota introduttiva di
Giancarlo Majorino. Questa:
“ Slanci... Slanci sorretti da un pensiero crudo e
chiaro, ansioso di poter “chiamare” disonore, odio, ciò che amaramente
respiriamo. Ballate e non forme più concentrate, senza tutavia che
concentrazione e bellezza manchino. E' il neolibro di Marta Fabiani, una grande
prova che mina, non rinunciandovi però, le costruzioni e le distruzioni del
passato, ora divenuto giustamente presente e magari futuro, qui nella poesia
dove i tre tempi canonici ballano, e severamente e scherzosamente.
Un indice di memorabili versi o
salienti si può certamente stendere ma scalfirebbe l'inquietudine maggiore del
libro, quella che intende disporsi per lasse, strappando al narrare certe
prerogative: meglio fuoriescano da sé, nel sillabare o udire cavo del lettore,
brillanti come un gesto amoroso o voci attese. E' che dettagli e sostanza di un
vissuto composto di più vissuti s'arroventano a contatto e contagio di
un'immaginazione radicalmente violenta, impaurita mai.
Altra filiera di acquisizioni scende da
un'irrinunciabile libertà ben contemporanea perché incorporata senza riserve,
che può di volta in volta agglomerare nidi di senso e suono, timbri trasformati
del dovuto, coercizioni disossate e vagabondanti in una sarabanda tagliata per
“noncuranti sprazzi e microstorie intensificate: il tesoro, insomma, del romanzo,
del racconto issati nel verso.
E, ultima approssimazione, un
linguaggio ansiosamente sostenuto da passioni, vergogne, moti condivisibili che
puramente un sotterraneo desiderio di comunicazione malgrado tutto sorregge.”
[Ringrazio Luigi Cannillo per il materiale che mi ha fornito e con il quale ho in gran parte organizzato questo post. Di Marta Fabiani avevo già scritto qui]
***
da
Maratona, 1977
Poesia
n. 19
Ci
sono voluti
uno
svenimento
un
fidanzamento
un'aggressione
notturna
un
po' di sadismo
una
protesi mammaria
una
rovina finanziaria
la
mia poesia (se non è poco)
per
far pronunziare a tua moglie
la
parola: fica.
Ma
adesso lei la pronunzia
in
un modo eccezionale
benché
un po' tremulo, a volte
per
paura di versarla
nella
pappa dei bambini
e
allora sarebbe tutto guasto di nuovo
sarebbe
figa come magagna
o
ferrovecchio, l'ennesimo dispetto.
Ha
riempito di frutta le tue coppe
ma,
che disdetta, ancora non ci vede la
metafora.
Anzi,
vuole succhiarti
senza
grazia i tuoi ricordi osceni
e
imbandirli ai tuoi ospiti, mentre solleva
occhiate
maliziose dalla minestra e dice
«a
noi ragazze non c'insegnavano» e riscuote
benevoli
consensi agli anni persi.
Tu
li hai persi, eh sì, ma in altro modo.
Giravi
a vuoto con il tuo tesoro, e ora
lei
ti sbatte sul tavolo la spesa
cazzi
di plastica, carote, preservativi
pergamenati,
i più cari, e poi a quattro zampe
s'industria,
assieme a trote e maialini
col
tovagliolo, sembra proprio
che
a dire «mangiami» le venga l'acquolina.
Guarda
come impallidiscono
le
robuste emicranie del passato:
sdraiata
accanto a te lo fa ingollare
il
frutto prelibato, tutto quanto
chicco
per chicco, finché
non
ti ritorna l'uovo marcio al fiato.
Poesia
n. 22
Eh
sì, eh sì
miei
signori anfitrioni
quando
ero un po' linfatica
e
appena mestruata, e impallidivo
di
fronte alle prodezze
delle
dame secolari, e mi scoprivo
le
cosce, che erano sublimi, ma, ahimé, ancora
così
poco espressive,
al
bar, al ristorante, c'eravate
grossi
tonanti burberi, pronti a dire
tra
una birra e un tramezzino
«roba
da marchette» oppure
«tuo
fratello marchettaro».
Adesso
mi tocca ascoltare le vostre battute
dolorante
di spalle, sotto il peso
di
un'influenza cronica, ancora
incespicante
per via di una moda
di
riflesso condizionato malappreso
e
rimpinzarvi
di
allusive occhiate disilluse, e accarezzare
i
vostri cani chow-chow, le penne stilografiche
perché
una bocca spalancata di stupore
se
le accaparri, a una voglia
subito
gratificata in cambio di una barzelletta
comari,
uccelli con le ali, vulve birichine
niente
è cambiato, niente, tranne questo tic
invisibile
naturalmente, riportatemi
alla
parola caduta in disgrazia
all'insolenza
desueta, più sicura
più
sicura della vostra
camerata.
Da
Le Nanerane, 1988
Mostri
monotoni
non
avete letto
il
libro dei mutamenti?
Non
è più il mio letto
il
vostro campo di battaglia
né
io la viola passa
tra
le lenzuola dell'immondo libro.
Altre
vite sfogliate, altre alleanze.
Aria,
aria, via. Altre stanze.
da
Ballate dell'odio e del disonore, 2002
Certe
nicchie
profumano
di pace, t'invitano
a
non guardare in tralice la scure
che
trancerà il passato, e fuori campo
la
tua vira con esso.
Stanno
appostate agi angoli umettati
della
visione quando a briglia sciolta
torna
alla stalla nel girabondare
rapito
tra le tempie.
L'ombra
sinuosa, palpabile di quei ricordi
protunde
e si slancia come un girfalco
da
un Duomo che t'inchioda il volto in alto.
Vi
è via d'uscita? Sì, passando per essi.
Ma
ti toccherebbero le spalle, con dita così fini
come
il poeta le ha descritte. E andresti
al
sacrificio turbato da quei guanti.
Dov'è
quindi quella profondità di campo
che
sognavi? Quello
stacco
errato che ti avrebbe permesso
di
ascendere a pensose solitudini?
Uno,
uno solo è morto
così
completamene solo. Le vesti delle statue
piangono
petali di rose.
**
Se
devi gridare al lupo fallo presto,
a
guancia tenera, quando l'occhio
è
umettato di acquetta cilestrina
tra
due tende di salici del pianto.
Può
darsi che ascolti.
Può
darsi che gli strappi una promessa
di
arrivare, non sai, ma solo quando
avrai
alzato le tue torri in alto,
fin
dove l'occhio arriva,da uno spalto.
Ti
stupirà con il suo passo
moderato
con brio, con il fracasso
tremendo
dello spirito di uguaglianza
con
cui la spunterete su ogni chiave,
tu
il tuo passe-partout per ogni stanza.
Vedrai
sovrani in bagno accoccolati,
tu
stessa in ritirata, un elmo in testa
di
forcute forcine, le stesse
con
cui volevi infilzarti gli occhi
chiamando
il putiferio: questi
e
altri prodigi in una notte.
Lui
si sciacquerà la bocca
a
compito finito, e riprenderà il suo andare
dinoccolato,
senza tema che lo sorpassi.
Tu
lentamente guarderai all'indietro
dall'altra
parte del castello, dove si apre
tutto
il mondo: e vedrai l'infuriata
muta
dei cani superare il fosso.
**
Allora,
da bambina, non sapevo
spiegarmi
il mio sguardo triste e attonito,
pensieroso
e incantato. Era la vita
che
portavo in braccio, un pacco
la
ragione di quel peso.
Ora
se ritorno a quello sguardo
passando
per i neri salici, le pietre
incatramate
trasudanti estate
da
estate, per le rotaie
annodate
in un mucchio,
lo
sguardo si riempie del mare del passato
che
non riesce a colmarlo, quanto
quello
che allora aveva avanti a sé la Morte
senza
che mancasse un granello, un solo granello
di
pianto, un sorso d'acqua strappato alla bottiglia
posta
ora come lente
tra
le cose viste, sfumate
e
l'incolmabile distanza
da
quelle che mai potrò vedere.
Marta
Fabiani (1953-2014) ha pubblicato, tra l'altro, le raccolte Maratona (Cooperativa
Scrittori, 1977), Le Nanerane (Ed. Il gatto dell'Ulivo, Balerna, 1988) e
Ballate dell'odio e del disonore, /Manni, Lecce, 2002). Ha curato e
tradotto l'epistolario di Sylvia Plath e liriche scelte di Christina Rossetti. È
stata autrice di numerose commedie
radiofoniche per la Radio della Svizzera Italiana. Ha studiato danza e
recitazione con grandi maestri con Herbert Berghof e ha portato le sue poesie
in teatro.
Avrei preferito ci fosse almeno anche il commento dell' altro post, del 2007, qui su Blanc de ta nuque dove, decantata lo choc della notizia, ragionavo portando letture di lei più articolate.e specifiche. Sulla scelta delle poesie, io che considero, per gusto personale mio, più grandi quelle brevi, e liriche della seconda stagione, qui ne trovo anche una terza , su suppone recente: Non perché non siano bellissime anche quelle della prima iniziale scrittura, anche de post del 2007, ma qui è duro aprire un dibattito.mancano i libri, forse, a disposizione; credo che una giornata - convegno, a lei dedicata , per es alla Casa della poesia, e un numero monografico di rivista è certo tra le priorità dei fatti nuovi da creare. Si dà il caso non abbiamo il dono della ubiquità, né io rappresenti dietro me Dipartimenti, riviste, ma stia in una sorta di movimento di pensiero e lettura critica, e che ora io sia impegnata, dallo studio partito con "le Silenziose",( titolo che andrà itinerando, entro la ricerca di "Donne in poesia") fino alla attuale ristampa di Versdo la mente e Visione postuma, sempre Nadia Campana, a cura di De Angelis, Turci, Rabuffetti, Raffaelli, ediz 2014 al prossimo convegno del 9 di aprile su Nadia Campana, che ha atteso tanto tempo per potere essere riletta e dibattuta. Ora, una cosa alla volta. gioverà a non sovraesporle, tante diverse grandezze,e con plurali contributi. Rileggerò con grande piacere il contributo di Gigi Cannillo, che ricordo come molto interessante in anni in cui la tematica, e la poetica del corpo erano già vulgati, e in tante varianti tornati in auge. Anche qui da aprire un dibattito che faccia distinzioni fra necessità storico-esistenziali e certa facilità. di calchi, nel dopo. Ma non è questo il caso, questi furono gli anni di incipit, nella poesia degli anni settanta.. Ecco perché vorrei RILEGGERE il mio commento sull' altro post 2007 sulla Fabiani, perché lo spiego. Grazie, Stefano. MPia Quintavalla
RispondiEliminaEccolo: Avrei preferito non scrivere post mortem: tutto questo è molto offensivo e conferma di una storia, la sua, del tutto, purtroppo esemplare. Conobbi Marta alla seconda edizione di Donne in poesia, siamo nel 1987, e già l'avevo letta nell' antologia di Porta e Siciliano, e nella prefazione di Cucchi alla seconda raccolta(era stimatissima,anche da Raboni), ma...Io ho amato di più la seconda Fabiani, dopo il periodo *confessional*,(molto anglosassone ) peraltro contagioso, dopo avere tradotto Sexton e Plath, magnificamente. Qui l'urgenza della fisicità in rivolta è segno-sintomo di più grandi silenzi della privazione di accesso a simbolizzazioni nuove, negata alle autrici, la sessualità spudoratamente esposta, una radice di posizione nel mondo e di parola. Che non era moda, né calco, ma un INIZIO di epoca nuova, di voci che emergevano con una bellezza ed eticità, singolare, che sarebbe stata tacitata. Poetesse come Annino, per fortuna a noi tornata, ma Oppezzo, Cascella, Campana, e Colonna, ebbero stessa parabola, e il loro senso di grande dignità nel non chiedere...non fu di aiuto, ma strada di una auto esclusione che diventò malattia,;ora riparlarne dentro agli esiti del secondo novecento pare davvero necessario.Tornerò con ele sue poesia stagione centrale, bellissime e dotate di una musicalità mozzafiato.
RispondiEliminaè da quando hai pubblicato che torno a leggere.. non la conoscevo, ma mi ha completamente catturato..
RispondiEliminasì, posso capire. Ha fatto lo stesso effetto anche a me!
EliminaCome Amara, torno a rileggere, e ancora. Grazie per questa pagina, Stefano.
RispondiEliminaA te, buona rilettura!
Elimina