Gli
ingredienti della poetica di Alessandro Fo ce li indica molto bene Cortellessa
ne La parola plurale; in sintesi (e svirgolettato
per agilità blogghiana): un crepuscolarismo intenerito che si combina con un
virtuosismo spesso inesibito, un’attenzione alle cose minime, carezzate secondo
l’insegnamento di quell’Angelo Maria Ripellino del quale Fo è stato curatore
per l’Einaudi. Una poetica enunciata, come ci ricorda ancora il critico romano,
in Argini all’entropia, una delle
prime sue poesie edite (1988), dove si dice che al poeta compete di ricondurre
“a unità lineare” la realtà “scomposta e piegata”, ma non per finzione o
esercizio consolatorio, bensì per amore, per quello spirito compassionevole verso
il destino caduco degli esseri, che impone la scelta del salvare nella pagina
ciò che il tempo sta macinando. All’etica civile, pubblica, al dissenso
schierato ideologicamente, Fo preferisce dunque il sussurro esistenziale, che
non prende di petto l’ingiustizia o il malaffare perché, in una prospettiva più
radicale, non ci sono responsabili assoluti al corso naturale di ogni cosa,
leopardianamente consegnata al proprio finire, all’estinzione. Più che una
scelta alessandrina, di manierata fuga nel bello per consapevole decadenza
epocale (Cortellessa: “L’ultimo discendente di una schiatta letteraria illustre
quanto minoritaria: quella degli alessandrini moderni”), a me pare che Fo,
appunto, dialoghi con l’impermanenza intrinseca al divenire, con quei gorghi commisti
di pieni e di vuoti, di sentire e svanire che è vita dei mortali, così come si
dà nel tempo storico sin dal principio. E se età dell’oro è rintracciabile,
questa vive nell’attimo fuggente, se sappiamo coglierne la tenerezza o, come
direbbe Montale, l’occasione che salva.
Mancanze
(Einaudi, premio Viareggio 2014) è un catalogo di presenze semitrasparenti
eppure umanissime, colte nel loro passare e salvate con la parola poetica, ma
anche con la creazione di un cielo non inquisitorio, per quanto imperscrutabile, vicino ai terrestri. È un
cristianesimo francescano che suggerisce il dettato a queste liriche, il pane
da condividere con gli angeli, in una comunione sospesa, come le viandanze di
Chopin, che in questo libro diventa maestro di stile, per tocco leggero ed
estrema dolcezza, per la capacità di dare sostanza all’impercettibile e
all’impalpabile. Quest’ultimo assunto piega anche l’intenzione originaria di
arginare l’entropia con strutture sintattiche quadre, per darle scacco, invece,
in un dettato franto, mimetico all’aleatorio vorticare del senso, che forse,
pare suggerirci il Fo più maturo, non si consegna al caos entropico, ma
piuttosto verticalizza in un mulinello arioso e centripeto, che,
plotinianamente, dal cuore sale a Dio, dalla pietra all’Uno. In questa
prospettiva, compito della poesia non può essere dar conto dell’indicibile, ma
far parola dell’esperienza finita quando questa tende all’indicibile, quando lo
presuppone per riconoscersi sensata. E ogni esperienza può essere fondamentale
se chi la compie ne coglie la tensione tra finito e infinito. Eppure non può
esserci perfetta linearità continua in questo; ne consegue che ogni vivente sperimenta
su di sé le lacune, la corruzione, le “reliquia desiderantur”, le mancanze, appunto, con cui il tempo storico inevitabilmente impasta la realtà,
tenendoci così in bilico tra fallimento e speranza di ricomposizione.
La
ricerca del senso ha tuttavia un’altra dimensione, l’orizzontale, che si
traduce in Fo nel costruire una rete di citazioni, di legami partigiani fra
uomini magni ed esistenze minute, accomunate dall’essere state attraversate dal
sentimento di quel bilico, figure di un eroismo della consapevolezza e spesso
conosciute dal poeta attraverso i libri, come ci spiega l’appunto che chiude Mancanze
(tali sono per esempio i canti dedicati a Chopin, nati dall’amore per le sue
sonate, ma anche dalle suggestioni di Andrè Gide sul compositore polacco e dalla
biografia sul medesimo di Jaroslaw Iwasztkiewicz). I riferimenti colti, se letti in questo
modo, non disturbano in quanto sono connaturati alla poetica della relazione,
del dialogo fra i vivi e i morti, al sentirsi parte della comunità degli
affetti, il cui lascito ereditario, nel profondo di Mancanze, consiste nel tramandare la lingua e i suoi tremori,
l’esperienza e la sua inenarrabile contiguità con il silenzio.
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