mercoledì 28 maggio 2014

Renata Morresi


Dei migranti derelitti e relitti, spiaggiati moribondi o morti, o traghettati dall’inferno acquoreo alla terraferma concentrazionaria si è scritta molta poesia nell’ultimo decennio. E necessariamente. Tuttavia non è facile uscire dalla retorica e dal pietismo conformista. C’era riuscito Fabiano Alborghetti, con  L’opposta riva (LietoColle, 2006) – di cui è uscita da poco una nuova edizione per La Vita Felice, con molte poesie ripensate per migliorarne la comunicabilità – e ci e riuscita Renata Morresi con Bagnanti (Giulio Perrone editore, 2013), ma con differente intenzione. Tanto Alborghetti curò l’immedesimazione, il punto di vista dei migranti, preoccupandosi di raggiungere il lettore tramite un’epica sciolta da eccessiva retorica, quanto invece la Morresi agisce sul piano espressivo, usando le parole come fossero tonalità cromatiche, pennellate che non descrivono ma alludono a una scena, la richiamano per intensità, al modo della pittura impressionista, dove conta l’emozione prima che il dettaglio naturale, l’effetto della materia sulla retina, prima che il giudizio analitico sull’evento. Un dire comunque concreto, che resta ancorato alla materia di cui quel naufragio è fatto: ci sono rettili e altre “antiche / genealogie anfibie” in quel paesaggio agostano, mescolate ai quieti bagnanti, a insegne, alla curva del paesaggio lampedusano.

La focalizzazione delle scena nella sua evidenza cronachistica non è immediata, ma quando tutto si fa chiaro ed entra persino un’intervista del Corriere della Sera a due elicotteristi che intervengono nei salvataggi, allora il dramma acquista dimensioni epiche; la stessa poesia, nella sua struttura formale, sembra un corpo martoriato, franto, dove il senso si rompe di continuo per l’enjambement o per lo sfocato (memore forse delle cattedrali monetiane), dietro il quale intuisci forme umane, disumane, elementi d’accumulo, ossi, carte d’identità, il fucsia di una tunica “rotonda / come una medusa”.

Il secondo paragrafo ci porta in un aeroporto, un non-luogo raccontato in presa diretta, nella forma del monologo interiore, con frequenti parole-picchetti che attestano la precisione di ogni gesto, in un’aggettivazione cara a Milo De Angelis: esatte sono le rotelle (del trolley), esatti i negozi, perfetta la volta, dritta la schiena, preciso il saluto. Ma qui, al metafisico deagelisiano, si sostituisce il grottesco, il pasticciaccio gaddiano teso a raccontare un attraversamento-naufragio carico di oggetti, di persone anonime, con le quali stare temporaneamente insieme, temporaneamente separati, in una predisposizione ad “ammazzare il tempo” ingoiando tavor, cazzeggiando, e facendo i turisti in terra egizia, tra odori mestruali e “inguini struscianti / sul nylon delle calze”.

Il contrasto fra le due comunità migranti è radicale; il giudizio della Morresi, implacabile. Eppure lei, come noi, stiamo fra quelli che colonizzano lo spazio godibile, con voli superinquinanti, solamente per stare al passo con i tempi. Con i nostri tempi. E con i nostri spazi. Che vengono raccontati nel terzo capitolo, “Vendesi”, nel quale l’immagine diventa nitida, di un realismo molto quotidiano, direbbe Sanguineti, pieno di dettagli, che tuttavia, anziché rassicurare, spiazzano: ogni poesia è un’immersione nelle tenebre di un appartamento in disuso, in vendita, o abitato da clandestini o da chi ha perduto ogni cognizione di sé. La terra promessa è sott’acqua e nessuno si salva, nemmeno in occidente. Lo sapevamo, ma ribadirlo con registro fotografico eppure distorcente come fa la Morresi, non guasta.

A pag.54 c’è una poesia concreta, “Facciata II”, con “il bianco della finestra aperta” nel mezzo del quadrato e, in quel vuoto, se ci affacciamo, “si vede tutto” ossia il niente che abbiamo edificato, più immondo che utile, e forse, come ricorda la poesia successiva, che non ci sarà perdonato dalle generazioni future.

L’ultimo capitolo di questo viaggio nell’Italia contemporanea ci porta dentro un “freccia bianca” di Trenitalia, e ritorna il samba accelerato di uno spazio in cui le figure entrano ed escono (“maglia blu-raffaello / da pallacanestro / sale // «non prende» // madre messa / in piega mette / mano alla presa / stenta) e così via in un procedere per condensazioni analogiche da “grand vitesse” dove domina il vedere, lo sbirciare, il chiacchiericcio persino sulla velocità stratosferica di certi oggetti extraterrestri, che si muovono “in tondo”, laddove il naufragio della civiltà procede lento, inesorabile e in linea retta. Insomma, questo viaggio su Tenitalia, dove si incontrano personaggi che prendono la valigia al modo del caproniano viaggiatore cerimonioso (“può aiutarmi / con la valigia?”) e stampatelli maiuscoli come il “PUBBLIC TRASPORT” lontano parente del “TRANSOCEAN LIMITED IMPORT EXPORT COMPANY” della ragazza Carla di Pagliarani, questo viaggio, dicevo, diventa – come in Caproni, ma con maggiore drammaticità – l’allegoria della nostra vita, tutta scorci, tutta frammento ansioso e mai vivibile nella pace di veri bagnanti, ossia in armonia con il paesaggio, con noi stessi e con gli altri.

Quello che in principio sembrava un libro sulla strage mediterranea, sulla deriva dei derelitti africani, si scopre un racconto sulla solitudine, sui tic della globalizzazione, sul vuoto quale interstizio dominante fra poco e poco, quel quasi niente che siamo nella nostra originalità residuale e a rischio d’estinzione. Un libro dal forte impegno etico, dunque, in dialogo con la poetessa newyorkese Rachel Blau DuPlessis, di cui la Morresi ha tradotto Dieci bozze (Vydia editrice, 2012. Premio per la traduzione “Achille Marazza”, 2014) e dei cui Drafts (schizzi, brutte copie) scrive: “Ecco che i Drafts nascono non in fuga dagli eventi storici, né tesi verso miti universalizzanti, né modellati sulla forza esemplare di un io stabile. Al contrario: vogliono stare dentro il vivo e contraddittorio andirivieni della storia nel suo farsi, storia che rischia sempre di sprofondare nell’oblio o di essere requisita dalle logiche proprietarie di pochi forti”. Bagnanti segue la stessa passionale intenzione, la stessa idea cumulativa: per frammenti, per microstorie, usando “una multivocalità che spezzi l’ordine usuale dell’esperienza linguistica”, come scrive la stessa Morresi a proposito della poetessa americana, al fine di tenere viva la presenza del margine, di quanto altrimenti sarebbe rimosso dal tempo accentratore del capitale.



Da “Bagnanti”



essere molti e saline
vive e più mobili
del mare, abitanti
confusi a risalire
all’indietro, ad uno
stile nobile, le antiche
genealogie anfibie


*


fuori l’anno agosto,
preceduto dal lavorio di un secolo
di settimane

la cronaca ufficiale lo annuncia
fino a che non cade, resta

la bouganvilla rossa
intreccia

la stagione totale


*


dalle rocce dai picchi sulle acque gli iddii
vedrebbero popoli morbidi lentissimi
fondersi agli anemoni polipi i tanti
piedi avvinghiati agli scogli
staccarsi, larve sbocciare
in azzurri

dagli astri, gli stessi
continuamente fossili


*


le nostre vite dicembre
sulle isole Pelagie

furono dei pirati
dei Tomasi

feste lente
lingue di lava

pause lunghe un Pleistocene
ciascun erede della casata

sparso alla sua longitudine
se allarga le braccia, se abbraccia

è una cala
entrata naturale

ma come, cosa, chi altri
che l’aria


*


mischiati rettili, bivalvi, i vicini
d’ombrellone o crostacei,
dèi alieni, relitti d'astronavi

in una scorza che è già pelle
abbiamo sciolto insieme

i sangui nelle spugne,
pianto interi regni
folli di molecole


*


è che a forza di pensare all’Italia
siamo diventati un po’ Italia anche noi
mugola da scorza vecchissima
mugola mucosa
ulcerata dalla plastica

c’hanno visti con le altre nelle vasche
a Linosa all’ospedale
cinquanta chili o dieci o due di carapace
(le bambine più bruciate) in cura dalle piaghe
prega per dio non dal mare


*


Da “Vendesi”


Viale Martiri


In distinto condominio anni 60
finiture in buono stato per le scale
nella camera sui muri ombre di mobili
sgomberati da tempo come una sindone
ma la signora che non aveva figli
ha lasciato l’immobile a un Istituto
di Torino che le regalava sempre
il calendario cioè una volta all’anno.


*

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Dicono tutti rifinito con cura
funzionale servitissimo adiacente
su due livelli su tre livelli su
struttura ristrutturata di recente
ideale per gli amanti degli spazi
originali giardino effetto-subito
sito su ampia visione mozzafiato.
A sé stante. Indipendente. Finito.


*

Agente immobiliare


Oh i tuoi temi, uso eguaglianza restauro
esclamazione, con tutti i presidenti
sulle scale, la veranda, il posto auto,
quel che aderisce e prosegue ché nessuno
facilmente viene a patti con la morte.
Le parti costituenti il corpus casa
nazione, parti belle più parti immonde,
mai assolte dal responso del futuro.


*


Viale Martiri II


Messi in ordine sensazionale verso
ovest sul letto senza guardarsi pronti
a rientrare in funzione bravi peluches
disposti a ricordarsi tutto a portare
sia la lezione schietta dell'esistenza
(qua il contatto, là il lavoro, dio e il di più)
sia la follia del suo rabido guerrare
sfibrarsi sfinire tornare, assenza.


*

Costruzioni Tartari


Il geometra stende bene la pianta
millimetrata della casa, espone
con cura il modellino giallo con alberi
di cartonato verde, il tetto rosso
da progetto e i pupazzetti che sostano
all’ingresso, uno vestito di grigio
uno con la gonna rosa – com’è facile
guardare un colore e vedere il deserto.


Le raccolte di poesia edite di Renata Morresi sono: Cuore comune (peQuod 2010), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (La camera verde, 2013). Recentemente ha vinto il premio Achille Marazza per le prime traduzioni in italiano della poeta americana Rachel Blau DuPlessis, con Dieci Bozze (Vydia 2012). Altre sue traduzioni di DuPlessis sono in Bozza 111: Arte povera (Arcipelago 2013) e EX.IT - Materiali fuori contesto (a cura di M. Giovenale, M. Guatteri, G. Marzaioli, M. Zaffarano, La Colornese 2013). Sue poesie sono in varie riviste e antologie, tra cui: Il Caffè illustrato, Alfabeta2, Trivio, Il nostro Lunedì, Registro di poesia #4 (a cura di G. Alfano, d'if, 2011), Locandine d'artista (a cura di A. Semerano, La camera verde, 2009), Nodo sottile 4 (a cura di V. Biagini e A. Sirotti, Crocetti, 2004) e altrove. Scrive per riviste, cartacee e on-line (Nazione Indiana, punto critico, ecc.). Collabora con l'Università di Macerata.

4 commenti:

  1. Avevo già avuto modo di apprezzare la poesia di Renata Morresi, e questo post sul suo ultimo libro me ne dà la conferma. Morresi fa un uso chirurgico, sapienziale, reinventivo della parola, come nella migliore poesia, l'unica che vale, per me. Mi colpisce, ad esempio, come nel verso "le nostre vite dicembre", "dicembre" suoni come aggettivo femminile plurale, così come in "fuori l'anno agosto" lo stesso valga per quest'ultimo nome di mese, che pare attributo di "anno". Ma ben altri commenti si potrebbero fare, valga per tutti l'ottima introduzione di Stefano, che potenzia sempre la generosa lettura dei poeti contemporanei con la sua acuta sensibilità di poeta.

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  2. Mi piacciono queste tue osservazioni sul particolare, cara Luisa: è infatti nella gestione del particolare che si vede il poeta e il buon lettore.

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  3. Ciao Luisa, grazie per l'attenzione con cui hai letto: sì, anche io penso le “vite dicembre” e “l'anno agosto” come coppie di nome-aggettivo. Che entrambi gli attributi esprimano delle indicazioni temporali mi pare – a posteriori – buon segno, buono almeno rispetto a quella che era la 'radiazione di fondo' (passatemi il termine, preferisco non chiamarla 'intenzione') in cui andavo componendo questo libro, ovvero la voglia di esplorare certe nicchie di presunta normalità per schizzare qualche scorcio della 'modernità liquida' alla deriva, che trascina con sé e rimescola le categorie grammaticali, così come quelle di tempo e di spazio.

    Non è sempre una bella scena. Come la grande isola di immondizia che galleggia nel Pacifico, con le sue ventimila gialle paperette di plastica, è a volte grottesca, a volte struggente. Si flotta tutti insieme allegramente spaventosi, alieni non funzionanti, sempre in tondo sull'oceano. Mi interessa/va questo schiacciamento sull'immediatezza sempre sfuggente del presente prodotto dalla nuova (ormai semi-nuova) dimensione globale, che connette ma non unisce, che sembra parificare i soggetti mentre li svuota di presa sul mondo. Mi pare, Stefano, che la tua lettura riconosca e valorizzi tutto questo, e te ne ringrazio tanto.

    Grazie davvero anche per aver citato il mio lavoro su DuPlessis, che studio e amo, ma alla cui tradizione cosmopolita e sincretica non posso, ahimè, con altrettanta sicurezza attingere. Mi son fatta ispirare, però, dal suo sguardo laterale: mi piace portare una visione periferica sulle cose, stare insieme a cose molto 'locali'. Quando stavo sul treno che una volta alla settimana mi portava a Padova e ritorno, registravo le conversazioni strampalate dei passeggeri, le mezze conversazioni al telefono (una volta che ero senza registratore ho trascritto punto-punto il farneticante dialogo tra due avvocati sulle pagine di Vanità della mente di Villalta – speriamo non me ne voglia), le parole casuali che a tratti riemergono nella sezione “Trenitalia”. C'era consapevolezza dell'inanità, sì, ma io cercavo – ingenuamente, ma con felicità – grumi di utopia.

    un saluto caro,
    Renata

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  4. Fai bene a cercare "utopia" nell'atopia, perché è proprio nel buio e nell'assenza che qualcosa può fiorire. A patto che, come dici tu, la prossimità diventi relazione, non mera "connessione". E il giardiniere abbia cento mani e cento nomi: istituzione pubblica, individuo, società private, associazioni...

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