Dei migranti derelitti
e relitti, spiaggiati moribondi o morti, o traghettati dall’inferno acquoreo
alla terraferma concentrazionaria si è scritta molta poesia nell’ultimo
decennio. E necessariamente. Tuttavia non è facile uscire dalla retorica e dal
pietismo conformista. C’era riuscito Fabiano Alborghetti, con L’opposta
riva (LietoColle, 2006) – di cui è uscita da poco una nuova edizione per La
Vita Felice, con molte poesie ripensate per migliorarne la comunicabilità – e
ci e riuscita Renata Morresi con Bagnanti
(Giulio Perrone editore, 2013), ma con differente intenzione. Tanto Alborghetti
curò l’immedesimazione, il punto di vista dei migranti, preoccupandosi di
raggiungere il lettore tramite un’epica sciolta da eccessiva retorica, quanto
invece la Morresi agisce sul piano espressivo, usando le parole come fossero tonalità
cromatiche, pennellate che non descrivono ma alludono a una scena, la
richiamano per intensità, al modo della pittura impressionista, dove conta
l’emozione prima che il dettaglio naturale, l’effetto della materia sulla
retina, prima che il giudizio analitico sull’evento. Un dire comunque concreto,
che resta ancorato alla materia di cui quel naufragio è fatto: ci sono rettili
e altre “antiche / genealogie anfibie” in quel paesaggio agostano, mescolate ai
quieti bagnanti, a insegne, alla curva del paesaggio lampedusano.
La focalizzazione delle
scena nella sua evidenza cronachistica non è immediata, ma quando tutto si fa
chiaro ed entra persino un’intervista del Corriere
della Sera a due elicotteristi che intervengono nei salvataggi, allora il
dramma acquista dimensioni epiche; la stessa poesia, nella sua struttura
formale, sembra un corpo martoriato, franto, dove il senso si rompe di continuo
per l’enjambement o per lo sfocato (memore forse delle cattedrali monetiane),
dietro il quale intuisci forme umane, disumane, elementi d’accumulo, ossi,
carte d’identità, il fucsia di una tunica “rotonda / come una medusa”.
Il secondo paragrafo ci porta in un aeroporto, un non-luogo raccontato in presa diretta, nella forma del monologo interiore, con frequenti parole-picchetti che attestano la precisione di ogni gesto, in un’aggettivazione cara a Milo De Angelis: esatte sono le rotelle (del trolley), esatti i negozi, perfetta la volta, dritta la schiena, preciso il saluto. Ma qui, al metafisico deagelisiano, si sostituisce il grottesco, il pasticciaccio gaddiano teso a raccontare un attraversamento-naufragio carico di oggetti, di persone anonime, con le quali stare temporaneamente insieme, temporaneamente separati, in una predisposizione ad “ammazzare il tempo” ingoiando tavor, cazzeggiando, e facendo i turisti in terra egizia, tra odori mestruali e “inguini struscianti / sul nylon delle calze”.
Il contrasto fra le due
comunità migranti è radicale; il giudizio della Morresi, implacabile. Eppure
lei, come noi, stiamo fra quelli che colonizzano lo spazio godibile, con voli
superinquinanti, solamente per stare al passo con i tempi. Con i nostri tempi. E con i nostri spazi. Che vengono raccontati nel terzo capitolo, “Vendesi”, nel
quale l’immagine diventa nitida, di un realismo molto quotidiano, direbbe
Sanguineti, pieno di dettagli, che tuttavia, anziché rassicurare, spiazzano:
ogni poesia è un’immersione nelle tenebre di un appartamento in disuso, in
vendita, o abitato da clandestini o da chi ha perduto ogni cognizione di sé. La
terra promessa è sott’acqua e nessuno si salva, nemmeno in occidente. Lo
sapevamo, ma ribadirlo con registro fotografico eppure distorcente come fa la
Morresi, non guasta.
A pag.54 c’è una poesia
concreta, “Facciata II”, con “il bianco della finestra aperta” nel mezzo del
quadrato e, in quel vuoto, se ci affacciamo, “si vede tutto” ossia il niente
che abbiamo edificato, più immondo che utile, e forse, come ricorda la poesia
successiva, che non ci sarà perdonato dalle generazioni future.
L’ultimo capitolo di
questo viaggio nell’Italia contemporanea ci porta dentro un “freccia bianca” di
Trenitalia, e ritorna il samba accelerato di uno spazio in cui le figure
entrano ed escono (“maglia blu-raffaello / da pallacanestro / sale // «non
prende» // madre messa / in piega mette / mano alla presa / stenta) e così via
in un procedere per condensazioni analogiche da “grand vitesse” dove domina il
vedere, lo sbirciare, il chiacchiericcio persino sulla velocità stratosferica
di certi oggetti extraterrestri, che si muovono “in tondo”, laddove il
naufragio della civiltà procede lento, inesorabile e in linea retta. Insomma,
questo viaggio su Tenitalia, dove si incontrano personaggi che prendono la
valigia al modo del caproniano viaggiatore
cerimonioso (“può aiutarmi / con la valigia?”) e stampatelli maiuscoli come
il “PUBBLIC TRASPORT” lontano parente del “TRANSOCEAN LIMITED IMPORT EXPORT
COMPANY” della ragazza Carla di
Pagliarani, questo viaggio, dicevo, diventa – come in Caproni, ma con maggiore
drammaticità – l’allegoria della nostra vita, tutta scorci, tutta frammento
ansioso e mai vivibile nella pace di veri bagnanti, ossia in armonia con il
paesaggio, con noi stessi e con gli altri.
Quello che in principio sembrava un
libro sulla strage mediterranea, sulla deriva dei derelitti africani, si scopre
un racconto sulla solitudine, sui tic della globalizzazione, sul vuoto quale
interstizio dominante fra poco e poco, quel quasi niente che siamo nella nostra
originalità residuale e a rischio d’estinzione. Un libro dal forte impegno
etico, dunque, in dialogo con la poetessa newyorkese Rachel Blau DuPlessis, di
cui la Morresi ha tradotto Dieci bozze
(Vydia editrice, 2012. Premio per la traduzione “Achille Marazza”, 2014) e dei
cui Drafts (schizzi, brutte copie)
scrive: “Ecco che i Drafts nascono
non in fuga dagli eventi storici, né tesi verso miti universalizzanti, né
modellati sulla forza esemplare di un io stabile. Al contrario: vogliono stare
dentro il vivo e contraddittorio andirivieni della storia nel suo farsi, storia
che rischia sempre di sprofondare nell’oblio o di essere requisita dalle
logiche proprietarie di pochi forti”. Bagnanti
segue la stessa passionale intenzione, la stessa idea cumulativa: per
frammenti, per microstorie, usando “una multivocalità che spezzi l’ordine
usuale dell’esperienza linguistica”, come scrive la stessa Morresi a proposito
della poetessa americana, al fine di tenere viva la presenza del margine, di
quanto altrimenti sarebbe rimosso dal tempo accentratore del capitale.
Da
“Bagnanti”
essere
molti e saline
vive e
più mobili
del
mare, abitanti
confusi
a risalire
all’indietro,
ad uno
stile
nobile, le antiche
genealogie
anfibie
*
fuori
l’anno agosto,
preceduto
dal lavorio di un secolo
di
settimane
la
cronaca ufficiale lo annuncia
fino a
che non cade, resta
la
bouganvilla rossa
intreccia
la
stagione totale
*
dalle
rocce dai picchi sulle acque gli iddii
vedrebbero
popoli morbidi lentissimi
fondersi
agli anemoni polipi i tanti
piedi
avvinghiati agli scogli
staccarsi,
larve sbocciare
in
azzurri
dagli
astri, gli stessi
continuamente
fossili
*
le
nostre vite dicembre
sulle
isole Pelagie
furono
dei pirati
dei
Tomasi
feste
lente
lingue
di lava
pause
lunghe un Pleistocene
ciascun
erede della casata
sparso
alla sua longitudine
se
allarga le braccia, se abbraccia
è una
cala
entrata
naturale
ma
come, cosa, chi altri
che
l’aria
*
mischiati
rettili, bivalvi, i vicini
d’ombrellone
o crostacei,
dèi
alieni, relitti d'astronavi
in una
scorza che è già pelle
abbiamo
sciolto insieme
i
sangui nelle spugne,
pianto
interi regni
folli
di molecole
*
è che a
forza di pensare all’Italia
siamo
diventati un po’ Italia anche noi
mugola
da scorza vecchissima
mugola
mucosa
ulcerata
dalla plastica
c’hanno
visti con le altre nelle vasche
a
Linosa all’ospedale
cinquanta
chili o dieci o due di carapace
(le
bambine più bruciate) in cura dalle piaghe
prega
per dio non dal mare
*
Da
“Vendesi”
Viale Martiri
In
distinto condominio anni 60
finiture
in buono stato per le scale
nella
camera sui muri ombre di mobili
sgomberati
da tempo come una sindone
ma la
signora che non aveva figli
ha
lasciato l’immobile a un Istituto
di
Torino che le regalava sempre
il
calendario cioè una volta all’anno.
*
Annunci
Dicono
tutti rifinito con cura
funzionale
servitissimo adiacente
su due
livelli su tre livelli su
struttura
ristrutturata di recente
ideale
per gli amanti degli spazi
originali
giardino effetto-subito
sito su
ampia visione mozzafiato.
A sé
stante. Indipendente. Finito.
*
Agente immobiliare
Oh i
tuoi temi, uso eguaglianza restauro
esclamazione,
con tutti i presidenti
sulle
scale, la veranda, il posto auto,
quel
che aderisce e prosegue ché nessuno
facilmente
viene a patti con la morte.
Le
parti costituenti il corpus casa
nazione,
parti belle più parti immonde,
mai
assolte dal responso del futuro.
*
Viale Martiri II
Messi
in ordine sensazionale verso
ovest
sul letto senza guardarsi pronti
a
rientrare in funzione bravi peluches
disposti
a ricordarsi tutto a portare
sia la
lezione schietta dell'esistenza
(qua il
contatto, là il lavoro, dio e il di più)
sia la
follia del suo rabido guerrare
sfibrarsi
sfinire tornare, assenza.
*
Costruzioni Tartari
Il
geometra stende bene la pianta
millimetrata
della casa, espone
con
cura il modellino giallo con alberi
di
cartonato verde, il tetto rosso
da
progetto e i pupazzetti che sostano
all’ingresso,
uno vestito di grigio
uno con
la gonna rosa – com’è facile
guardare
un colore e vedere il deserto.
Le raccolte di poesia
edite di Renata Morresi sono: Cuore comune (peQuod 2010), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (La camera verde, 2013).
Recentemente ha vinto il premio Achille Marazza per le prime traduzioni in
italiano della poeta americana Rachel Blau DuPlessis, con Dieci Bozze (Vydia 2012). Altre sue traduzioni di DuPlessis sono in
Bozza 111: Arte povera (Arcipelago
2013) e EX.IT - Materiali fuori contesto
(a cura di M. Giovenale, M. Guatteri, G. Marzaioli, M. Zaffarano, La Colornese
2013). Sue poesie sono in varie riviste e antologie, tra cui: Il Caffè
illustrato, Alfabeta2, Trivio, Il nostro Lunedì, Registro di poesia #4 (a cura
di G. Alfano, d'if, 2011), Locandine d'artista (a cura di A. Semerano, La
camera verde, 2009), Nodo sottile 4 (a cura di V. Biagini e A. Sirotti,
Crocetti, 2004) e altrove. Scrive per riviste, cartacee e on-line (Nazione
Indiana, punto critico, ecc.). Collabora con l'Università di Macerata.
Avevo già avuto modo di apprezzare la poesia di Renata Morresi, e questo post sul suo ultimo libro me ne dà la conferma. Morresi fa un uso chirurgico, sapienziale, reinventivo della parola, come nella migliore poesia, l'unica che vale, per me. Mi colpisce, ad esempio, come nel verso "le nostre vite dicembre", "dicembre" suoni come aggettivo femminile plurale, così come in "fuori l'anno agosto" lo stesso valga per quest'ultimo nome di mese, che pare attributo di "anno". Ma ben altri commenti si potrebbero fare, valga per tutti l'ottima introduzione di Stefano, che potenzia sempre la generosa lettura dei poeti contemporanei con la sua acuta sensibilità di poeta.
RispondiEliminaMi piacciono queste tue osservazioni sul particolare, cara Luisa: è infatti nella gestione del particolare che si vede il poeta e il buon lettore.
RispondiEliminaCiao Luisa, grazie per l'attenzione con cui hai letto: sì, anche io penso le “vite dicembre” e “l'anno agosto” come coppie di nome-aggettivo. Che entrambi gli attributi esprimano delle indicazioni temporali mi pare – a posteriori – buon segno, buono almeno rispetto a quella che era la 'radiazione di fondo' (passatemi il termine, preferisco non chiamarla 'intenzione') in cui andavo componendo questo libro, ovvero la voglia di esplorare certe nicchie di presunta normalità per schizzare qualche scorcio della 'modernità liquida' alla deriva, che trascina con sé e rimescola le categorie grammaticali, così come quelle di tempo e di spazio.
RispondiEliminaNon è sempre una bella scena. Come la grande isola di immondizia che galleggia nel Pacifico, con le sue ventimila gialle paperette di plastica, è a volte grottesca, a volte struggente. Si flotta tutti insieme allegramente spaventosi, alieni non funzionanti, sempre in tondo sull'oceano. Mi interessa/va questo schiacciamento sull'immediatezza sempre sfuggente del presente prodotto dalla nuova (ormai semi-nuova) dimensione globale, che connette ma non unisce, che sembra parificare i soggetti mentre li svuota di presa sul mondo. Mi pare, Stefano, che la tua lettura riconosca e valorizzi tutto questo, e te ne ringrazio tanto.
Grazie davvero anche per aver citato il mio lavoro su DuPlessis, che studio e amo, ma alla cui tradizione cosmopolita e sincretica non posso, ahimè, con altrettanta sicurezza attingere. Mi son fatta ispirare, però, dal suo sguardo laterale: mi piace portare una visione periferica sulle cose, stare insieme a cose molto 'locali'. Quando stavo sul treno che una volta alla settimana mi portava a Padova e ritorno, registravo le conversazioni strampalate dei passeggeri, le mezze conversazioni al telefono (una volta che ero senza registratore ho trascritto punto-punto il farneticante dialogo tra due avvocati sulle pagine di Vanità della mente di Villalta – speriamo non me ne voglia), le parole casuali che a tratti riemergono nella sezione “Trenitalia”. C'era consapevolezza dell'inanità, sì, ma io cercavo – ingenuamente, ma con felicità – grumi di utopia.
un saluto caro,
Renata
Fai bene a cercare "utopia" nell'atopia, perché è proprio nel buio e nell'assenza che qualcosa può fiorire. A patto che, come dici tu, la prossimità diventi relazione, non mera "connessione". E il giardiniere abbia cento mani e cento nomi: istituzione pubblica, individuo, società private, associazioni...
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