martedì 8 aprile 2014

Sui libri di cui taccio

"Costrure" di Tracciamenti (Giuda Edizioni)

Una considerazione preliminare: mi potrei sbagliare. E una seconda: ma potrei non avere torto. Qui di seguito le ragioni per cui non ho scritto la recensione a molti libri che mi sono arrivati per Blanc. Libri che per altro sono finiti nella mia libreria (non in discarica). Mi potrei sbagliare, appunto. E potrei cambiare la mia idea sulla poesia in italiano, da scrivere oggi, dopo il simbolismo, l'ermetismo e la neoavanguardia. E dopo la parola innamorata e ritrovata. E dopo il Gruppo 93. Scrivere oggi durante l’ultima roccaforte sperimentale, quella della Prosa in prosa,  dell’Ex.it 2013. In un tempo in cui, per converso, scrivere “poesia semplice”, come ci ricorda Paolo Zublena ne La parola plurale, non è una scappatoia o una semplificazione, ma l’ardua salita di chi cerca una radice forte, che sa cogliere il quotidiano nella sua opacità, nel suo essere perturbante. Chi ci riesce, naturalmente.

A dire il vero, non c’è struttura verbale, entro il paradigma poesia, che non sia attraversata dal perturbante. Il tempo è perturbante, la tradizione, la complessità delle sistema comunicativo-relazionale, le identità sono perturbanti, e perturbate. Ferite, potremmo dire, usando la figura della personificazione. La Scelta di far circuitare, nel testo, il tellurico o la quiete, il lessico di secondo grado o quello sorgivo, di mettere al centro, di lato o fuori, la carne, la biografia, il desiderio, il silenzio funziona da sempre, se si crea una sconnessione fra progetto e fare, una faglia dove inciampano il cliché, lo stereotipo, la certezza di avere chiuso il cerchio. Chiudere il cerchio non è mai stato possibile perché il perturbante, nostro malgrado, crepa l’asfalto come l’erba, corrode come l’acido, inquieta come l’attesa amorosa. Il perturbante è il senza-nome che ci spinge a ripensare il caso e la necessità, a ricomporli o a lasciarli nelle loro sconnessioni, a inventarci la poesia di corte o del laborintus. In entrambe c’è il lavoro e il labirinto, ma anche una società che le sorveglia. Questo il poeta lo sa. Il poeta lo fa.

Molti libri che ricevo mancano di tutto questo. O ce l’hanno un poco, per l’inevitabile processo di alfabetizzazione e scambio (via mail, facebook, reading, corsi di scrittura creativa, istituzione scolastica) oltre che per naturale sensibilità dei corpi viventi e variamente portati alla scrittura. Che per questo, mettono in gioco metafore e sintagmi presi inconsapevolmente in prestito dai maestri, per poi dire: “Vedi, anch’io soffro”. In effetti, il male di vivere è dappertutto. E tutti abbiamo una biografia, dove qualche taglio mortale ci ha amputati qualcosa. Ma la poesia non può permettersi di sottostare a questa logica dell’immediatezza, falsamente democratica. La democrazia si pratica nella misura in cui si crea l’in-comune, in cui ci si stacca dal naturale corso degli eventi. Creazione e libertà stanno insieme, così come partecipazione: non si segue il branco (che è un modo di partecipare proprio ai totalitarismi), si costruiscono traiettorie nella quali l’altro possa sentirsi a proprio agio eppure turbato, sapendo che il paradiso è perduto dal principio, e il sentimento di esilio e morte ci costituiscono preliminarmente a ogni organizzazione politica.


Fare poesia, oltretutto, da quando è finito il mecenatismo, implica stare esposti al tiro dei cecchini. Cecchino è tutto quanto può mettere in pericolo l’opera: il buon critico e l’invidioso, la debole consapevolezza e la presunzione. La torre sferzata dalla burrasca non è il posto adatto per i poeti in tempo di pace: il vento viene piuttosto da dentro e li rende sempre insoddisfatti del proprio labor-intus. Io ricevo invece libri con poeti spesso sicuri di aver scritto un capolavoro o, al contrario, ma raramente, così afflitti da quel vento, che sono disposti ad essere umiliati, cancellati. Saper giustificare le proprie scelte è uno dei doveri di un poeta, pur nella consapevolezza che si sta camminando sul filo. Un filo che deve avere un capo nel crogiuolo contemporaneo (ecco il legame con l’introduzione di questo breve saggio) e uno nel cielo o all’inferno. Anche nell’ombelico, ma profondamente: siamo nati da madre e da padre, siamo cresciuti da una famiglia, da una città, da uno Stato, viviamo in un reticolo inestricabile. Il nostro ombelico ci racconta tutto questo: è l’effetto di un’amputazione, di un legame originario, di un destino segnato dalla morte. Molti libri che ricevo, invece, rinunciano a toccare questi confini, stanno nel mezzo, nel medio tepore, nel modesto crepuscolo, ma senza ironia, senza trambusti. “Io sono io”, dicono noiosamente. Oppure parlano del mondo, che non capisce, che è violento e arrogante, che tratta male le donne e i bambini. Lo sappiamo già, grazie. Se c’è violenza, dico, mostrami che tu non la fai alle parole. Se c’è arroganza, evitala nel testo. Oppure crea un sistema che metta in disequilibrio le mie certezze. Allora ti leggo, ti penso. Imparo.

27 commenti:

  1. Una lettura fitta di spunti su cui riflettere.
    Grazie Stefano.

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    1. beh, tu hai tutti i numeri per fare la tua strada. Grazie per il commento!

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  2. capire sempre di più quanto manchi di sapere e conoscere e vedere tutti i limiti, anche se sorridendo..
    ma sorridere non vuol dire 'vabbè dai, va bene così'..

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    1. i limiti li si vede da fuori: a questo servono gli amici :-)

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    2. oh.. spesso anche da dentro.. :)

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  3. potresti però non tacere della fonte dell'immagine che è "Costure" di Tracciamenti (Giuda Edizioni)

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    1. sì infatti, scusa. Lo metto sotto la foto.

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  4. mi piacerebbe conoscere i nomi dei poeti che si piangono addosso!
    :-))

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    1. se giri per la rete ne trovi molti. oppure non serve piangere, basta soffiare dentro l'io e lasciargli prendere troppo la parola. Il difficile è non farlo. ciao!

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  5. (meno male non è il mio caso!;-))
    ciao Sisifogugl!
    a presto

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  6. Caro Stefano, il labirinto e la morte, Minosse e l'"orcaferone", direbbe D'Arrigo.
    E il cerchio che ci consuma ... E quant'altro ...
    Leggo la tensione che mi scuote in questo tuo brano. Quella tensione (quel quid) che a tanta/troppa pseudopoesia manca. Ma non era un brano critico? Ciò che manca, spesso, è ciò che io chiamo "squarcio", e l'umiltà data dal senso di finitezza (e tanto altro -ezza).
    Un abbraccio
    Giuseppe (giesse)

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    1. è un brano critico, infatti :-) D'Arrigo è il più grande scrittore siciliano del novecento. Più di Consolo, per quanto quest'ultimo sia più lirico. Ma quanti di bravi ne avete voi?

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    2. Il destino dei grandi, a volte ... Credo anch'io (ma non sono un "letterato", lo dichiaro tranquillamente) che D'Arrigo sia il più grande scrittore siciliano del 900. Mi pare (?) lo si faccia passare per "sperimentalista astratto", ma ho goduto a leggerlo come con nessun altro (di quelli che ho letto). Di Consolo non ho letto nulla. Mi fa piacere che tu apprezzi D'Arrigo.
      giuseppe

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  7. Liliana Zinetti9/4/14 19:45

    Potrebbe anche essere interessante invece leggere i cattivi "esempi", perlomeno qualcuno ( non soffriamo troppo: ) che c'è del vero in quel che dici, anche se la poesia non è una scienza esatta.

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    1. lo sai com'è difficile dire a qualcuno che non è il re d'italia. E poi io non sono nessuno: da che pulpito dovrei dirlo? Qui ho semplicemente detto con chi preferisco passare il tempo. Poi ognuno rilegga i propri fogli e quelli di chi ha reistito più di due stagioni. Un caro saluto!

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  8. [..] "Allora ti leggo, ti penso. Imparo."

    Mi sembra una formulazione equilibrata, sostanzialmente ineccepibile. Da un lato riconosce che l'elaborazione dell'“Io sono io” può essere un'attività vitale e talora indispensabile dal punto di vista "personale", dall'altro delinea la difficoltà, ovvero l'eccezionalità dell'aggancio fra questo punto di vista e quello "collettivo", esposto ad una concorrenza darwiniana a malapena velata dalle buone maniere. Mentre sul piano personale ci proiettiamo senza sforzo, probabilmente per marchingegni innati tipo "neuroni specchio", e giudichiamo secondo simpatia ed antipatia (intese in senso lato) metter becco sul piano "collettivo" è impresa assai difficile e azzardata. Ricordo che le modellizzazioni che più mi convinsero razionalmente furono quelle di Bourdieu, per esempio nella sua ricostruzione della rilevanza di Baudelaire nella storia del campo letterario. Però mi lasciarono anche addosso una specie di costernazione, come dire: ok, ok però non voglio saperne di più. Nella realtà, mi pare che nell'"allora ti leggo, ti penso, imparo" contino moltissimo le componenti affettive: una certa lettura, anche critica, ti impressiona profondamente in un momento particolare della tua vita e da questo seme si determina un sviluppo delle diramazioni successive della conoscenza, che di fatto risulterà irrapportabile (se non su limitati aspetti agevolmente "separabili", come quelli strettamente formali) con sviluppi dall'origine differente. Come le religioni insomma.

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  9. sì, credo che l'elemento affettivo sia inevitabile in una relazione attiva. Si può sfumare nei libri secolari, dove la critica ha creato uno spessore di verità impersonale. Essere contemporanei all'autore significa anche sentirlo emotivamente, compartecipare alla sua ricerca perché senti che ha molto a che fare con la tua. grazie per questo intervento caro Elio.

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  10. l'elemento affettivo è fondamentale, per una buona riuscita di immedesimazione nei testi, di lettura dell'altro, poeta
    io, se scrivo su qualcuno, devo farmi un bagno nella su mondo, prima, devo sentirne l'odore, la forza...altrimenti ne risulterebbe un giudizio asettico, disinteressato, superficiale.

    forse questo errore l'ho fatto leggendo i testi qui sotto, e me ne scuso.
    sono stata precipitosa...

    ciao Stefano, ti ho dedicato un fiore :-)

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  11. Caro Stefano, complimenti! Ho l'impressione che tu abbia individuato e risolto tutte le vie di fuga, "quella distanza che muove la vita con delle parole"....La poetica, la regina del secondo Novecento.... Il problema è che essa non produce, in genere, poesia. Può addirittura smagrirsi in stilistica. Credo invece che un pò di divino o demoniaco sia necessario e che le forme, tutte le forme, nella Storia possano essere in corrente o contro e, per questo, banalizzarsi o rovesciare. Per concludere brevemente, penso che le poetiche hanno la ragione di essere tali solo se a produrle sia il testo e non le intenzioni pretestuali. Molto d'accordo con te sui guardiani dei cimiteri.

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  12. grazie a voi per questi due commenti.

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  13. Liliana Zinetti11/4/14 13:43


    non sono proprio d'accordo su quel che dici, credo che la critica debba essere "critica" e non solo empatia. Con questo ti capisco, io che pure non sono un critico, ma un'appassionata, ho dato il mio parere (richiesto) ad alcuni e dato che sono geneticamente incapace di mentire, coi dovuti modi ovviamente, ho risposto rilevando le mie perplessità sui testi. Inutile dire che non mi hanno neppure risposto. Uno solo mi ha contattato, ma chiaramente scocciato dalle mie osservazioni. Ciao, buona giornata! Liliana Z.

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    1. Mi sono spiegato male: non esiste l'oggettività assoluta nei saperi di tipo pratico e poietico (e nemmeno in quelli scientifici, del resto). Di conseguenza il margine di soggettività, nella critica letteraria, si mostra sotto forma di disposizione o indisposizione emotiva verso il testo. Ovviamente, bisogna controllare questa parte e agire sul pedale delle competenze critiche, Cosa che mi sembra di fare, del resto.

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  14. il problema è che siamo troppo umani
    (e meno male)
    perchè la critica può ferire profondamente, ma come diceva Rilke, la sua interpretazione è relativa.

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  15. Ho letto tutto, l'ottimo articolo e i vari commenti, con molto interesse.
    Apprezzo e condivido ciò che hai risposto a Liliana : "non esiste l'oggettività assoluta nei saperi di tipo pratico e poietico (e nemmeno in quelli scientifici, del resto). Di conseguenza il margine di soggettività, nella critica letteraria, si mostra sotto forma di disposizione o indisposizione emotiva verso il testo. Ovviamente, bisogna controllare questa parte e agire sul pedale delle competenze critiche, Cosa che mi sembra di fare, del resto."
    E credo proprio che tu lo faccia

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  16. Il fu GiusCo18/4/14 22:49

    Ciao Stefano, da nota lingua lunga rovescio la prospettiva, curioso della tua risposta: se ti arrivano tanti libri è forse perché nel tuo lavoro pubblico (encomiabile, didattico, mappatorio) non si vedono né il tuo perturbante né il tuo scarto, quindi nessuno sente a pelle di doversi tenere lontano? Ciao e Buona Pasqua. Giuseppe.

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    1. Perturbante e scarto si vedono ma, da poeta-critico, non li sbandiero: ci vuole occhio per trovarli, sensibilità (cosa che tu hai). Talvolta però mi sbilancio: vedi la mia lettura a Scaramuccia, che s'è "infuriato" per questo, guardandosi bene dall'accettare il confronto pubblico.
      Buona Pasqua anche a te e alla tua famiglia!

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