"Costrure" di Tracciamenti (Giuda Edizioni)
Una considerazione
preliminare: mi potrei sbagliare. E una seconda: ma potrei non avere torto. Qui
di seguito le ragioni per cui non ho scritto la recensione a molti libri che mi
sono arrivati per Blanc. Libri che per altro sono finiti nella mia libreria (non
in discarica). Mi potrei sbagliare, appunto. E potrei cambiare la mia idea
sulla poesia in italiano, da scrivere oggi, dopo il simbolismo, l'ermetismo e
la neoavanguardia. E dopo la parola innamorata e ritrovata. E
dopo il Gruppo 93. Scrivere oggi durante
l’ultima roccaforte sperimentale, quella della Prosa in prosa, dell’Ex.it 2013. In un tempo in cui, per
converso, scrivere “poesia semplice”, come ci ricorda Paolo Zublena ne La parola plurale, non è una scappatoia
o una semplificazione, ma l’ardua salita di chi cerca una radice forte, che sa
cogliere il quotidiano nella sua opacità, nel suo essere perturbante. Chi ci
riesce, naturalmente.
A dire il vero, non
c’è struttura verbale, entro il paradigma poesia,
che non sia attraversata dal perturbante. Il tempo è perturbante, la
tradizione, la complessità delle sistema comunicativo-relazionale, le identità
sono perturbanti, e perturbate. Ferite, potremmo dire, usando la figura della
personificazione. La Scelta di far circuitare, nel testo, il tellurico o la
quiete, il lessico di secondo grado o quello sorgivo, di mettere al centro, di
lato o fuori, la carne, la biografia, il desiderio, il silenzio funziona da
sempre, se si crea una sconnessione fra progetto e fare, una faglia dove
inciampano il cliché, lo stereotipo, la certezza di avere chiuso il cerchio.
Chiudere il cerchio non è mai stato possibile perché il perturbante, nostro
malgrado, crepa l’asfalto come l’erba, corrode come l’acido, inquieta come
l’attesa amorosa. Il perturbante è il senza-nome che ci spinge a ripensare il
caso e la necessità, a ricomporli o a lasciarli nelle loro sconnessioni, a
inventarci la poesia di corte o del laborintus.
In entrambe c’è il lavoro e il labirinto, ma anche una società che le
sorveglia. Questo il poeta lo sa. Il poeta lo fa.
Molti libri che
ricevo mancano di tutto questo. O ce l’hanno un poco, per l’inevitabile
processo di alfabetizzazione e scambio (via mail, facebook, reading, corsi di
scrittura creativa, istituzione scolastica) oltre che per naturale sensibilità
dei corpi viventi e variamente portati alla scrittura. Che per questo, mettono
in gioco metafore e sintagmi presi inconsapevolmente in prestito dai maestri, per
poi dire: “Vedi, anch’io soffro”. In effetti, il male di vivere è dappertutto.
E tutti abbiamo una biografia, dove qualche taglio mortale ci ha amputati
qualcosa. Ma la poesia non può permettersi di sottostare a questa logica dell’immediatezza,
falsamente democratica. La democrazia si pratica nella misura in cui si crea l’in-comune, in cui ci si stacca dal naturale
corso degli eventi. Creazione e libertà stanno insieme, così come
partecipazione: non si segue il branco (che è un modo di partecipare proprio ai
totalitarismi), si costruiscono traiettorie nella quali l’altro possa sentirsi
a proprio agio eppure turbato, sapendo che il paradiso è perduto dal principio,
e il sentimento di esilio e morte ci costituiscono preliminarmente a ogni
organizzazione politica.
Fare poesia,
oltretutto, da quando è finito il mecenatismo, implica stare esposti al tiro
dei cecchini. Cecchino è tutto quanto può mettere in pericolo l’opera: il buon
critico e l’invidioso, la debole consapevolezza e la presunzione. La torre
sferzata dalla burrasca non è il posto adatto per i poeti in tempo di pace: il
vento viene piuttosto da dentro e li rende sempre insoddisfatti del proprio labor-intus. Io ricevo invece libri con
poeti spesso sicuri di aver scritto un capolavoro o, al contrario, ma
raramente, così afflitti da quel vento, che sono disposti ad essere umiliati,
cancellati. Saper giustificare le proprie scelte è uno dei doveri di un poeta,
pur nella consapevolezza che si sta camminando sul filo. Un filo che deve avere
un capo nel crogiuolo contemporaneo (ecco il legame con l’introduzione di
questo breve saggio) e uno nel cielo o all’inferno. Anche nell’ombelico, ma profondamente:
siamo nati da madre e da padre, siamo cresciuti da una famiglia, da una città,
da uno Stato, viviamo in un reticolo inestricabile. Il nostro ombelico ci
racconta tutto questo: è l’effetto di un’amputazione, di un legame originario,
di un destino segnato dalla morte. Molti libri che ricevo, invece, rinunciano a
toccare questi confini, stanno nel mezzo, nel medio tepore, nel modesto
crepuscolo, ma senza ironia, senza trambusti. “Io sono io”, dicono noiosamente.
Oppure parlano del mondo, che non capisce, che è violento e arrogante, che
tratta male le donne e i bambini. Lo sappiamo già, grazie. Se c’è violenza,
dico, mostrami che tu non la fai alle parole. Se c’è arroganza, evitala nel
testo. Oppure crea un sistema che metta in disequilibrio le mie certezze.
Allora ti leggo, ti penso. Imparo.
Una lettura fitta di spunti su cui riflettere.
RispondiEliminaGrazie Stefano.
beh, tu hai tutti i numeri per fare la tua strada. Grazie per il commento!
Eliminacapire sempre di più quanto manchi di sapere e conoscere e vedere tutti i limiti, anche se sorridendo..
RispondiEliminama sorridere non vuol dire 'vabbè dai, va bene così'..
i limiti li si vede da fuori: a questo servono gli amici :-)
Eliminaoh.. spesso anche da dentro.. :)
Eliminapotresti però non tacere della fonte dell'immagine che è "Costure" di Tracciamenti (Giuda Edizioni)
RispondiEliminasì infatti, scusa. Lo metto sotto la foto.
Eliminami piacerebbe conoscere i nomi dei poeti che si piangono addosso!
RispondiElimina:-))
se giri per la rete ne trovi molti. oppure non serve piangere, basta soffiare dentro l'io e lasciargli prendere troppo la parola. Il difficile è non farlo. ciao!
Elimina(meno male non è il mio caso!;-))
RispondiEliminaciao Sisifogugl!
a presto
Caro Stefano, il labirinto e la morte, Minosse e l'"orcaferone", direbbe D'Arrigo.
RispondiEliminaE il cerchio che ci consuma ... E quant'altro ...
Leggo la tensione che mi scuote in questo tuo brano. Quella tensione (quel quid) che a tanta/troppa pseudopoesia manca. Ma non era un brano critico? Ciò che manca, spesso, è ciò che io chiamo "squarcio", e l'umiltà data dal senso di finitezza (e tanto altro -ezza).
Un abbraccio
Giuseppe (giesse)
è un brano critico, infatti :-) D'Arrigo è il più grande scrittore siciliano del novecento. Più di Consolo, per quanto quest'ultimo sia più lirico. Ma quanti di bravi ne avete voi?
EliminaIl destino dei grandi, a volte ... Credo anch'io (ma non sono un "letterato", lo dichiaro tranquillamente) che D'Arrigo sia il più grande scrittore siciliano del 900. Mi pare (?) lo si faccia passare per "sperimentalista astratto", ma ho goduto a leggerlo come con nessun altro (di quelli che ho letto). Di Consolo non ho letto nulla. Mi fa piacere che tu apprezzi D'Arrigo.
Eliminagiuseppe
Potrebbe anche essere interessante invece leggere i cattivi "esempi", perlomeno qualcuno ( non soffriamo troppo: ) che c'è del vero in quel che dici, anche se la poesia non è una scienza esatta.
RispondiEliminalo sai com'è difficile dire a qualcuno che non è il re d'italia. E poi io non sono nessuno: da che pulpito dovrei dirlo? Qui ho semplicemente detto con chi preferisco passare il tempo. Poi ognuno rilegga i propri fogli e quelli di chi ha reistito più di due stagioni. Un caro saluto!
Elimina[..] "Allora ti leggo, ti penso. Imparo."
RispondiEliminaMi sembra una formulazione equilibrata, sostanzialmente ineccepibile. Da un lato riconosce che l'elaborazione dell'“Io sono io” può essere un'attività vitale e talora indispensabile dal punto di vista "personale", dall'altro delinea la difficoltà, ovvero l'eccezionalità dell'aggancio fra questo punto di vista e quello "collettivo", esposto ad una concorrenza darwiniana a malapena velata dalle buone maniere. Mentre sul piano personale ci proiettiamo senza sforzo, probabilmente per marchingegni innati tipo "neuroni specchio", e giudichiamo secondo simpatia ed antipatia (intese in senso lato) metter becco sul piano "collettivo" è impresa assai difficile e azzardata. Ricordo che le modellizzazioni che più mi convinsero razionalmente furono quelle di Bourdieu, per esempio nella sua ricostruzione della rilevanza di Baudelaire nella storia del campo letterario. Però mi lasciarono anche addosso una specie di costernazione, come dire: ok, ok però non voglio saperne di più. Nella realtà, mi pare che nell'"allora ti leggo, ti penso, imparo" contino moltissimo le componenti affettive: una certa lettura, anche critica, ti impressiona profondamente in un momento particolare della tua vita e da questo seme si determina un sviluppo delle diramazioni successive della conoscenza, che di fatto risulterà irrapportabile (se non su limitati aspetti agevolmente "separabili", come quelli strettamente formali) con sviluppi dall'origine differente. Come le religioni insomma.
sì, credo che l'elemento affettivo sia inevitabile in una relazione attiva. Si può sfumare nei libri secolari, dove la critica ha creato uno spessore di verità impersonale. Essere contemporanei all'autore significa anche sentirlo emotivamente, compartecipare alla sua ricerca perché senti che ha molto a che fare con la tua. grazie per questo intervento caro Elio.
RispondiEliminal'elemento affettivo è fondamentale, per una buona riuscita di immedesimazione nei testi, di lettura dell'altro, poeta
RispondiEliminaio, se scrivo su qualcuno, devo farmi un bagno nella su mondo, prima, devo sentirne l'odore, la forza...altrimenti ne risulterebbe un giudizio asettico, disinteressato, superficiale.
forse questo errore l'ho fatto leggendo i testi qui sotto, e me ne scuso.
sono stata precipitosa...
ciao Stefano, ti ho dedicato un fiore :-)
Caro Stefano, complimenti! Ho l'impressione che tu abbia individuato e risolto tutte le vie di fuga, "quella distanza che muove la vita con delle parole"....La poetica, la regina del secondo Novecento.... Il problema è che essa non produce, in genere, poesia. Può addirittura smagrirsi in stilistica. Credo invece che un pò di divino o demoniaco sia necessario e che le forme, tutte le forme, nella Storia possano essere in corrente o contro e, per questo, banalizzarsi o rovesciare. Per concludere brevemente, penso che le poetiche hanno la ragione di essere tali solo se a produrle sia il testo e non le intenzioni pretestuali. Molto d'accordo con te sui guardiani dei cimiteri.
RispondiEliminagrazie a voi per questi due commenti.
RispondiElimina
RispondiEliminanon sono proprio d'accordo su quel che dici, credo che la critica debba essere "critica" e non solo empatia. Con questo ti capisco, io che pure non sono un critico, ma un'appassionata, ho dato il mio parere (richiesto) ad alcuni e dato che sono geneticamente incapace di mentire, coi dovuti modi ovviamente, ho risposto rilevando le mie perplessità sui testi. Inutile dire che non mi hanno neppure risposto. Uno solo mi ha contattato, ma chiaramente scocciato dalle mie osservazioni. Ciao, buona giornata! Liliana Z.
Mi sono spiegato male: non esiste l'oggettività assoluta nei saperi di tipo pratico e poietico (e nemmeno in quelli scientifici, del resto). Di conseguenza il margine di soggettività, nella critica letteraria, si mostra sotto forma di disposizione o indisposizione emotiva verso il testo. Ovviamente, bisogna controllare questa parte e agire sul pedale delle competenze critiche, Cosa che mi sembra di fare, del resto.
Eliminail problema è che siamo troppo umani
RispondiElimina(e meno male)
perchè la critica può ferire profondamente, ma come diceva Rilke, la sua interpretazione è relativa.
Ho letto tutto, l'ottimo articolo e i vari commenti, con molto interesse.
RispondiEliminaApprezzo e condivido ciò che hai risposto a Liliana : "non esiste l'oggettività assoluta nei saperi di tipo pratico e poietico (e nemmeno in quelli scientifici, del resto). Di conseguenza il margine di soggettività, nella critica letteraria, si mostra sotto forma di disposizione o indisposizione emotiva verso il testo. Ovviamente, bisogna controllare questa parte e agire sul pedale delle competenze critiche, Cosa che mi sembra di fare, del resto."
E credo proprio che tu lo faccia
Grazie Cristina!
RispondiEliminaCiao Stefano, da nota lingua lunga rovescio la prospettiva, curioso della tua risposta: se ti arrivano tanti libri è forse perché nel tuo lavoro pubblico (encomiabile, didattico, mappatorio) non si vedono né il tuo perturbante né il tuo scarto, quindi nessuno sente a pelle di doversi tenere lontano? Ciao e Buona Pasqua. Giuseppe.
RispondiEliminaPerturbante e scarto si vedono ma, da poeta-critico, non li sbandiero: ci vuole occhio per trovarli, sensibilità (cosa che tu hai). Talvolta però mi sbilancio: vedi la mia lettura a Scaramuccia, che s'è "infuriato" per questo, guardandosi bene dall'accettare il confronto pubblico.
EliminaBuona Pasqua anche a te e alla tua famiglia!