[Recensione uscita su "Qui Libri" n. 21 gennaio/febbraio 2014]
L’ultimo
libro di Stefano Guglielmin Le volpi gridano in giardino (CFR Edizioni 2013)
raccoglie testi, secondo quanto dice una nota dell’editore Gian Mario Lucini,
su cui l’autore, critico letterario e poeta, a lungo ha meditato. Si sente
subito la forza della parola, quel quasi
staccarsi dalla pagina per eccesso e urgenza di dire. La prefazione di Paolo
Donini, avverte il lettore che: “ La raccolta traghetta una funzione inclusiva
e superante. Il che significa, quanto a cifra stilistica, la concessione di
pieno credito a una sperimentazione (talora anche a un virtuosismo), crossover rispetto a generi e
registri...”(p.5). Guglielmin ci dà un libro aperto, in quanto a interrogazioni,
e nello stesso tempo le varie parti che lo compongono sono leggibili a sé.
Percepiamo una lingua che non si rassegna al conformismo di troppe scritture
poetiche e la ricerca personale dell’autore ne emerge lucida, fluida e ricca
dell’intuizione di un “tu” che contempla l’altra, dando risonanza, senza
complessi, a quel femminile così arduo da tradurre, facendone pensiero e non
ideologia.
Nei
“Canti dell’amore coniugale” abbiamo quasi una vertigine lirica che coniugata
alla ricchezza di immagini ci porta nel solco della poetica di Stefano
Guglielmin. È come se
qui l’autore lasciasse cadere ogni
resistenza dando corpo fisico alle parole, scucendo i versi ed esponendoli
senza difesa, come è per chi ha troppo da dire e segue la voce più che
cercarla: “Comincio dai miei forse, dal grano della tua/ quiete, ferita, sì, ma
salda come il pane alla mia/ fame...” (p. 11). Poco più avanti una poesia dal
titolo “Se la voce, sola” dà il segno della parola che incarna amore ed è
significato che parla oltre noi e per noi: “ se ogni voce parla per noi....” e
“se io romeo e tu perfetta/ in bilico sul canto, su questo, / stento/ se di
nuovo esito tra palude e sorso...” (p.14); tutto condensato in versi
chiarissimi e in cui dettato e forma trovano un equilibrio raro in cui nulla è
a forza pacificato, piuttosto vi è l’accettazione dell’esperienza, un sapere
minimo, ma proprio in questo profondo, che ogni cosa ha un doppio e ciò che è
amato, a volte divora; così nella poesia che segue: “ ...pare il cerchio/ una
figura d’amore, perfetta/ se non divora la prole”(p.15) Guglielmin tocca nel vivo l’ambiguità di chi si dà con
una totalità che è rischiosa, quasi un fare pasto, prendere dell’altro la
lingua stessa, esserne voce afona, gorgo.
Le
altre sezioni del libro, tra le quali quella molto bella delle “Poesie
Londinesi” sono una discesa nel tempo malato, in una contemporaneità dove la
voce scompare e riappare: “Non c’è canto, lo so. Però il corpo/ talvolta, parla
da solo...” (p.24) e dove la figura della madre è evocata, come nei “Canti
partigiani”, a suo tempo già usciti in una silloge, da un figlio amaro e
impaziente, che non sembra conoscersi. Tra essere e avere, una stessa voce,
dipana il suo filo e chiede al femminile, assente, di presiedere a un
testamento.
Nell’ultima
parte del libro l’autore dispiega la sua vena ironica, incanta quasi con giochi
verbali dove poesia e rumore del presente si accendono e rincorrono in un
afflato mai fine a se stesso, ma teso a tradurre quel complicarsi del vissuto
che da decenni ci attanaglia.
caro Stefano, non riesco a commentare direttamente per un qualche problema col server che mi cancella ogni volta. Ti affido quindi poche righe, anche per un saluto, dove vorrei dirti che appunto il tuo bel libro ha un respiro come pochi. La recensione già dice anche il resto, lascio qui solo un ulteriore segno di stima. nadia agustoni
RispondiEliminaGianmario tutto attaccato!
RispondiEliminacomplimenti :-)