Dice
benissimo Francesco Tomada, presentando Guido
Cupani al festival “Acqua di acque”: le sue “parole
spesso partono dalla quotidianità e dalla terra, per poi liberarsi e cercare da
sole il loro compimento. Ne deriva una poesia rastremata, leggera e densa al
tempo stesso, in cui si aprono epifanie improvvise come porte per accedere ad
una interiorità possibile”.
Astrofisico,
Cupani mette l’eccitazione tremula della giovinezza entro la cornice nitida
dello sguardo da scienziato, per declinare il mistero irrazionale
dell’incontro. Nei versi del poeta friulano, l’accadere – anche il più banale
– si dà in un’eccedenza cui nessuno può
rendere conto, nemmeno la scienza. Un’eccedenza che ci immette, piuttosto, nel
tempo del lavoro e della festa, simultaneamente. Cupani insomma ci racconta che
ogni cosa, accadendo, fonda l’immisurabile dell’origine, l’unità avveniente che
la parola poetica fa sbocciare nel cerchio del senso, collocandoci così nella
prassi. Non c’entra Dio in quest’apertura: a metterla in essere è appunto
l’incontro, la cui verità diventa felicità, pur parziale e temporanea: “Una
felicità intera / è improbabile.” E comunque s’accompagna sempre con l’ombra
che l’eccedenza porta con sé.
Pur consapevole dell’immedicabilità del
vivere, egli evita il tono drammatico, alleggerendo il dettato con
un’autoironia appena percettibile, ma capace di creare spazio estetico e morale
tra il sentire e il vedere. “La vita è questa cosa che si è rotta” scrive in un
recente inedito, “ma forse ora riparte” aggiunge quasi subito. Questa
cognizione, tuttavia, non è soltanto frutto dell’intelletto o verità mutuata
dai libri. Leggendo Le
felicità, (Samuele Editore, 2011) e Qualcosa di semplice sulla neve, (Culturaglobale, 2013) si
sente l’animo gentile dell’autore, che ha trovato un equilibrio, anche
espressivo, tra la rivelazione dell’attimo immisurabile e la certezza sperimentale,
tra la lingua delle cose e l’alone imprendibile inscritto in esse, tra la frase
colloquiale e il guizzo vagamente lirico che la scardina dal contesto, per
sottolinearne il peso. La poesia di Guido Cupani, in effetti, non canta, ma ci
cammina a fianco e ci parla come un fratello maggiore.
Cosmologia
minima
Una ragazza piange.
Un pianto improvviso
come una scarpa slacciata fra un
passo
e l’altro, in piena regola, a
capo chino,
sola, le due mani sul viso.
Io che le passo
accanto e vorrei farmi albero o
mosca o muro, imparo
che il pianto è prima di ogni
motivo,
quotidiano, dimenticabile,
qualcosa di noto e sacro, che
accade
sulla terra, un
mercoledì, lungo la strada.
Appunti per una
scienza
da inventare
Mi chiedo se sia possibile
teorizzare
una termodinamica del dolore.
Capire come esso trascorra da un
corpo o mente
a un altro corpo o mente e se
qualcosa
vada perso nel mezzo e si degradi
in dolore più elementare.
Sperimentare come
si possa espandere un dolore
compresso
per attenuarne il morso.
Ricondurre
il tutto a una statistica di
innocue
particelle indolori in movimento
e ipotizzare un punto di riposo
– uno zero assoluto di dolore –
irraggiungibile come il bordo del
cielo
e la mattina di ieri. Misurare
il dolore. Stimare se su questo
pianeta opaco
il dolore totale prodotto sia più
o meno
di quello consumato. E magari poi
scoprire –
– scoprire che anche nel dolore
l’Universo è un sistema
isolato.
Liturgia
Religioso il sacchetto di
lattuga,
l’olio, l’aceto, il sale,
e religiosa la tua voce che mi
chiede
per favore
mi aiuti a
mescolare?
Il mio carisma è stringere
l’insalatiera celeste della cena
con ambedue le mani
mentre consacri a forchettate
il doppio prodotto alimentare
di tu più io elevato alla seconda.
Ecco fatto, esclami.
E ogni cosa è al suo posto
nell’angolo rituale di universo
che stasera ci compete.
Fantasia
I
Poco fa telefonato la vita
con la sua voce plurale di
formica
ha chiesto se c’era un tale ha
detto
di aver sbagliato numero in fretta
ha riattaccato
II
Hai visto nella folla la vita?
Agitava la mano nella nostra
direzione
come in fondo a un cannocchiale
capovolto
a ben guardare da un vago
spaesamento del volto direi che
forse non salutava noi ma qualcun
altro
per caso alle nostre spalle
III
Ti ricordi della vita?
Lei così alta e sottile un viso
non del tutto proporzionato
quel che si dice un tipo
è vero i dettagli le contingenze
l’erosione continua del tempo –
ma la vita
la vita tutta intera che ci
eravamo promessi
come puoi non
ricordarla?
In memoriam
R.P.W.
Considerate un momento
Robert Pershing Wadlow
che torreggiava
sulle prime quattro lettere di
Illinois
e aveva un letto lungo un weekend
da venerdì a lunedì
ma piedi fragili
come la statua che vide in sogno
Nabucodonosor
Di certo era gentile
e sebbene il libro dei record non
ne parli
lo si immagina facilmente in
primo banco
a cantare le lodi
ripiegato come un metro da
falegname
Portava in giro desideri
non più leggeri dei nostri
in un’aria più leggera
e sorrideva ai fotografi
perché ognuno deve fare il suo
lavoro
Forse doveva risparmiare sul
tempo
quel che aveva sprecato in
altezza
e morì ventiduenne
(dissero i dottori) ancora
intento a crescere
Lasciò soltanto la sua scarpa
destra
a Mr Snyder di Manatee
vuota come un punto di domanda
E forse non seppe mai
perché Dio l’avesse mandato qui
ad essere il più alto
e niente più
Atacama
L’astronomo:
Stelo verde che tremi
sopra la scorza secca del deserto
spero
che tu non abbia nome.
La pianticella:
Ero.
Sono.
Il
vento, il vento. Mi trapassa un dolore
che
non posso provare.
L’astronomo:
A
momenti usciranno le stelle. Cresceranno stanotte
più
di ogni altra notte.
Oh,
essere
come te,
stelo,
e non saperle.
La pianticella:
Chiedo
solo
di
vivere ancora. Lo chiedo
fino
all’ultima foglia.
L’astronomo:
Il
gelo che ci attende è più profondo.
Cadiamo
in ogni direzione
verso
il gelo. Non capiremo.
Passeremo
senza
diventare familiari all’universo.
Stelo,
non
ho più baveri da rialzare.
La pianticella:
Tendere
in alto
senza
volerlo.
Ecco
il mio nome.
L’astronomo:
Salutarci.
Solo questo ci è dato.
La pianticella:
Sono.
Sarò.
(Inediti)
Le margherite
Come
un bimbo volevo regalarti le margherite più belle del mondo
E
il mondo aveva invece solo queste margherite
scampate
alla battaglia con la pioggia sotto il cellofan del negozio
Mi
dirai che sono belle
Il
tuo sorriso è dove le cose smettono di deludere
Una
margherita sopra l'orecchio questa sera
Vedrai,
ne spunteranno ancora
I
tuoi capelli splendono quanto più sono pieni di nuvole
Ryôan-ji
C'è
una fontanella che gocciola
dall'altro
lato del pianeta
Pietre
occupano lo spazio
più
leggere dell'aria
Vorrei
chiedere ai turisti
di
abbassare la voce almeno nel ricordo
da
quaggiù
quasi
non sento lo squittio dei listelli
quando
passano i monaci
come
insetti sull'acqua
Guido
Cupani è nato a Pordenone il 29 giugno 1981. Abita a
Trieste, dove lavora presso l’osservatorio astronomico. Ama le
coincidenze, la grammatica, i quasar, il pomeriggio, la birra, gli insetti
di cui non conosce il nome. Ha esordito nel 2011 con la raccolta di poesie
Le felicità, pubblicata da Samuele Editore. Sempre per Samuele
Editore ha curato nel 2012 il volume Lettere
– a te e, nel 2013, la traduzione della silloge Nel santuario
di Patrick Williamson.
Mi fa un particolare piacere trovare qui le poesie di Guido Cupani, perchè penso che sia un autore davvero molto bravo. Mi aveva colpito la sua scrittura già prima di conoscerlo di persona, ma per me, che sono ancora legato con convinzione al concetto - forse adolescenziale - che diatro alla bella poesia ci sia una bella persona, Guido è stata una importante conferma: è come lo si legge, ed è animato da una sincera voglia di imparare e di confrontarsi, dote rara nella vita e dunque nella letteratura. Immagino che anche questa possa essere intesa come garanzia di quel "valore di verità" di cui parlavi tu, Stefano, nei tuoi saggi critici come strumento per valutare il valore della poesia.
RispondiEliminaFrancesco t.
infatti, Francesco, è così!
EliminaIn questi testi circola una naiveté ( non trovo i due puntini sulla i ) subito percepibile , che si fa apprezzare perché sorgiva spontanea autentica .
RispondiEliminaNulla di riconducibile all'ingenuità e alle sue ricadute effimere , bensì un "respiro" che si autoalimenta soltanto della sua "grazia"e della sua pulizia linguistica .
leopoldo attolico -
Com'è difficile leggere belle poesie come queste quando tua figlia (due anni e mezzo) gioca e canta con l'amichetta, tua moglie fa da "moderatore" e tu cerchi invano la concentrazione.
RispondiEliminaHai modo (e tempo) appena per carpirne l'autenticità. Ti riproponi di ritornarvi e pensi: quanti bei versi in rete, buon poeta!
Chiedo scusa, ancora una volta avevo dimenticato la firma:
RispondiEliminagiesse (alias Giuseppe samperi)
grazie Giuseppe!
RispondiEliminaRingrazio Stefano per aver colto così bene il senso dell'incontro, come io stesso non ero riuscito a definirlo. E ringrazio anche gli altri lettori dei gentili commenti! Come Francesco, sono anch'io convinto che la ricerca poetica non ha senso se non è un cammino spirituale di apprendimento e miglioramento continuo. La naïvete è la meta di un percorso che parte dall'ingenuità, attraversa i territori della confusione e dell'artificio e si ricollega dopo un lungo giro ai passi dell'inizio (come diceva Borges: «non la semplicità, che non è niente, ma la modesta e segreta complessità»). Sono contento di essere riuscito almeno ad evocarla. Queste osservazioni sono un bello stimolo a riprendere il cammino senza stancarsi.
RispondiEliminaGuido Cupani
L'universo è un sistema isolato...
RispondiEliminaviene da pensare a quanto le stelle distino tra loro, e distino da noi...
eppure a volte capita di sentirci molto vicino all'universo stellare...perchè?
ecco, questo è il tipo di poesia che sembra avvicinarsi alla scienza ma che mantiene intatta la sua origine di poesia, cioè descrittiva, di particolari stati dell'animo in cui si ritrova l'individuo ...e che ci fa sentire *eterni*.
sì, quello che dico io :-)
EliminaDostoevskij riteneva l'uomo del sottosuolo un prodotto "necessario" della sua epoca. Un po' allo stesso modo, queste poesie mi appaiono un prodotto quasi necessario di una tipica configurazione - sostanzialmente fortunata - di intelligenza, sensibilità e cultura, ma anche di bellezza sufficente a vivere un buon amore, ed energie in avanzo sulle urgenze della vita combinate al tempo libero necessario ad "investirle", sopra un solco culturale complementare ad una professione pur sempre "scientifica", anche se altamente romanticizzabile. Un prodotto gradevolissimo, che sorprende in una misura difficilmente valutabile: forse un po' troppo "comprensibili" o "indossabili"? Ovviamente rimane il dubbio di non saper percepire quei "valori formali" che forse, ad un orecchio più accorto, offrono decisive esaltazioni del "senso" evocato. Ma l'impressione è un po' quella di una birra analcolica - gradevolissima quando si ha sete ma incapace di portare quell'ebbrezza in cui in fondo si spera sempre un po'. Forse manca quella "ferita" che tanto spesso è necessaria alla formazione di una perla, forse si tratta quindi di una poesia troppo "sana".
RispondiEliminanon lo so se non c'è la ferita. Talvolta questa agisce per venature segrete, diventando fiore. E' anche vero che la poesia e l'arte in generale quali conseguenze di un trauma personale sono un mito del moderno. Sono quindi espressione di una cultura, prima che necessità intrinseca alla parola poetica, che può darsi in tanti modi, anche piani. Poi uno può legittimamente preferire il tellurico e l'urticante. Un cordiale saluto!
RispondiEliminaLa ferita c'è, ma è dissimulata (anche se non in tutti i testi: Atacama, ad esempio). Dell'arte mi attira la potenzialità poietica, non tanto la capacità di veicolare uno sfogo (il che è un portato del Romanticismo, tutt'altro che universale, come giustamente sottolinea Stefano). Mi riesce difficile esprimere in versi l'angoscia senza diventare stucchevole o ridicolo. L'ebbrezza che cerco è quella dell'epifania: mi sforzo di costruire senso abbinando concetti lontani fra loro, in un'estensione della metafora dal piano delle immagini a quello delle idee. Pure, come rilevato da Elio, c'è il rischio di fissarsi in una maniera. A lungo andare, gli espedienti perdono forza. Per questo ho cercato, ultimamente, di lavorare anche sullo spazio oscuro della vita che finora avevo accuratamente evitato. Ma è un percorso soltanto abbozzato.
RispondiEliminaCondivido le note di F. Tomada e di Stefano Guglielmin, ma anche quella di Elio C. : una voce "giovane" nel senso di nascente, ancora privilegiata, lucente, perché non investita dalla finitezza (la ferita dissimulata, intravista ma non ancora realizzata). In bocca al lupo, c'è bisogno di persone come Cupani ad investigare la forma partendo da una formazione razionale, che io spero non si risolva nel solito senso creaturale di tanti scienziati che tornano infine alla parola. Saluti. Giuseppe
RispondiEliminaRingrazio tutti per l'autorevolezza degli interventi, utili senz'altro all'autore per proseguire il suo cammino.
RispondiEliminaConfermo quel che ha scritto Stefano e ringrazio a mia volta!
RispondiEliminaGuido Cupani