foto di Enrico Chiaretti
La sensazione più forte che provo leggendo Pasta madre (Aragno, 2013) di Franca Mancinelli è quella di toccare un verso dalla pelle sottile eppure robustissima, che avvolge l’energia dirompente della vita come un palloncino argina l’aria compressa e ne determina le fattezze. Ciascuna lirica ha perciò una potenza rara, che lo stile s’incarica di conservare, anzi di amplificare attraverso richiami fonetici interni e altre strategie formali che fungono da tensori abilitati a comprimere ulteriormente la materia. Che non tracima perché integrata con la superficie, sua polpa amica, mai doma, tuttavia; in ebollizione, piuttosto, magmatica, che diviene plasticamente elegante quando l’aria – la pelle del verso – la cristallizza. Molte delle metafore, infatti, hanno la bellezza del vetro di Murano dopo che il mondo l’ha raffreddato con le sue correnti. E sono plasticità dalla natura gestuale, come questa: “La luce si allarga / come una macchia. Qualcuno / urtando ha versato un altro giorno”.
Già il
verso d’apertura racchiude questa magia, surreale nella forma, metafisica nella
sostanza: “cucchiaio nel sonno, il corpo / raccoglie la notte”; immagine che ci
rimanda alle concavità di ogni ventre femminile, biografia mitica della terra
che custodisce gli esseri, dunque, ma anche – e per tutto il libro – storia di
una rinascita personale, cominciata alzando “sciami / sepolti nel petto” dopo
una lunga lotta amoroso-conoscitiva con il sonno: “Mi sono ritrovata,
inizialmente, murata in una stanza. Pochi gesti ripetuti all’interno di uno
spazio chiuso che si confonde con il mio stesso corpo […] aggrappata al sonno
come all’unica porta che si apriva” racconta Mancinelli nell’intervista
rilasciata ad Andrea Cati per il blog ”Poetarum Silva” circa un anno fa. Ossia
prima che uscisse il libro, a fargli insomma da apripista, a guidarci a una
lettura che tenga conto tanto del privato quanto dell’ontologico, del dolore
personale per qualcosa che si corrompe ma anche della consapevolezza filosofica
che la crepa è cosmica. Non a caso, Pasta madre è disseminata di segnali
tellurici: “frantumare”, “infiltrazioni”, “lampi rotti”, “crolli”, “territori
ostili” danno ciascuno il collante precario, il fondo insicuro a un io narrante
altrettanto fragile, che si muove dentro "una musica / di sbarre e
ringhiere" dopo aver tagliato il cordone ombelicale: "padre e madre
caduti / frutti che non potevano / marcirmi attaccati". Se in Mala Kuna
Mancinelli tentava di arginare il senso stabile – e per ciò stesso immobile –
del proprio essere-al-mondo affinché non fosse maciullato dal non-senso che il
tempo diveniente, per la sua natura rapinosa, possiede, ora nulla mantiene
stabile coerenza, tutto si metamorfizza, così che la scrittura, come afferma
Chiara De Luca nel blog di Rai news 24 (4/06/13), ingloba “l’umano, l’animale,
il vegetale, il minerale, scambiandoli, mescolandoli, lasciando che il sangue
degli uni scorra nelle vene degli altri, nel reciproco esondare l’uno
nell’altro attraverso vasi contigui, comunicanti, dialoganti”. Mancinelli si
pone al centro di questo vortice, non più per rappacificarlo, come una Penelope
che ripristini gli arcani notturni della casa-rifugio, bensì, intanto, per
farsi attraversare sino al midollo, per patirlo con un lungo e ragionato
sregolamento dei sensi e farsi così veggente, stando distesa sul letto,
come una mistica medioevale tuttavia oramai convinta che il senso ulteriore le
chiede di alzarsi, di camminare modernamente sulle ferite della terra, per
conoscerle più a fondo e trovarne la necessità che abiliti – lei e noi, suoi
fedeli lettori – al viaggio verso “la punta / dell’ultima montagna”.
cucchiaio
nel sonno, il corpo
raccoglie
la notte. Si alzano sciami
sepolti
nel petto, stendono
ali.
Quanti animali migrano in noi
passandoci
il cuore, sostando
nella
piega dell’anca, tra i rami
delle
costole, quanti
vorrebbero
non essere noi,
non
restare impigliati tra i nostri
contorni
di umani.
***
con
un fianco immerso nella siepe
e
mani che triturano feroci
andiamo
fraterni accarezzando
il
torace dei cancelli. Bambini
sgusciati
per la strada, una musica
di
sbarre e di ringhiere.
***
penzola
a vuoto a un lato del letto
i
piedi bruciati;
il
pavimento trattiene il suo volto
in
vene di marmo. La luce si allarga
come
una macchia. Qualcuno
urtando
ha versato un altro giorno.
Torneranno
a tracciarsi le strade
alle
scarpe che vanno
confermando
i confini
di
cose tra cose.
***
ho
smesso di reggere i muri
donandomi
ai crolli
ricomincio,
abbreviata
torno
a quello che sono:
una
lucertola che si divide
a
metà con la morte.
***
torno
a immergermi nel corpo
azzurro
e buono di una domenica
mattina,
fraterna ad altri
senza
capelli e occhi, muti
come
in un giorno di lavoro
per
corridoi
con
altre ombre accanto.
Ma
in questo chiaro di saliva
cloro
e seme, abbandonata ognuno
la
sua scorza, gesto dopo gesto entriamo
bambini
con un segno d’acqua in chiesa.
***
dormivo
su una pagina ogni notte
bianca.
Il mattino
un’ombra
del mio peso, alcune pieghe
e
subito voltava: proseguire
è
questo a capo del principio,
bocca
che passa calore
all’aria
come potesse svegliarsi
essere
ancora salvata.
Qui la sua voce in un'intervista di Veronica Tinnirello
Ho smesso di reggere i muri / donandomi ai crolli [...], una poesia che risulta interamente giocata sul rapporto quasi ossimorico che in essa si stabilisce tra la brevità del componimento, la sua essenzialità e compostezza formale e la centralità tematica e ispirativa di un sentimento del corpo come appartenenza irrinunciabile, una percezione della vita come fugacità, inarginabile trascorrere di tutte le cose, da una parte verso la cessazione e il silenzio, dall'altra verso una sussurrata ipotesi di salvezza. Molto bello! Ovviamente fa da "corona" l'acuta e puntualissima lettura del nostro Stefano Guglielmin. Rosa Salvia
RispondiEliminagarzie per il contributo. Ben scritto e profondo.
Eliminaè decisamente una poesia interessante, e
RispondiEliminavista l'espressione della fanciulla, una persona interessante.
ho letto una sua intervista in internet..condivido la scrittura intesa come:*pasta madre*
un saluto a Sisifogugl!;-)
anche Sisifo, potendo, distinguerebbe tra pietra e pietra
Eliminaleggo e vedo del bianco.. un alone di bianco sfumato dove sono, lente, queste parole..
RispondiEliminapoesia tutta verso il dentro.. ingloba e tiene con cura..
se è sangue, scorre comunque intorno..
Non tutti frequentano facebook. Posto qui un breve ma interessante scambio di battute avuto con il poeta Guglielmo Aprile in relazione a "Pasta madre"
RispondiEliminaGuglielmo Aprile: Nomina di frequente elementi che hanno a che fare con la corporeità, anche se riferiti ad aspetti inanimati: forse il corpo si eleva a metafora di quanto di insondabile c'è nella realtà che ci attornia, facendo di questa il volto e la figura di un essere sconosciuto, che incontriamo e abbracciamo ogni giorno, ma di cui non conosciamo quale sia il vero nome, sebbene conviva con noi costantemente
Guglielmin: sì, hai ragione. Questo essere, tuttavia, non dobbiamo confonderlo con qualcosa di sovrannaturale. C'è semmai un panteismo o forse, ancora di più, un essere abitati dal perturbante, dal perturbante che l'identità è quando comincia a interrogarsi sul proprio spazio fisico-emotivo e relazionale.
A. infatti notavo l'assenza di sbocchi metafisici, in un mondo in cui lei sembra muoversi come bendata, un mondo di pure presenze materiali, a loro volta cieche, soltanto 'corpi tra i corpi' - ma questi hanno una specie di risvolto enigmatico, un'anima interna che resta nascosta, qualcosa di vivo, che però si sporge dai bordi delle cose, come l'anello di luce che affaccia dai bordi della luna nuova, e che mette una strana angoscia...
G. è proprio per questo che "Pasta madre" è un gran bel libro.