Silvia
Comoglio – Il tempo ammutinato (partiture) – Book Editore, 2023
Roberto
Uberti
Per i tipi di Book
Editore, in una confezione grafica pregevole ed elegante, è uscito a ottobre
2023 Il tempo ammutinato (partiture) di Silvia Comoglio, feconda poetessa
italiana – è, questa, la sua decima pubblicazione – il cui lavoro poetico si
conferma ancora una volta caratterizzato dal tenersi alla larga da certa superflua
facondia che, invece, contraddistingue spesso la confusa scena poetica
contemporanea.
“Il tempo ammutinato (partiture)”
è un’opera solida, rigorosa, nient’affatto indulgente al facile fronzolame
lessicale con cui, anche in certa sottopoesia, si insegue un effetto wow!
per il solo gusto di procacciarsi qualche facile quanto effimero like.
Opera proprio per questo sorprendente, quasi atipica, ma di un’atipicità salutare
e, vedremo, innovativa, in cui si rilevano diversi piani di lettura
interdipendenti.
L’impianto dell’opera si
articola in sei sezioni, sviluppate con la cura di un librettista d’opera già a
partire dai loro iconici titoli:
1.“ma,
fiorisce dunque la parola”
2.
“tu, allora, fiorisci”
3.“sottile,
a microchiarore!”
4.“silhouette”
5.“Ì-mmortale proclamo te”
6.“…
incognite tue rose, plasmate –
Che “Il tempo ammutinato
(partiture)” possa essere approcciato come un libretto d’opera è il primo dei
piani di lettura che stiamo per esaminare. Espediente non nuovo per Silvia
Comoglio, che aveva già sperimentato questo ausilio anche visuale nella sua precedente
opera “sottile, a microchiarore!” (di cui infatti ripropone il titolo di una
sezione quasi a sottolinearne l’evoluzione), molte delle composizioni sono non
a caso introdotte dal frammento di un pentagramma, in cui appare il più delle
volte una singola, sperduta nota e talora, addirittura, soltanto un segno di
pausa, significando arditamente, ma saggiamente, che il silenzio è esso stesso
una forma di suono. Le composizioni introdotte da singole note (o dal silenzio)
vivono di una melodia appena accennata, sulla quale giocare quasi in mono-tono
la lettura (e, sarebbe meglio dire, l’ascolto). Dove invece non troviamo il
frammento di pentagramma troviamo, spesso, l’impostazione armonica della
composizione, declinata con la descrizione musicale ortodossa (“In sol
maggiore”, “In fa diesis”, “In si minore”), che invita il lettore a un
esercizio più complesso, quello di passare dalla melodia monotonica all’armonia
polifonica e trasfigurarsi in direttore d’orchestra, dovendo ricercare nel
proprio animo l’interpretazione tonale più confacente al significante e al
significato della composizione. È, anche questo, un prezioso espediente,
giacché agevola in misura non trascurabile l’orecchio interiore: così sappiamo in
anticipo, per esempio, che una composizione “In si minore” avrà quell’aria
dimessa e semplice che si addice a una ballata melanconica, mentre una
composizione “In fa diesis” disporrà a un’atmosfera più solenne e assertiva,
che ciascuno dirigerà a proprio talento.
Silvia Comoglio supera
pertanto la semplice ricerca di sonorità nella parola e della parola, come
peraltro giustamente notato unanimemente da coloro che hanno commentato il suo lavoro,
portando piuttosto il lettore-ascoltatore nel golfo mistico della propria interiorità
e affidandogli addirittura la bacchetta con la quale dirigere la propria intima
orchestra.
Un secondo piano di
lettura è dato da quella che potremmo chiamare “rivoluzione comogliana della
sottrazione”. Silvia Comoglio, in netta controtendenza con il gusto
contemporaneo del sovrabbondante, dell’eccessivo, dell’ostentazione aggressiva,
concentra le proprie energie poetiche sul togliere anziché sull’aggiungere, sul
celare anziché sul mostrare. È dunque, la sua, una poetica della spoliazione,
dove tuttavia, lungi dall’impoverirsi, le parole mirabilmente si dilatano
proprio grazie all’aver tolto parole. Leggiamo, per esempio, “schiocca – a volo
– di sbuio lucente / la terra di nana – ombra – dei fiori?” in cui la domanda emerge
con maggiore decisione proprio a causa delle parole che sono state estirpate,
parole che hanno lasciato cicatrici così gibbose da diventare esse stesse,
nella loro testimonianza dell’essere segnaposti di qualcosa che non c’è più,
parole invisibili e per questo, se possibile, ancora più dure, intense, aspre
in molti casi.
Oppure ancora: “amo il
solo amare che appare in orizzonte / del tutto senza ciglia : terra comparsa
alla mia porta, / cóme, come mondo, ai márgini del mondo”, versi in cui le
assenze verbali sono così discrete da essere necessarie. È una poetica della
sottrazione che somiglia a una stanza in cui, alle pareti, sono visibili i
contorni rarefatti di quadri ivi non più appesi. È proprio la loro assenza a farli
presenti, sono proprio gli sbaffi rimasti a suggellare per sempre la loro
esistenza. Non importa più cosa quei dipinti raffigurassero, né dove siano
finiti: importa invece che quei dipinti fossero esistiti in quel luogo e non
altrove, silenti testimonianze di un tempo che, nella sua inesorabilità,
continuamente muta l’assetto dell’universo.
Ed è proprio questo il
terzo piano su cui condurre il rapporto con l’opera: la lettura del tempo. Sfida
difficile, quella raccolta da Silvia Comoglio, di parlare del tempo per
attribuirgli una capacità inedita e inaudita, ovvero quella di ammutinarsi.
Dobbiamo scendere molto in profondità nella parola poetica di Silvia Comoglio
per cogliere in cosa consista questo ammutinamento.
Che lo si interpreti come
qualcosa di lineare o di circolare, che lo percepisca come qualcosa di statico
entro cui si muove lo spazio o come qualcosa di dinamico da cui lo spazio viene
attraversato, il tempo investe noi mortali con la sua natura di invincibile
regolatore dell’evoluzione della vita, il supremo elemento entro cui, e a causa
di cui, la condizione umana vive la propria condizione di perenne
trasformazione. La quinta e penultima sezione dell’opera (ma la sesta e ultima
è costituita soltanto da una composizione brevissima e sottilmente angosciosa
che sigilla, quasi con un gemito apocrifo, la martoriata esperienza del tempo)
è dedicata a scandagliare l’intuizione dell’ammutinamento del tempo. Non certo
all’improvviso: già diverse pagine prima l’autrice aveva avviato il proprio
percorso di rilettura del tempo proponendo, sotto un frammento di pentagramma privo
di note, come sospendendo il respiro lirico, una possibile relazione tra
immortalità e ammutinamento del tempo: “í-mmortale proclamo te / nel tempo ammú-tinato / * “.
Proprio questa relazione
è la chiave che Silvia Comoglio offre per leggere correttamente cosa sia questo
ammutinamento del tempo. Contro cosa, o contro chi, il tempo si ammutina? E
perché? Leggendo in profondità la sezione si viene implacabilmente investiti dal
senso di inadeguatezza in cui la condizione umana geme continuamente,
sottoposta alla legge della trasformazione continua e della mortalità. Soggetto
colpevole di infliggere tale sofferenza è il tempo, che, riconoscendosi reo,
alfine si ammutina a se stesso nel bisogno di collusione con l’essere umano, torturato
dalla sua condizione di instabilità. Consapevole di essere veicolo di
trasformazione continua e di impedire pertanto la felice fissità di ciò che è
immortale, il tempo reagisce ribellandosi alla sua stessa natura: il suo è un
bisogno di donare salvezza e non dolore, liberazione e non prigionia, immortalità
e non finitezza. Il tempo diventa allora un soggetto pensante e deliberante che
viene in soccorso all’infelicità umana decidendo, atto inaudito, di ammutinarsi
contro se stesso.
Del tutto inedita appare,
nella storia della letteratura, questa solidarietà del tempo con gli aspetti esistenzialmente
mutevoli dell’essere umano. E ancor più inedito il suo assoggettarsi ai limiti
controversi della vita per offrire il suo impossibile sogno (Comoglio lo chiama
“apice di sete”) come unica soluzione (“il chiavistello”) capace di disserrare
l’impenetrabile porta che separa mortalità da immortalità. Drammatico, nel
fluire dei versi, il rapporto del tempo ammutinato con Dio: “… nel – / relitto di dio il de- / litto del tempo?”,
ove Silvia Comoglio propone un finissimo parallelo tra l’esito dell’ammutinarsi
del tempo (cioè il suo delitto) e ciò che rimane (il relitto) di Dio: da tale
delitto, dall’ammutinamento del tempo, null’altro resta se non una nuova condizione
di immortalità, prerogativa appunto di Dio, che viene finalmente estesa a tutti
gli esseri umani liberati dal tempo.
A ben guardare,
l’ammutinarsi del tempo equivale al suo estremo sacrificio, al suo suicidio: ecco
che il tempo assume quindi l’eroismo di un kamikaze che sceglie di porre
fine alla propria esistenza per evitare una sconfitta o, meglio ancora, per vincere
la sua battaglia contro la finitezza, donando quell’immortalità impossibile fintantoché
esso è in vita.
Ma perché farlo? Perché
il tempo, con intuizione nuova e sorprendente, viene dipinto da Silvia Comoglio
non come un’astrazione indifferente ai destini storici, ma come un eroe premuroso
e coraggioso, che prende a cuore le sorti dell’universo per superarne le
infinite mutazioni rendendolo immortale (e, per questo, si am-mutina,
a-mutandis, ribellione contro il mutamento). Le numerose domande di cui è
disseminata l’opera (se ne contano ben 79!) sono domande poste dal tempo
all’essere umano, quasi a chiedere sostegno e conforto nel sacrificio di grazia
che sta per compiere ammutinandosi. Significativa per esempio la domanda “(e):
la grazia del tempo ammutinato /
è il fiore spaccato a vita?”, che si
completa con “(ma): è offerta, allora, / il multiplo di fiore?”, dove
osserviamo questo tenero bisogno del tempo di essere rassicurato, di essere
incoraggiato affinché la sua estrema offerta generi una fioritura moltiplicata
e perenne.
Ultimo, ma non ultimo
piano di lettura, le 79 domande dell’opera, in cui emerge con chiarezza la
maturità del lavoro poetico di Silvia Comoglio e in cui ci si aspetterebbero quindi
dei punti fermi, delle certezze. Sorprendentemente invece, Silvia Comoglio
scombina le carte e dissemina la sua raccolta di domande, che testimoniano una
maturità tutt’altro che finita, tutt’altro che definita, anzi più che mai irrequieta
e per questo ancora generativa e creatrice.
In
fa diesis
nostro amore, amore, sono gl’occhi chiusi di dimora
―
“nostro amore,
amore, è la rosa plasmata a
dismisura,
terra che occupa se stessa
germogliando! in acque di
silenzio,
in vertici a dimora di un lungo solo bacio, perfetto, di ―
ventura
(... predetta eternità? dove, la casa,
metti dentro casa, e l’alba ―
tutta fuori casa, e il sogno, sopra,
sopra casa, e sotto, sotto casa la ―
bugia, dura, di bagliore
... ma la casa, invece, quella pellegrina, non è casa ―
tolta dalla bocca? c, a, s, a nate da un tempo da svuotare?
non eterno? non predetto?
... la casa pellegrina che tolta dalla bocca
ha mille, mille
terre, sfogliate a sopracciglio
nella notte
tutta d’oro)
In
do maggiore
fiori contro fiori gli assoli di gennaio
... modo, modo eterno, di dire e
sillabare
sono stelo
- e ombra mite a suono
(amo il solo amare che appare in orizzonte
del tutto senza ciglia : terra comparsa alla
mia porta,
cóme, come mondo, ai márgini del mondo
... qualsivoglia-tuo-reame terríbile e vivente ...)
In
sol maggiore
stanotte sono chi racconto : pausa
disgiunta da memoria : vera rosa ―
ricurva di follia ―
(generarti a nome del mio tempo fu l’unico segreto,
del labbro, appena, fessurato ...
... allora, fu detto, è acuta forma
di radice
lo sguardo
appena srotolato in sillabe di
nomi
incessanti
e già caduti
... rose, ritorte di sibille, di mondi ―
a voci irregolari, leggermente, negl’occhi, arti-
colate ...
... la distanza tra sillaba e sibilla è allora
―
mantice di casa a luce soffiata inter-mittente?
… fui qualsivoglia-tuo-reame terríbile e vivente,
l’urgenza che prego di guardare nel dono del
suo peso ...)
í-mmortale proclamo te
nel tempo
ammú-tinato
*
(…
iddio disceso a dono
fin
dove, in ápice di sete,
la
terra tu síllabi a deriva?
Silvia Comoglio, laureata in filosofia, ha
pubblicato le sillogi Ervinca (LietoColle Editore, 2005), Canti
onirici (L’arcolaio, 2009), Bubo bubo (L’arcolaio, 2010), Silhouette
(Anterem Edizioni, 2013), Via Crucis (puntoacapo Editrice, 2014), Il
vogatore (Anterem Edizioni, 2015 – Premio Lorenzo Montano – XXIX Edizione -
Sezione raccolta inedita), scacciamosche (nugae) (puntoacapo Editrice,
2017), sottile, a microchiarore!
(Edizioni Joker, 2018), Afasia (Anterem Edizioni, 2021), În ape de
tăcere/ In acque di silenzio
(Editura Cosmopoli, Bacau, 2023).La sua poesia è stata tradotta in Inglese e Romeno e in particolare il
testo Terezín scritto per Margit Koretzovà e Rozkvetlà louka s motyly, Le farfalle, il disegno che Margit fece a Terezín dove fu deportata nel 1942 con
l’intera famiglia prima di essere trasferita ad Auschwitz, è stato tradotto in
Inglese Francese Spagnolo Tedesco Romeno e Ceco.
Suoi testi sono apparsi, tra l’altro, nei blog Blanc de ta nuque e La
dimora del tempo sospeso, nel sito di Nanni Cagnone, sulle riviste Il Monte
Analogo, Le voci della luna, La Clessidra, Il Segnale, Italian Poetry Review, Osiris
poetry, nella rivista giapponese δ e nella rivista romena Poezia, e on-line nelle
riviste Carte nel vento, Tellusfolio, La foce e la sorgente, Fili d’aquilone.
Il portale BombaCarta le ha dedicato La
lettera in Versi n. 56 curata da Rosa Elisa Giangoia.
E’ presente nei saggi di Stefano Guglielmin Senza riparo. Poesia e
Finitezza (La Vita Felice, 2009), Blanc de ta nuque, primo e secondo
volume (Edizioni Dot.com.Press, 2011 e 2016) e La lingua visitata dalla neve (Aracne, 2019),
nell’antologia Poesia in Piemonte e Valle d’Aosta (puntoacapo Editrice,
2012), in Fuochi complici di Marco Ercolani (Il leggio, 2019) e in Anni di Poesia di Elio Grasso (puntoacapo
Editrice, 2020).
Fa parte del Comitato di Lettura di Anterem Edizioni e della Giuria del Premio
di Poesia e Prosa Lorenzo Montano.