sabato 3 maggio 2025

Elia Inderle, catalogo


 Variazioni sul tema del Rosso

 

 

I

 

Per entrare nell’agire estetico ed etico di Elia Inderle, in particolare rispetto alla scelta del rosso scarlatto, conviene partire dal soggetto rappresentato, Pier Paolo Pasolini, un intellettuale che sempre si espose, prendendo posizione critica nei confronti del neocapitalismo e dell’industria dei consumi. Lo fece sino morirne: sotto questo profilo, il suo controverso assassinio, la notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975, ha la forza simbolica del martirio, patito da chi si è sacrificato per noi, vittime di un meccanismo sociale stritolante. La morte violenta, e dunque il rosso sangue, sono inscritti nella sua biografia al pari di quella dei santi cristiani, con ciò trasformando la sua vita biologica e sociale di cittadino della Repubblica in un exemplum di persecuzione moderna. Il legame tra il rosso, il sangue e l’autobiografia ce lo suggerisce lo stesso Pasolini sin dalle sue prime opere, per ribadirlo nell’appunto 41 di Petrolio, libro postumo e profetico, quando il protagonista “sogna il sangue”, che “è rosso (cioè comunista)”. Il sangue, aggiunge, porta terrore a “tutta la borghesia italiana anticomunista”, ma anche, nella stessa borghesia, “indifferenza”, pervasa com’è del “brado pragmatismo”. Il passo avvicina nel contempo il rosso all’ideologia antiborghese: il rosso comunista, ma in una stagione, gli anni Settanta, in cui le ideologie avevano ancora la capacità di indicare una direzione. Nel 2023, la borghesia, con il suo terrore anticomunista e l’indifferenza verso tutto ciò che non procura profitto, è rimasta; il comunismo invece è morto, almeno nella versione marxista dell’antitesi operaia entro la dialettica del materialismo storico.

 

 

II

 

Se da un verso la lettura più immediata del lavoro di Inderle ci dice che il rosso mima l’atto violento del potere, di cui il sangue è l’effetto più drammatico, dall’altro, più profondamente, il colore può essere letto soltanto come qualcosa di estraneo alla superficie su cui è steso. Un’estraneità dalla valenza sacrilega se davvero l’immagine di Pasolini divenne sin da subito icona di un martire. Il colore, sporcando l’immagine, quella specifica immagine, ha così il carattere del gesto blasfemo. Questa seconda soluzione, che non esclude la prima, non segnala un gesto irriverente, iconoclasta, bensì serve appunto a metterci in allerta sui pericoli dell’idolatria, sul rischio di ridurre il pensiero pasoliniano all’agire del corpo del poeta, di ricondurlo al martirio subìto, anziché, con fatica, coglierne le importanti acquisizioni, ricavate dai suoi libri e dai suoi film. Quel rosso vuole insomma rompere il facile meccanismo dell’identificazione passiva con l’eroe e chiede invece l’impegno di un viaggio che ne attraversi l’opera, un viaggio verso la consapevolezza di che cosa sia diventato l’uomo nel tardo capitalismo, come sempre cercò di fare Pasolini.

 

S’intuisce che questa complicazione è inscritta nel progetto, rilevando che uno dei film prediletto da Inderle, Sangue di un poeta di Jean Cocteau, mette in scena due figure complesse e imprescindibili per comprendere la contemporaneità: la metamorfosi e il labirinto. Queste possono essere tradotte come il continuo mutare / intersecarsi dei livelli di realtà e lo sfocarsi dei piani cartesiani, in un divenire straniante per cui il soggetto deve di continuo prendere le misure dello spazio-tempo in cui opera. Leggere Pasolini comporta questo: rimettersi a una dimensione plurale, in cui il corpo e il pensiero, la biografia individuale e collettiva, il sangue del Cristo e del ribelle, il nero del neofascismo, la libertà e la coercizione appartengono al medesimo organismo cangiante e labirintico, di cui Pasolini ci offre una mappa potenzialmente salvifica. A patto, come suggerisce Inderle, che lo si tolga dalla teca in cui è stato collocato, e lo si legga davvero, a costo di farci del male. Il rosso sangue è il nostro quando usciamo dal recinto e incontriamo l’altro senza protezioni.

 

 

III

 

Da artista visivo, Elia Inderle cerca la profondità nella superficie. Una superficie – come detto – labirintica, metamorfica. Il dato di partenza è inevitabilmente percettivo: colpisce quel rosso accecante, steso con una certa aggressività su immagini in bianco e nero, che produce uno shock retinico, un cortocircuito sensoriale, un contrasto tra l’opaco delle figure umane e la luce densissima del colore. Questa percezione conflittuale fra la tonalità dimessa dei grigi e il rosso sgargiante non si esaurisce tuttavia nella valenza estetica, ma ne assume immediatamente una filosofica: le vite rappresentate dalle foto, il tempo che si mostra in quelle vite, trova il suo elemento interattivo nella piattezza luminosa del rosso, che ha una dimensione soltanto spaziale: qui il tempo scompare, per lasciare essere la vibrazione cromatica alla sua massima potenza. Un cromatismo che rinvia alla passionalità anziché al sangue, all’intensità della vita, anziché alla morte (viene facile ricordare il primo libro di saggi di Pasolini, Passione e ideologia, i due cardini del suo fare poetico e intellettuale). Il materiale povero scelto da Inderle – il bianco e nero su carta dei freme – ci restituisce ulteriormente il tentativo paradossale di fissare il tempo della vita nella sua miseria, che il rosso rivitalizza, come un catalizzatore che riattivi un processo decaduto. In altre parole, il rosso-tutto-spazio agisce sulle immagini-tempo-opaco con effetto di potenziamento, anche se nessuna di queste è leggibile completamente. Anzi: proprio la cancellazione di un margine o di un tratto casuale permette a quanto rimane di realizzare il proprio compito, di essere testimonianza del passaggio pasoliniano nella temporalità storica. In questo modo si desacralizza l’immagine, restituendola nella dimensione umana, teneramente caduca.

 

Il rosso, sporcando l’immagine e rivitalizzandone l’opacità, riporta l’attenzione sia sul soggetto rappresentato e sia sulla vita in quanto precesso diveniente all’interno di uno spazio labirintico dove ogni scelta comporta un’assunzione di responsabilità: all’idolatria e al consumo mass-mediatico dell’immagine pasoliniana, Inderle contrappone questa prospettiva nuova, inedita, non garantita; un insegnamento mutuato forse dai maestri della ri-contestualizzazione, non ultimo Jacque Cocteau.

 

 

IV

 

Ulteriore ipotesi, contraddittoria rispetto agli assunti precedenti, ma possibile nella misura cui la contraddizione appartiene all’arte, come ci insegnano per esempio il Dadaismo e Simone Weil, ma anche le stesse scienze novecentesche, non ultima la fisica quantistica. Consideriamo il rosso come materia coprente, come volontà dell’artista di nascondere parte dell’immagine. Non più rosso sangue né rosso passione che spazializza le tensioni amplificando il bianco e nero delle vite rappresentate, né la pedagogia intrinseca in queste operazioni, bensì il tentativo di cancellare la presenza ostinata di quelle vite, di negarcele con volontà sadica, se non tirannica. Appare evidente che quelle vite non soccombono, ma resistono alla negazione, all’atto massimamente libero dell’artista che, creando, diventa simile a Dio anche nella punizione, nel toglierci quanto ci è dovuto. Nella dinamica al massacro della volontà di potenza tra principio di vita e principio di morte, la vita sopravanza perché il tempo-vita ha uno spessore emotivo ed esperienziale che la morte-senza-tempo, la morte eterna non ha il privilegio di possedere. Se nel paragrafo precedente, il rosso-tutto-spazio rinvigoriva il tempo-memoria, in questo nuovo assunto, il rosso-negazione, lasciando aperto uno o più spiragli al tempo-vita offerto dalla foto, ha la peggio.

 

Il dio-cancellatore di cui si è fatto menzione ci ricorda che, ogni volta che si prende la parola, si esercita violenza sul sistema in cui si opera. Dire è affermarsi su un campo di forze che, impotente, si ritrae, in attesa di rispondere, se ne ha il vigore o di soccombere. L’arte in genere enfatizza questo principio, in nome del potere che l’atto creativo possiede. Un atto arbitrario, che non deve essere giustificato, come capita appunto in un sistema tirannico. Sarebbe interessante verificare se anche l’immagine più banale resista all’annullamento, se l’oggetto violato acquisti dignità proprio in funzione dello sforzo del carnefice di negarlo. Le neuroscienze darebbero una risposta affermativa, in virtù del fatto che lo spettatore parteggia per chi subisce ingiustizia, il quale diventa subito un eroe positivo, al di là della situazione iniziale.

 

 

V

 

Il Cristo cancellatore è un romanzo di Emilio Isgrò, poeta visivo italiano. Egli usa la cancellatura per proteggere simbolicamente dalle intemperie della storia ciò che sta sotto, dandogli in tal modo ulteriore valore, mettendolo in rilievo in quanto assente. Non ci pare tuttavia sia questa una delle intenzioni fondanti dell’agire di Elia Inderle; vale piuttosto quanto detto sinora: la polisemantizzazione del colore, a indicare la violenza, la manomissione del meccanismo idolatrico; la ri-contestualizzazione e la rivitalizzazione della superficie luminosa, ma anche la necessità di pensare ai materiali dell’arte, per sviluppare un pensiero che parta dalla superficie (in questo caso piana, di una certa dimensione e costituita da materiale povero). È forse quest’ultimo assunto il livello primario in cui l’agire di Inderle trova realizzazione: pensare lo spazio visivo indipendentemente dal contenuto delle foto, per riorganizzarlo, agendo sulle tonalità di grigio con quel rosso prezioso, che è luce e potenza, come aveva già fatto nei suoi lavori precedenti su Kerouac e Burroughs. In questo senso, il rosso è un segno identitario, è la sua firma (e anche un debito riconosciuto verso i suoi maestri, Hermann Nitsch, per esempio), è il corpo tutto condensato nel gesto, da pittore che vive il suo tempo migliore nell’happening, nell’incontro-scontro con il colore, senza dispiegamento ulteriore del senso, evitando – almeno in prima istanza – l’articolazione barocca delle ridondanze semantiche: il rosso distende temporaneamente la piega del nascosto, del significato, sino a toglierla: è, come detto, puro spazio senza esperienza. Incontrando l’immagine, tuttavia, quel rosso ripone la piega in essere, increspando la superficie, complicandola, ma sempre entro uno spazio finito dove il riverbero non diventa mai esibizione narcisistica né proliferazione delle differenze. In questo gioco di distensione e contrazione del senso, l’opera prende posto nell’orizzonte visivo, emotivo ed intellettivo dello spettatore, che viene così convocato dinanzi alla complessità dell’opera stessa, in quella stratificazione plurima del senso evidenziata, per via ipotetica, in questa introduzione.

 

 

Stefano Guglielmin, aprile 2023

 

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