giovedì 14 dicembre 2023

Silvia Comoglio (rec. di R. Uberti)



Silvia Comoglio – Il tempo ammutinato (partiture) – Book Editore, 2023

Roberto Uberti

 

Per i tipi di Book Editore, in una confezione grafica pregevole ed elegante, è uscito a ottobre 2023 Il tempo ammutinato (partiture) di Silvia Comoglio, feconda poetessa italiana – è, questa, la sua decima pubblicazione – il cui lavoro poetico si conferma ancora una volta caratterizzato dal tenersi alla larga da certa superflua facondia che, invece, contraddistingue spesso la confusa scena poetica contemporanea.

“Il tempo ammutinato (partiture)” è un’opera solida, rigorosa, nient’affatto indulgente al facile fronzolame lessicale con cui, anche in certa sottopoesia, si insegue un effetto wow! per il solo gusto di procacciarsi qualche facile quanto effimero like. Opera proprio per questo sorprendente, quasi atipica, ma di un’atipicità salutare e, vedremo, innovativa, in cui si rilevano diversi piani di lettura interdipendenti.

L’impianto dell’opera si articola in sei sezioni, sviluppate con la cura di un librettista d’opera già a partire dai loro iconici titoli:  

1.“ma, fiorisce dunque la parola”

2. “tu, allora, fiorisci

3.“sottile, a microchiarore!

4.“silhouette

5.“Ì-mmortale   proclamo te”

6.“… incognite tue rose, plasmate –

Che “Il tempo ammutinato (partiture)” possa essere approcciato come un libretto d’opera è il primo dei piani di lettura che stiamo per esaminare. Espediente non nuovo per Silvia Comoglio, che aveva già sperimentato questo ausilio anche visuale nella sua precedente opera “sottile, a microchiarore!” (di cui infatti ripropone il titolo di una sezione quasi a sottolinearne l’evoluzione), molte delle composizioni sono non a caso introdotte dal frammento di un pentagramma, in cui appare il più delle volte una singola, sperduta nota e talora, addirittura, soltanto un segno di pausa, significando arditamente, ma saggiamente, che il silenzio è esso stesso una forma di suono. Le composizioni introdotte da singole note (o dal silenzio) vivono di una melodia appena accennata, sulla quale giocare quasi in mono-tono la lettura (e, sarebbe meglio dire, l’ascolto). Dove invece non troviamo il frammento di pentagramma troviamo, spesso, l’impostazione armonica della composizione, declinata con la descrizione musicale ortodossa (“In sol maggiore”, “In fa diesis”, “In si minore”), che invita il lettore a un esercizio più complesso, quello di passare dalla melodia monotonica all’armonia polifonica e trasfigurarsi in direttore d’orchestra, dovendo ricercare nel proprio animo l’interpretazione tonale più confacente al significante e al significato della composizione. È, anche questo, un prezioso espediente, giacché agevola in misura non trascurabile l’orecchio interiore: così sappiamo in anticipo, per esempio, che una composizione “In si minore” avrà quell’aria dimessa e semplice che si addice a una ballata melanconica, mentre una composizione “In fa diesis” disporrà a un’atmosfera più solenne e assertiva, che ciascuno dirigerà a proprio talento.

Silvia Comoglio supera pertanto la semplice ricerca di sonorità nella parola e della parola, come peraltro giustamente notato unanimemente da coloro che hanno commentato il suo lavoro, portando piuttosto il lettore-ascoltatore nel golfo mistico della propria interiorità e affidandogli addirittura la bacchetta con la quale dirigere la propria intima orchestra.

Un secondo piano di lettura è dato da quella che potremmo chiamare “rivoluzione comogliana della sottrazione”. Silvia Comoglio, in netta controtendenza con il gusto contemporaneo del sovrabbondante, dell’eccessivo, dell’ostentazione aggressiva, concentra le proprie energie poetiche sul togliere anziché sull’aggiungere, sul celare anziché sul mostrare. È dunque, la sua, una poetica della spoliazione, dove tuttavia, lungi dall’impoverirsi, le parole mirabilmente si dilatano proprio grazie all’aver tolto parole. Leggiamo, per esempio, “schiocca – a volo – di sbuio lucente / la terra di nana – ombra – dei fiori?” in cui la domanda emerge con maggiore decisione proprio a causa delle parole che sono state estirpate, parole che hanno lasciato cicatrici così gibbose da diventare esse stesse, nella loro testimonianza dell’essere segnaposti di qualcosa che non c’è più, parole invisibili e per questo, se possibile, ancora più dure, intense, aspre in molti casi.

Oppure ancora: “amo il solo amare che appare in orizzonte / del tutto senza ciglia : terra comparsa alla mia porta, / cóme, come mondo, ai márgini del mondo”, versi in cui le assenze verbali sono così discrete da essere necessarie. È una poetica della sottrazione che somiglia a una stanza in cui, alle pareti, sono visibili i contorni rarefatti di quadri ivi non più appesi. È proprio la loro assenza a farli presenti, sono proprio gli sbaffi rimasti a suggellare per sempre la loro esistenza. Non importa più cosa quei dipinti raffigurassero, né dove siano finiti: importa invece che quei dipinti fossero esistiti in quel luogo e non altrove, silenti testimonianze di un tempo che, nella sua inesorabilità, continuamente muta l’assetto dell’universo.

Ed è proprio questo il terzo piano su cui condurre il rapporto con l’opera: la lettura del tempo. Sfida difficile, quella raccolta da Silvia Comoglio, di parlare del tempo per attribuirgli una capacità inedita e inaudita, ovvero quella di ammutinarsi. Dobbiamo scendere molto in profondità nella parola poetica di Silvia Comoglio per cogliere in cosa consista questo ammutinamento.

Che lo si interpreti come qualcosa di lineare o di circolare, che lo percepisca come qualcosa di statico entro cui si muove lo spazio o come qualcosa di dinamico da cui lo spazio viene attraversato, il tempo investe noi mortali con la sua natura di invincibile regolatore dell’evoluzione della vita, il supremo elemento entro cui, e a causa di cui, la condizione umana vive la propria condizione di perenne trasformazione. La quinta e penultima sezione dell’opera (ma la sesta e ultima è costituita soltanto da una composizione brevissima e sottilmente angosciosa che sigilla, quasi con un gemito apocrifo, la martoriata esperienza del tempo) è dedicata a scandagliare l’intuizione dell’ammutinamento del tempo. Non certo all’improvviso: già diverse pagine prima l’autrice aveva avviato il proprio percorso di rilettura del tempo proponendo, sotto un frammento di pentagramma privo di note, come sospendendo il respiro lirico, una possibile relazione tra immortalità e ammutinamento del tempo: “í-mmortale  proclamo te / nel tempo ammú-tinato / * “.

Proprio questa relazione è la chiave che Silvia Comoglio offre per leggere correttamente cosa sia questo ammutinamento del tempo. Contro cosa, o contro chi, il tempo si ammutina? E perché? Leggendo in profondità la sezione si viene implacabilmente investiti dal senso di inadeguatezza in cui la condizione umana geme continuamente, sottoposta alla legge della trasformazione continua e della mortalità. Soggetto colpevole di infliggere tale sofferenza è il tempo, che, riconoscendosi reo, alfine si ammutina a se stesso nel bisogno di collusione con l’essere umano, torturato dalla sua condizione di instabilità. Consapevole di essere veicolo di trasformazione continua e di impedire pertanto la felice fissità di ciò che è immortale, il tempo reagisce ribellandosi alla sua stessa natura: il suo è un bisogno di donare salvezza e non dolore, liberazione e non prigionia, immortalità e non finitezza. Il tempo diventa allora un soggetto pensante e deliberante che viene in soccorso all’infelicità umana decidendo, atto inaudito, di ammutinarsi contro se stesso.

Del tutto inedita appare, nella storia della letteratura, questa solidarietà del tempo con gli aspetti esistenzialmente mutevoli dell’essere umano. E ancor più inedito il suo assoggettarsi ai limiti controversi della vita per offrire il suo impossibile sogno (Comoglio lo chiama “apice di sete”) come unica soluzione (“il chiavistello”) capace di disserrare l’impenetrabile porta che separa mortalità da immortalità. Drammatico, nel fluire dei versi, il rapporto del tempo ammutinato con Dio: “… nel / relitto di dio il de- / litto del tempo?”, ove Silvia Comoglio propone un finissimo parallelo tra l’esito dell’ammutinarsi del tempo (cioè il suo delitto) e ciò che rimane (il relitto) di Dio: da tale delitto, dall’ammutinamento del tempo, null’altro resta se non una nuova condizione di immortalità, prerogativa appunto di Dio, che viene finalmente estesa a tutti gli esseri umani liberati dal tempo.

A ben guardare, l’ammutinarsi del tempo equivale al suo estremo sacrificio, al suo suicidio: ecco che il tempo assume quindi l’eroismo di un kamikaze che sceglie di porre fine alla propria esistenza per evitare una sconfitta o, meglio ancora, per vincere la sua battaglia contro la finitezza, donando quell’immortalità impossibile fintantoché esso è in vita.

Ma perché farlo? Perché il tempo, con intuizione nuova e sorprendente, viene dipinto da Silvia Comoglio non come un’astrazione indifferente ai destini storici, ma come un eroe premuroso e coraggioso, che prende a cuore le sorti dell’universo per superarne le infinite mutazioni rendendolo immortale (e, per questo, si am-mutina, a-mutandis, ribellione contro il mutamento). Le numerose domande di cui è disseminata l’opera (se ne contano ben 79!) sono domande poste dal tempo all’essere umano, quasi a chiedere sostegno e conforto nel sacrificio di grazia che sta per compiere ammutinandosi. Significativa per esempio la domanda “(e): la grazia  del tempo ammutinato / è il fiore  spaccato a vita?”, che si completa con “(ma): è offerta, allora, / il multiplo di fiore?”, dove osserviamo questo tenero bisogno del tempo di essere rassicurato, di essere incoraggiato affinché la sua estrema offerta generi una fioritura moltiplicata e perenne.

Ultimo, ma non ultimo piano di lettura, le 79 domande dell’opera, in cui emerge con chiarezza la maturità del lavoro poetico di Silvia Comoglio e in cui ci si aspetterebbero quindi dei punti fermi, delle certezze. Sorprendentemente invece, Silvia Comoglio scombina le carte e dissemina la sua raccolta di domande, che testimoniano una maturità tutt’altro che finita, tutt’altro che definita, anzi più che mai irrequieta e per questo ancora generativa e creatrice.



In fa diesis

 

 nostro amore, amore, sono gl’occhi chiusi di dimora ―

“nostro amore, amore, è la rosa plasmata a dismisura,

terra che occupa se stessa  germogliando!  in acque di silenzio,

in vertici a dimora di un lungo solo bacio, perfetto, di ―

ventura

 

(... predetta eternità? dove, la casa,

metti dentro casa, e l’alba ―

tutta fuori casa, e il sogno, sopra,

sopra casa, e sotto, sotto casa la ―

bugia, dura, di bagliore

 

... ma la casa, invece, quella pellegrina, non è casa ―

tolta dalla bocca? c, a, s, a  nate da un tempo da svuotare?

non eterno? non predetto?

 

... la casa pellegrina che tolta dalla bocca

ha mille, mille terre, sfogliate  a sopracciglio

nella notte  tutta d’oro)

 

 

 

In do maggiore

 

fiori contro fiori gli assoli di gennaio

... modo, modo eterno, di dire e sillabare

sono stelo  - e ombra mite a suono

 

(amo il solo amare che appare in orizzonte

del tutto senza ciglia : terra comparsa alla mia porta,

cóme, come mondo, ai márgini del mondo

 

... qualsivoglia-tuo-reame  terríbile e vivente ...)

 

 

 

In sol maggiore

 

stanotte  sono  chi racconto : pausa

disgiunta da memoria : vera rosa ―

ricurva  di follia ―

 

(generarti a nome del mio tempo fu l’unico segreto,

del labbro, appena, fessurato ...

 

... allora, fu detto, è acuta forma di radice

lo sguardo  appena srotolato  in sillabe di nomi

incessanti  e già caduti

 

... rose, ritorte di sibille, di mondi ―

a voci irregolari, leggermente, negl’occhi, arti-

colate ...

 

... la distanza tra sillaba e sibilla è allora ―

mantice di casa  a luce soffiata  inter-mittente?

 

fui  qualsivoglia-tuo-reame  terríbile e vivente,

l’urgenza che prego di guardare nel dono del  suo peso ...)

 

 

 


    í-mmortale  proclamo te

                  nel tempo  ammú-tinato

 

                  *

 

(… iddio disceso a dono

fin dove, in ápice di sete,

la terra tu síllabi a deriva?


Silvia Comoglio, laureata in filosofia, ha pubblicato le sillogi Ervinca (LietoColle Editore, 2005), Canti onirici (L’arcolaio, 2009), Bubo bubo (L’arcolaio, 2010), Silhouette (Anterem Edizioni, 2013), Via Crucis (puntoacapo Editrice, 2014), Il vogatore (Anterem Edizioni, 2015 – Premio Lorenzo Montano – XXIX Edizione - Sezione raccolta inedita), scacciamosche (nugae) (puntoacapo Editrice, 2017), sottile, a microchiarore! (Edizioni Joker, 2018), Afasia (Anterem Edizioni, 2021), În ape de tăcere/ In acque di silenzio (Editura Cosmopoli, Bacau, 2023).La sua poesia è stata tradotta in Inglese e Romeno e in particolare il testo Terezín scritto per Margit Koretzovà e Rozkvetlà louka s motyly, Le farfalle, il disegno che Margit fece a Terezín dove fu deportata nel 1942 con l’intera famiglia prima di essere trasferita ad Auschwitz, è stato tradotto in Inglese Francese Spagnolo Tedesco Romeno e Ceco.

Suoi testi sono apparsi, tra l’altro, nei blog Blanc de ta nuque e La dimora del tempo sospeso, nel sito di Nanni Cagnone, sulle riviste Il Monte Analogo, Le voci della luna, La Clessidra, Il Segnale, Italian Poetry Review, Osiris poetry, nella rivista giapponese δ e nella rivista romena Poezia, e on-line nelle riviste Carte nel vento, Tellusfolio, La foce e la sorgente, Fili d’aquilone.

Il portale BombaCarta le ha dedicato La lettera in Versi n. 56 curata da Rosa Elisa Giangoia.

E’ presente nei saggi di Stefano Guglielmin Senza riparo. Poesia e Finitezza (La Vita Felice, 2009), Blanc de ta nuque, primo e secondo volume (Edizioni Dot.com.Press, 2011 e 2016) e La lingua visitata dalla neve (Aracne, 2019), nell’antologia Poesia in Piemonte e Valle d’Aosta (puntoacapo Editrice, 2012), in Fuochi complici di Marco Ercolani (Il leggio, 2019) e in Anni di Poesia di Elio Grasso (puntoacapo Editrice, 2020).

Fa parte del Comitato di Lettura di Anterem Edizioni e della Giuria del Premio di Poesia e Prosa Lorenzo Montano.


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