Per le Edizioni Via Del
Vento, nella preziosa collana di testi inediti e rari del Novecento a cura dell’editore
Fabrizio Zollo, fresco di stampa è il volumetto n. 83 I pescatori di perle. Raccoglie
un racconto già edito e due prose inedite di Beppe Salvia che ci consentono di
conoscere ulteriormente il poeta lucano pian piano scoperto ed apprezzato solo
dopo la morte.
Desidero proporre una mia
nota di lettura prima di trascrivere la riflessione critica di Pasquale Di
Palmo, profondo conoscitore della poesia di Beppe Salvia di cui si è occupato
ampiamente anche in passato pubblicando con le Edizioni Il Ponte del Sale l’antologia
“I begli occhi del ladro”.
Il
racconto I pescatori di perle si apre
con queste luminose parole: “I pescatori
di perle di Porto Haye sono i più felici uomini al mondo. […] In primavera
tutta la costa festeggia il raccolto delle perle. E le ragazze, piccole ma
belle e chiare di pelle, sposano i ragazzi […]”.
Al
contrario, i personaggi che seguono, primo fra tutti il napoletano Daniele, accennati,
con pochi, rapidi tocchi e con eccentriche connotazioni realistiche, sono
accomunati dal segno di una incompiutezza palese o nascosta, straniti nel
mondo, malinconici o apatici. Ma al di là di questo voluto ‘chiaroscuro’, conta
l’atmosfera, contano gli ambienti e la ‘fabula’, la stessa vicenda narrata, nel
cui tessuto spiccano frammenti descrittivi di un iperrealismo allucinatorio,
onirico. Salvia decostruisce la realtà, la notomizza, affonda nell’inconscio. Egli
è consapevole di scavare nel profondo, e allo stesso tempo conserva una purezza
ingenua. La sua esperienza estetica e la sua creatività lo spingono a restare
all’oscuro, quasi in un cono d’ombra fra l’amore per la natura e la bellezza e
la paura e il timore della morte che aleggiano negli uomini e nell’aria. “Così dunque s’annuncia la tempesta nei lembi
scrupolosi d’una giacca appesa ad una seggiola in cabina, e nel vestito grigio
di Destri, e nell’occhiale. Allora come un fosco silenzio prenatale cova e
ribolle nelle viscere, geme e s’infuoca verso orizzonte. Il più lieto degli dei
s’è assentato. E credo ci sia sempre qualcun altro nell’istante della morte
estrema a spogliarci della nostra propria vita. Daniele non ha pace, va e torna
e scende e sale, ma è così ed è un fatto. Ma è così e questo è stato fatto”.
Il
giovane scrittore costruisce infiniti specchi nei quali raddoppia la sua
immagine e vi si lascia fluire anche attraverso le due figure femminili,
diverse nel nome (la bellissima moglie Ester che lo accompagna nel viaggio a
Berlino e l’amica Bella nel racconto Inverno)
ma fugaci e aleatorie nel mondo e nel modo nei quali pure Salvia è costretto a
vivere.
“Dispensatore
di perle”, come Pasquale Di Palmo lo definisce, Salvia sfugge all’omologazione,
al conformismo, alla norma, al pensiero incastrato in abitudini, attraverso la
scrittura misteriosa e necessaria che gli consente di comunicare con sé stesso
e agli altri e ‘a nessuno’ la sua ribellione e la sua passione.
L’uomo
Beppe si eleva, allo stesso tempo, differenziandosi, e trova la sua raison du coeur: esiste solo in quanto
differenziandosi.
Appare
al contempo un metafisico del cuore e del quotidiano.
Succede
così che i virtuosismi e le preziosità della lingua servano a velare, con la
dignità di una mediazione coltissima, le pulsioni più oscure e le situazioni
più crude.
Nel
racconto Berlino, vagamente
autobiografico, lacerti del quotidiano, oggetti usuali riprodotti con maniacale
precisione, acquisiscono, disancorati da riconoscibili coordinate spazio-temporali,
significati tra il sempre uguale e il nuovo che appare e scompare. La profonda
intimità del regard familier (Ester
incinta, i soldi che mancano) si piega alla pochezza, del reale, ci conduce fin
dentro l’indifferenza di una Berlino fredda e inospitale. “E a Berlino ci arrivammo in ottobre, faceva già molto freddo. E il
primo dei nostri rifugi fu una cabina telefonica, in una strada buia di periferia.
Là facemmo l’amore e un topo nel frattempo rosicchiò un angolo dello zaino. Lo
rattoppammo in un caffè, dove passammo quasi un’intera notte …”; “Ester non si alzò dal letto per tutta la
giornata, e anche per altri tre quattro giorni. Di giorno spostavamo il letto
accanto alla finestra e lei guardava fuori per ore. Berlino l’immalinconiva. La
notte mettevamo il letto contro la parete della porta, perché là dentro
passavano i tubi del riscaldamento.”
Si
proietta all’occhio una realtà tediosa e desertica. La voglia di dire sì alla
vita urge, ma, allo stesso tempo, la stanchezza e la sfiducia le fanno da
resistenze impietose: si crea allora, come anche nel racconto Inverno (nella raccolta poetica Cieli Celesti sono i bellissimi versi “Inverno
dello scrivere nemico”, come precisa
lo stesso Di Palmo), un susseguirsi incalzante di immagini ad un ritmo a
corrente alternata in una sorta di specchio contro specchio a moltiplicare
all’infinito.
In
Inverno, ciò che fa da sfondo è il
rigido dicembre prossimo alla malinconica fine d’anno del borgo natio in cui “la neve
intorno, assenza d’ogni cosa, era incantata lavagna”.
Qui
da ragazzo Salvia viveva i suoi giorni più belli, “non i felici tra i giorni ma
le perenni ore del cuore”.
Il
cuore assume allora forma di pendolo, oscillante nella dialettica fra il corpus femminile (la voluttuosa e fuggitiva
Bella con la quale “Rimanevamo uniti
sotto il cielo. E sulla terra provvedevamo a sognare il mondo che non torna
agli uomini.”) e la mens maschile
che prova a districarsi fra memoria, sogno e riflessione, attingendo ora a un
più severo piano di negazione dell’io, ora a un amoroso e crudo faccia a faccia
con la vita e con i suoi confini. “Ma noi
prossimi al desiderio noi amanti sconosciuti l’uno all’altro dovevamo essere
l’animale e il dio, passare le sbarre, crescere in noi la sapienza, la vergine
forza che ogni volta genera in un mondo vuoto la vita.”
Dalla Prefazione di Pasquale Di Palmo a Il dispensatore di perle
I pescatori di
perle è sicuramente la prosa più risolta ed elegante. Venne composta nel
1984, apparve postuma nel n. 36 di ottobre-dicembre 1990 della rivista «Nuovi
Argomenti» e successivamente fu inserita nell’antologia, curata dal
sottoscritto, I begli
occhi del ladro (Il
Ponte del Sale, 2004). Il frammento Berlino
e Inverno risalgono al 1981 e risultano inediti; Inverno è il rimaneggiamento di un testo
allestito qualche anno prima e successivamente perduto, sorta di reminiscenza
infantile sulla sua città
natale. Per la
nostra edizione ci siamo basati suidocumenti messici cortesemente a
disposizione dal fratello, il pittore Rocco Salvia: si tratta di copie di manoscritti
e dattiloscritti che presentano qua e là alcune lacune o parole di difficile
decifrazione.
Questo trittico ci
permette di rendere omaggio, ad oltre trent’anni dalla scomparsa, ad un autore
che seppe districarsi con estrema raffinatezza tra poesia e prosa. Il suo stile
ha una compostezza di taglio classico, corroborata dal frequente ricorso ad arcaismi
e termini aulici. Vengono in mente, a tratti i modelli delle Operette morali di Leopardi, non a caso citato nei Pescatori di
perle, e di Landolfi, a cui Salvia dedicò una breve prosa, intitolata La
cappella Landolfi a Pico, emblematicamente apparsa nello stesso
numero di «Prato Pagano» in cui figura anche il racconto Un uomo buono le sue dolci colpe. Qui
abbondano le descrizioni della provincia meridionale che ricorrono anche, con
intenti palesemente dissacratori, nell’opera dell’autore di Rien va.
Ci sono inoltre parecchie analogie con le tematiche presenti nei testi poetici,
a cominciare da Inverno che non può non far pensare alla lirica e alla
prosa eponime proposte in Cuore (cieli celesti) o all’Inverno dello
scrivere nemico, come si intitola la sezione iniziale della stessa raccolta,
quasi ad evidenziare una dimensione spirituale che rimanda all’explicit della
sua lirica più famosa: «Sembra d’aver / qui nella casa un’altra casa, d’ombra,
/ e nella vita un’altra vita, eterna».
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