mercoledì 21 novembre 2018

Guglielmin, dentro la lirica (non simbolista)



da La lingua visitata dalla neve (saggio inedito, frammento tratto da pp. 190-193)


CAPITOLO QUARTO

Dentro la lirica (non simbolista)






4.1 La lirica gode di buona salute dentro il suo ghetto

Il titolo di questo capitolo riprende il testiano Dopo la lirica, per chiarire anzitutto che, in entrambi gli assunti, a venire meno è l’aggettivo «simbolista». È infatti l’aura che pervade il poeta simbolista a perdere efficacia, a risultare fuori luogo, in una «società aperta», come la chiama Popper, dominata da programmazione e diplomazia, entro un quadro di massificazione generale. È con quest’ultima (e a volte con i suoi aspetti più deleteri) che il poeta si confronta, poeta la cui attitudine scrittoria non gli deriva più da un invasamento divino, come negli antichi, né da un’investitura naturale, dal genio, come nei romantici, ma piuttosto dal diritto di parola concesso dalle democrazie e formalmente organizzato dall’istruzione. Se, sfidando l’assoluto, l’abisso, il sovrumano, l’io romantico e simbolista mette necessariamente in risalto la propria eroica centralità, la sfida odierna alle piccole cose, alla quotidianità sempre più conformista e per certi aspetti devastante, lo svilisce socialmente e lo avvilisce moralmente, costringendolo ad aggiustamenti del canto verso il basso, il prosaico, il periferico.

Non si discute sulla crisi sia del Simbolismo e sia dell’Ermetismo, attiva almeno dagli anni Cinquanta. Sulla crisi della lirica, invece, sarei prudente, per quanto la «società aperta» abbia messo in circolo una langue ricca di tecnicismi, di strutture sintattiche tipiche del parlato, di democraticità interna fra io e mondo, che sembrerebbe favorire il prosaico. In effetti, un certo grado di prosaicità non è alternativo alla lirica, bensì un suo doveroso armamentario, una risposta sensata alla prosasticità biografica in una società che ha tradito le promesse del canto cristallino, confondendo felicità con benessere materiale, ricchezza con possesso di beni, cultura con informazione, democrazia con difesa dell’utile. Lo abbiamo infatti visto studiando De Angelis, Gualtieri, Anedda, De Signoribus, Cappello e Benedetti, e ancora di più è risultato evidente indagando Alesi, Cattaneo, Cavallo e Toma, nei quali, malgrado i dispositivi lirici risultino indispensabili a definirne la scrittura, troviamo una sicura convergenza alla referenzialità, al contesto extralinguistico.

A sostegno della tesi secondo cui la lirica gode di buona salute, contribuisce involontariamente la stessa introduzione di Enrico Testa a Dopo la lirica: se infatti egli organizza con facilità le premesse del prosaico contemporaneo (le opere, scritte tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Settanta, di Sereni, Pasolini, Montale, Caproni, Luzi, Giudici, Pagliarani e Raboni), quando parla della seconda metà dei Settanta, deve ammettere che la nuova generazione di poeti (Cucchi, De Angelis, Viviani, Conte, Bellezza) rifugge i padri, per seguire il visionario, l’alogico, l’eversione ludica, la dismisura e la disseminazione dell’io. Testa risolve l’incongruenza tagliando il nodo gordiano con la formula: «Autori che vanno letti […] nella loro singolarità e apprezzati nel loro collocarsi fuori quadro»[1]. Peccato che però subito dopo debba ammettere che negli anni Ottanta la prospettiva non cambia, essendoci un ritorno del «neo-sublime», e cita a tal proposito, fra gli altri, Stella variabile di Sereni, che «fa dell’identità un problema centrale». Non c’è dubbio che lo splendido poemetto Un posto di vacanza sia molto più lirico degli Strumenti umani, caratterizzato com’è da una liricità complessa, in cui l’io canta e parla, si veste d’endecasillabi e di stracci dialogici, dando al poemetto un’unità modernissima rispetto al simbolismo gracile dei suoi primi libri. E che dire, nel medesimo periodo, dei versi di Zanzotto, Valduga, Merini, del Giovanni Giudici di Empie stelle (1996) e di Eresia della sera (1999)? La presenza della lirica è un fatto innegabile nel canone recente; lo ammette lo stesso Testa, concludendo che a caratterizzare gli «ultimi vent’anni», più che il prosaico, è «l’assenza di poetiche forti, l’altissimo numero di autori e la loro mobilità o evoluzione stilistica (con casi clamorosi di passaggio per domini antitetici)». Tutto questo, conclude, rende «difficile […] una quadro d’insieme»[2]. A conti fatti, oltre al quadro, è la cornice culturale a mancare, qualcosa di valido che tenga unita la pluralità centripeta vigente, arginata dai migliori, ripeto, mischiando lirico e prosaico con una libertà nuova, dopo avere scaricato il Simbolismo o averci dialogato con prudenza.

La stessa antologia curata da Giuliano Dego e Lucio Zaniboni, La svolta narrativa della poesia italiana, uscita verso la metà degli anni Ottanta, porta nella prefazione l’incertezza di un discorso che non può decidersi in via definitiva perché questa «svolta», già annunciata da Montale nel 1951 in un articolo su “Lo Smeraldo”, soprattutto dagli anni Settanta è più che altro un procedere parallelo, dove «lunghe o brevi lasse narrative in versi sciolti» di alcuni autori convivono con «le ottave, i sonetti, i distici, le quartine» di altri[3]. I decenni successivi confermano questa compresenza, che diventa polarità conflittuale, alternativa improcrastinabile, solamente in chi si fa strenuo difensore di una delle due fazioni, talvolta per ragioni d militanza, talaltra per difendere fortini editoriali o per altre più mediocri ambizioni.

Il problema invece è un altro, ben più decisivo. Esso riguarda la credibilità della poesia europea in generale, la sua sopravvivenza nell’orizzonte culturale contemporaneo; sopravvivenza che dipende, mi sembra, anzitutto dalla capacità dei poeti di mantenere una distanza critico-biografica dalla medietà conformista, tale da garantire al testo un originale sguardo sul reale: è un fatto invece che l’odissea contemporanea dei poeti, non soltanto italiani, sfidi i flutti della quotidianità piccolo-borghese, al pari di un qualsiasi Dedalus dublinese; il loro orizzonte esperienziale è di solito ordinario, e anche loro, come l’antieroe joyciano, vivono la maggior parte del tempo in un giovedì qualsiasi di giugno, in un tepore senza minacce atomiche o malattie devastanti o dipendenze o lutti.

Ci sono anche poeti con differente carico esistenziale: quelli citati nel precedente paragrafo, per esempio, e altri con problematiche analoghe o perché malati, disoccupati o precari. Rimane pur vero, tuttavia, che il canone contemporaneo – penso a quello italiano, che conosco meglio – sotto il profilo socio-economico è costituito in gran parte da persone che svolgono mansioni impiegatizie, con un titolo di studio spesso universitario, coinvolti in una relazione coniugale più o meno stabile, che viaggiano in aereo, e che posseggono qualche competenza linguistica straniera, l’inglese di solito, e informatica. La loro sensibilità, li fa essere talvolta poco integrati nel tessuto sociale, ma non al punto da patire nevrosi irreparabili: insonnie, semmai, e disturbi psicosomatici, contenibili con psicofarmaci e qualche seduta dal terapeuta.

Viene da chiederci, che cosa abbiano da insegnare questi poeti ai lettori, i quali praticano gli stessi spazi e sovente gli stessi libri; dove riposi la specificità del loro sguardo; quale ruolo possano ancora assumere rispetto al bene comune, considerando l’evidenza che la società, specialmente italiana, li ha ghettizzati da tempo.
[…]



[1] E. Testa, Dopo la lirica, cit., p. XVII.
[2] Ivi, p. XXVI.
[3] Giuliano Dego, Prefazione a G. Dego, L. Zaniboni, La svolta narrativa della poesia italiana, Edizioni Agielle, Lecco 1984, p. 10.





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