da La lingua visitata dalla neve (saggio inedito, frammento tratto da pp. 190-193)
Dentro
la lirica (non simbolista)
4.1 La
lirica gode di buona salute dentro il suo ghetto
Il titolo di questo capitolo riprende il
testiano Dopo la lirica, per chiarire
anzitutto che, in entrambi gli assunti, a venire meno è l’aggettivo
«simbolista». È infatti l’aura che pervade il poeta simbolista a perdere
efficacia, a risultare fuori luogo, in una «società aperta», come la chiama
Popper, dominata da programmazione e diplomazia, entro un quadro di
massificazione generale. È con quest’ultima (e a volte con i suoi aspetti più
deleteri) che il poeta si confronta, poeta la cui attitudine scrittoria non gli
deriva più da un invasamento divino, come negli antichi, né da un’investitura
naturale, dal genio, come nei
romantici, ma piuttosto dal diritto di parola concesso dalle democrazie e
formalmente organizzato dall’istruzione. Se, sfidando l’assoluto, l’abisso, il
sovrumano, l’io romantico e simbolista mette necessariamente in risalto la
propria eroica centralità, la sfida odierna alle piccole cose, alla
quotidianità sempre più conformista e per certi aspetti devastante, lo svilisce
socialmente e lo avvilisce moralmente, costringendolo ad aggiustamenti del
canto verso il basso, il prosaico, il periferico.
Non
si discute sulla crisi sia del Simbolismo e sia dell’Ermetismo, attiva almeno
dagli anni Cinquanta. Sulla crisi della lirica, invece, sarei prudente, per
quanto la «società aperta» abbia messo in circolo una langue ricca di tecnicismi, di strutture sintattiche tipiche del
parlato, di democraticità interna fra io e mondo, che sembrerebbe favorire il
prosaico. In effetti, un certo grado di prosaicità non è alternativo alla
lirica, bensì un suo doveroso armamentario, una risposta sensata alla
prosasticità biografica in una società che ha tradito le promesse del canto
cristallino, confondendo felicità con benessere materiale, ricchezza con
possesso di beni, cultura con informazione, democrazia con difesa dell’utile.
Lo abbiamo infatti visto studiando De Angelis, Gualtieri, Anedda, De Signoribus,
Cappello e Benedetti, e ancora di più è risultato evidente indagando Alesi,
Cattaneo, Cavallo e Toma, nei quali, malgrado i dispositivi lirici risultino
indispensabili a definirne la scrittura, troviamo una sicura convergenza alla
referenzialità, al contesto extralinguistico.
A
sostegno della tesi secondo cui la lirica gode di buona salute, contribuisce
involontariamente la stessa introduzione
di Enrico Testa a Dopo la lirica: se
infatti egli organizza con facilità le premesse del prosaico contemporaneo (le
opere, scritte tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Settanta, di Sereni,
Pasolini, Montale, Caproni, Luzi, Giudici, Pagliarani e Raboni), quando parla
della seconda metà dei Settanta, deve ammettere che la nuova generazione di
poeti (Cucchi, De Angelis, Viviani, Conte, Bellezza) rifugge i padri, per
seguire il visionario, l’alogico, l’eversione ludica, la dismisura e la
disseminazione dell’io. Testa risolve l’incongruenza tagliando il nodo gordiano
con la formula: «Autori che vanno letti […] nella loro singolarità e apprezzati
nel loro collocarsi fuori quadro»[1]. Peccato che però subito
dopo debba ammettere che negli anni Ottanta la prospettiva non cambia,
essendoci un ritorno del «neo-sublime», e cita a tal proposito, fra gli altri, Stella variabile di Sereni, che «fa
dell’identità un problema centrale». Non c’è dubbio che lo splendido poemetto Un posto di vacanza sia molto più lirico
degli Strumenti umani, caratterizzato
com’è da una liricità complessa, in cui l’io canta e parla, si veste
d’endecasillabi e di stracci dialogici, dando al poemetto un’unità modernissima
rispetto al simbolismo gracile dei suoi primi libri. E che dire, nel medesimo
periodo, dei versi di Zanzotto, Valduga, Merini, del Giovanni Giudici di Empie stelle (1996) e di Eresia della sera (1999)? La presenza
della lirica è un fatto innegabile nel canone recente; lo ammette lo stesso
Testa, concludendo che a caratterizzare gli «ultimi vent’anni», più che il
prosaico, è «l’assenza di poetiche forti, l’altissimo numero di autori e la
loro mobilità o evoluzione stilistica (con casi clamorosi di passaggio per
domini antitetici)». Tutto questo, conclude, rende «difficile […] una quadro
d’insieme»[2]. A conti fatti, oltre al
quadro, è la cornice culturale a mancare, qualcosa di valido che tenga unita la
pluralità centripeta vigente, arginata dai migliori, ripeto, mischiando lirico
e prosaico con una libertà nuova, dopo avere scaricato il Simbolismo o averci
dialogato con prudenza.
La
stessa antologia curata da Giuliano Dego e Lucio Zaniboni, La svolta narrativa della poesia italiana, uscita verso la metà
degli anni Ottanta, porta nella prefazione l’incertezza di un discorso che non
può decidersi in via definitiva perché questa «svolta», già annunciata da
Montale nel 1951 in un articolo su “Lo Smeraldo”, soprattutto dagli anni
Settanta è più che altro un procedere parallelo, dove «lunghe o brevi lasse
narrative in versi sciolti» di alcuni autori convivono con «le ottave, i
sonetti, i distici, le quartine» di altri[3]. I decenni successivi
confermano questa compresenza, che diventa polarità conflittuale, alternativa
improcrastinabile, solamente in chi si fa strenuo difensore di una delle due
fazioni, talvolta per ragioni d militanza, talaltra per difendere fortini
editoriali o per altre più mediocri ambizioni.
Il
problema invece è un altro, ben più decisivo. Esso riguarda la
credibilità della poesia europea in generale, la sua sopravvivenza
nell’orizzonte culturale contemporaneo; sopravvivenza che dipende, mi sembra,
anzitutto dalla capacità dei poeti di mantenere una distanza critico-biografica
dalla medietà conformista, tale da garantire al testo un originale sguardo sul
reale: è un fatto invece che l’odissea contemporanea dei poeti, non soltanto
italiani, sfidi i flutti della quotidianità piccolo-borghese, al pari di un
qualsiasi Dedalus dublinese; il loro orizzonte esperienziale è di solito
ordinario, e anche loro, come l’antieroe joyciano, vivono la maggior parte del
tempo in un giovedì qualsiasi di giugno, in un tepore senza minacce atomiche o
malattie devastanti o dipendenze o lutti.
Ci sono anche poeti con differente carico
esistenziale: quelli citati nel precedente paragrafo, per esempio, e altri con
problematiche analoghe o perché malati, disoccupati o precari. Rimane pur vero,
tuttavia, che il canone contemporaneo – penso a quello italiano, che conosco
meglio – sotto il profilo socio-economico è costituito in gran parte da persone
che svolgono mansioni impiegatizie, con un titolo di studio spesso
universitario, coinvolti in una relazione coniugale più o meno stabile, che
viaggiano in aereo, e che posseggono qualche competenza linguistica straniera,
l’inglese di solito, e informatica. La loro sensibilità, li fa essere talvolta
poco integrati nel tessuto sociale, ma non al punto da patire nevrosi
irreparabili: insonnie, semmai, e disturbi psicosomatici, contenibili con
psicofarmaci e qualche seduta dal terapeuta.
Viene da chiederci, che cosa abbiano da
insegnare questi poeti ai lettori, i quali praticano gli stessi spazi e sovente
gli stessi libri; dove riposi la specificità del loro sguardo; quale ruolo
possano ancora assumere rispetto al bene comune, considerando l’evidenza che la
società, specialmente italiana, li ha ghettizzati da tempo.
[…]
[1]
E. Testa, Dopo la lirica, cit., p. XVII.
[3]
Giuliano
Dego, Prefazione a G. Dego, L. Zaniboni,
La svolta
narrativa della poesia italiana,
Edizioni Agielle, Lecco 1984, p. 10.
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