GUGLIELMIN. NON SI È MAI DOVE
SI È
[...] Forse la poesia non ha oggi che uno scopo negativo, in
un mondo in cui le parole son troppe: di infondere malessere, di suscitare
disorientamento nel casuale e distratto lettore, instillandogli il dubbio che
le cose non stiano così come le gazzette bugiardamente assicurano ogni giorno
con perseverante malizia. Ma farlo non in una prospettiva ideologica, o,
peggio, politica, come pare facessero Nanni Balestrini o Elio Pagliarani, quasi
si trattasse di una lotta contro il sistema. No, niente sistemi da abbattere,
solo servire modestamente la verità dell’uomo e dire le cose sgradite che ormai
nessuno dice più. Per esempio: «S’invecchia, si muore, sai? Intendimi: non gli
altri soltanto, ma noi, ma tu…»; oppure: «Le passioni, eh, caro, svaniscono, e
spaesata parola è l’amore, oggetto feriale e disadorno in un paesaggio oggi più
che mai dominato dall’estetismo di Krizia e compagni…».
Forse allora le cose stanno anche peggio. Non è la
scarsa leggibilità dei poeti d’oggi a togliere lettori alla poesia. Infatti non
è che la riforma liturgica abbia fatto ritornare le folle alle chiese. È che
sono parole sommamente sgradite quelle sillabate dal poeta, il quale è solo un
prestavoce: c’è chi dice all’inconscio, c’è chi dice all’Assoluto…
Quale sia la verità, questi pensieri, davvero poco
allegri, mi ha prodotto l’incontro con Stefano Guglielmin, pur più giovane di
me. Mi è parso infatti di capire assai bene la posizione senza sbocchi del suo
essere poeta. E tuttavia egli mi è parso ben determinato a perseverare nella
quotidiana operazione della testimonianza.
2.
Nato nel 1961, originario di Magrè, da ragazzo o poco
più Stefano Guglielmin praticava il mezzofondo con l’Emar di Mirko Gresele e
voleva inserirsi nel mondo dello sport: un diploma qualunque e poi frequentare
l’“Istituto Superiore di Educazione Fisica”. Ai geometri però, quando già la
sua adolescenza spingeva all’involuto e alle letture che t’illudono spiegare
gli enigmi con lo svelamento dell’inconscio, trovò un’insegnante che lo
indirizzò a letture anche più costruttive. Fu così che per merito di Lilia
Pino, finite le superiori, Guglielmin seguì i corsi filosofici del “Liviano”,
fino a laurearsi con una tesi sul pensiero debole in Nietzsche ed Heidegger.
Ormai però da tempo le scuole s’erano assiepate
d’insegnanti. E dopo la laurea egli non ebbe il coraggio d’insistere. Invece di
attendere il suo turno pur d’insegnare filosofia, si adattò ad entrare nelle
graduatorie di lettere. Ne derivarono i passati 9 difficili anni, mandato a
insegnare lontano da casa, in sedi diverse ma sempre disagiate e di poca
soddisfazione: ogni ottobre assunto, ogni settembre licenziato.
Abbandonato lo sport, per socializzare gli restava la
musica, studiata per merito del nonno, Piereto Guglielmin, il quale si era
fatto un nome suonando il violino nelle orchestrine e il violoncello nei
matrimoni. Il nipote invece suona il pianoforte, ma da 6 anni fa anche parte
del “Danny Rose”, un gruppo rock nel quale suona il basso elettrico.
Prima ancora però ci fu la poesia, un modo forse più
nobile ed elitario per sciogliere o sublimare i propri nodi esistenziali.
Debitore com’era delle sue letture freudiane e degli studi sul rapporto
linguaggio-essere, non poteva che scrivere in modo illeggibile, anche perché
c’erano già dei modelli, ammiccanti dalla loro marginalità, a professare
l’affascinante (per un giovane solitario) avanguardismo della poesia come lotta
al linguaggio istituzionalizzato, profeti disarmati ma ben determinati a
combattere il sistema con la pratica di un trobar clus tra i più serrati. Forse
qualcuno ricorderà i Novissimi e il “Gruppo 63”.
Marginale alla cultura “dominante” in città,
Guglielmin vide in quel tipo di militanza la sua strada, sicché anche quando
entrò a far parte degli “Amici della Poesia”, circolo animato da Danilo Faccin,
non poté che restarci pochi anni, collaborando però, oltre che ad alcune
antologie (Certo la pioggia, 1986), a qualche attività pubblica. Sua è
l’organizzazione di una mostra delle riviste italiane di poesia, di cui nell’87
riuscì a portare a palazzo Toaldi Capra un centinaio di esemplari. Mostra
andata deserta, com’è immaginabile…
Guglielmin, il quale nell’85 aveva pubblicato la sua
prima raccolta (Fascinose estroversioni),
accettò l’isolamento, cercando fuori di Schio qualche contatto, qualche
colleganza, anche partecipando ai premi letterari, selezionati tra quelli dalle
giurie di valore. Nel ’90, dopo aver pubblicato Logoshima (1988), colse il successo più significativo, vincendo con
una silloge di 10 liriche il premio “Poesia” di Cologno Monzese che aveva in
giuria, insieme con i più giovani Milo De Angelis e Roberto Pazzi, Giancarlo
Majorino e Maria Luisa Spaziani. Subito dopo una sua poesia sonora, costruita
insieme con Giacomo Bergamini di Arzignano, fu accolta nel n. 21 di Baobab,
rivista diretta da Adriano Spatola.
Oggi Guglielmin ha momentaneamente detto basta alla
poesia. C’è nel cassetto una raccolta (Le
parole che al vento) con gl’inediti di un quadriennio (89-93) che Jolanda
Insana gli ha promesso di pubblicare. L’autore me ne ha parlato come dell’opera
più matura, più importante. Divisa in 3 sezioni (Dell’angelico, Dell’erotico,
Del dolore) è una storia d’amore esposta da 3 voci, narranti in 3 stili
diversi. Abbandonata ormai la ricerca linguistica dell’avanguardia, Guglielmin
è convinto di aver superato la frattura tra lingua materna e italiano
attraversando in modo sperimentale i linguaggi della nostra letteratura. Così,
senza riecheggiamenti ma per via allusiva, ha trovato la propria voce.
Nell’attesa della pubblicazione, da 3 anni Guglielmin
si è intanto indirizzato alla prosa ed ha già scritto 2 romanzi. Il primo,
completato nel 93 in 110 pagine, s’intitola Buon
Natale, bambini!; il secondo - Il giardino di Shaiho-Jo [finalista al premio Calvino del 1996, n.d.r.] - è appena
finito ed è lungo una trentina di pagine in più. Di entrambi ignoriamo la trama
e la scrittura; sappiamo solo che ora l’autore sta dandosi da fare con le case
editrici per “collocarli”.
Lasciandolo, gli abbiamo augurato buona fortuna: per i
figli, c’è, alla peggio, l’orfanatrofio: ma per gl’inediti?
3.
L’idea che sta alla radice degli studi raccolti da
Stefano Guglielmin sotto il titolo di Scritti
nomadi è chiara ma niente affatto allegra: è la solitudine la
caratteristica intima dell’uomo. La differenza tra il passato e la modernità (o
la postmodernità, cioè l’oggi) è che nel passato Dio non era ancora morto nel
cuore e nella mente dell’uomo, per cui l’uomo trasferiva il proprio senso, la
ragione della propria esistenza in Dio e a lui faceva sempre riferimento, col
rischio che il fideismo annullasse razionalità e responsabilità. Posizione
decisamente difficile da sostenere, se non con un forte equilibrio tra cuore e
ragione, tra fede e ragione (Agostino, Pascal). Cresciuta patologicamente la
ragione (Umanesimo? Illuminismo?), le lamentele del cuore sono state tacitate,
in quanto l’uomo tentava di farsi dio a sé stesso. Da qui invece le tragedie
dei vari totalitarismi otto-novecenteschi. In fondo, il dramma dell’uomo
moderno è che, avendo dissociato la libertà dalla verità, si è trovato in mano
un attrezzo inservibile e nel cuore il totale spaesamento: perché mortale era
prima e mortale è rimasto anche dopo. Insomma, come aver gambe e non aver terra
sotto i piedi.
Il merito del libro però non deriva solo dall’utilità
che se ne può ricavare per una interpretazione sistematica, quantunque univoca,
di vari autori del Novecento sia italiani (Campana, Fenoglio, Calvino, Volponi,
Sanguineti, Giuliani, Porta, Balestrini, Zanzotto ecc.) sia stranieri (Camus,
Beckett, Ionesco, Borges, Trakl ecc.). Questo vale per chi s’interessi di
letteratura in senso professionale. No, c’è un altro merito, che per me vale di
più ed è che il libro è legato da un resistente filo d’oro, fatto ad un tempo
di coerenza e di nobiltà. Voglio dire che nella ricerca di Guglielmin -
personaggio socialmente defilato - c’è stretto rapporto tra esistenza e
coscienza: egli vive coerentemente la propria condizione, non importa se ad
essa è arrivato passo passo, oppure per folgorazione agnitiva (quasi una
Damasco all’incontrario, così ben descritta da Montale in Forse un mattino andando).
Dalla drammatica e immedicabile scoperta di essere «un
altro» perfino a sé stesso, ecco le quotidiane lacerazioni, vissute sotto il
profilo esistenziale (solitudine, spaesamento) e sotto il profilo creativo (il
“più in là” della parola) e analitico, sezionando l’arduo simbolismo della
letteratura dell’oltranza. L’altra cosa che apprezzo di Guglielmin è che non
per questo sente ingiustificata l’opportunità del dialogo e dell’attenzione,
perfino della compassione. Lui lo dice in modo meno semplice, ma il concetto è
chiaro: essere «un altro» col desiderio di essere «in altro», avendo cioè in sé
stessi una propensione ai compagni di strada e di pena.
Va da sé che, eliminato il postulato/pregiudizio
dell’esistenza di Dio, niente più si potrà mai assolutizzare, se non -
paradossalmente - la relatività. Pensiero debole? Altroché, visto che non c’è più
centro, né noi siamo centro a noi stessi; ma anzi siamo periferici e spaesati,
per cui niente di ciò che avviene davanti ai nostri occhi c’interessa davvero.
Stranieri, dunque. Eppure…
Eppure c’è nell’intimo di tale disposizione
“disperata” al vivere una incongruenza grande e misericordiosa: lo dimostra lo
stesso Guglielmin quando cerca sinonimi alla «erranza» del sottotitolo e di sé:
dice di volta in volta «straniero» «spaesato», «viandante», «nomade»,
«pellegrino». Sì, dice anche «pellegrino», a significare che il perenne nostro
camminare in ricerca di un senso che non abbiamo, ha - forse - una meta, o la
speranza di una meta: una umile, pascolianamente patetica o leopardianamente
eroica («e mi sovvien l’eterno e le morte stagioni») aspirazione all’arrivo,
all’accoglienza e, infine, al riposo.
Questa biografia così partecipata di Gianpaolo Resentera, termina rivelando nel percorso di Stefano Guglielmin "il perenne nostro camminare in ricerca di un senso che non abbiamo". Credo che in ogni poeta questa ricerca sia sempre aspirazione a squarciare i confini di un mistero irraggiungibile o forse a noi vicinissimo e del tutto vuoto. E'in questo pulsare di dubbio e domanda irrisposta il nomadismo inquieto e umanissimo di Stefano.
RispondiEliminaChe saluto con amicizia
condivido questa tua percezione nomadica anche vent'anni dopo l'articolo. Ciao Annamaria!
RispondiElimina