Qualche
mese fa, a proposito di alcuni inediti di Ambra Simeone, scrivevo che l’autrice
“riconosce l’onestà quale misura di tutte le cose, come se la voce uscisse
dalla pancia e dalla testa, intrecciandosi là dove finisce il corpo e comincia
il mondo. C’è una distanza di sicurezza nel suo modo di raccontarlo quel mondo
fatto di stereotipi e luoghi comuni, uno spazio che le consente di vedere con
la maggiore lucidità possibile, come fa il pittore per cogliere, degli uomini,
i più minuti dettagli, ma non per salvarli, giacché, pare di intendere in
queste sue poesie, essi sono già tutti omologati, bambini da nutrire e far
felici con i beni fittizi del consumismo”. Leggendo ora Ho qualcosa da dirti (DeComporre Edizioni, 2014) la sua poetica
emerge con maggiore chiarezza, a partire dal gioco messo in esergo, dove lei e
Giorgio Linguaglossa si esibiscono in due soliloqui che diventano dialogo
solamente alla fine, quando il critico romano accetta la sfida di pronunciarsi
intorno a questo libro, definendolo, citando Brodskij, “un avviamento
all’insicurezza e all’incertezza”, pronto forse a diventare un “Mito” ossia a
durare nel tempo, proprio per la sua “fragilità” e “intemporalità”.
Succede
di rado che Linguaglossa si sbilanci così, ma la Simeone comunque non gli crede
fino in fondo, tanto che mette in epigrafe alle poesie due citazioni pesanti
come pietre (di Valery e Picabia) quando una pagina prima l’interlocutore gli
aveva esposto le sue perplessità in merito alle “genealogie esibite”. Citazioni
che riguardano il gioco, la serietà dello scherzo. Ed è su questo insieme di
fatti, oltre che sulla prefazione scritta di suo pugno, che si fonda l’ipotesi
che Ambra Simeone si scarti da qualsiasi radice, da vincoli troppo esigenti
(dai padri, insomma, dalle tradizioni), per darsi apparentemente in veste di
titubante e fragile esordiente, di una che, pur scrivendo “quasi poesie” (come
recita il sottotitolo, e non alludendo semplicemente alla misura non-lirica del
dettato), sfida il lettore a cimentarsi con la sua scrittura, niente affatto
ingenua, a interpretarla come meglio crede, tanto a lei, sembra dirci, preme
solamente di dire qualcosa, di dirlo in quel modo, con quegli accenti, quegli scarti,
quegli equilibrismi.
A
me, soprattutto l’autoprefazione (un
unico periodo di una pagina e mezza), ha ricordato, in piccolo, la magistrale
scrittura dada di Gertrude Stein nelle conferenze
americane, oltre naturalmente allo Stefano Dal Bianco di Ritorno a Planaval. Non c’è da stupirsi,
d’altro canto, visto che la giovane poeta di Gaeta è co-direttrice de Il Guastatore – Quaderni Neon-Avanguardisti
e, sul poeta italiano, ha fatto la tesi di specializzazione.
La
differenza dalle scritture avanguardiste e da quella di Dal Bianco è
altrettanto evidente, tuttavia; la Simeone scrive come parla e parla come pensa
e pensa che parlare e scrivere siano lo stesso esercizio socio-culturale,
imparentato con le funzioni fisiologiche. Sotto questo profilo, ancor prima
della poetica di Dal Bianco, lei fa propria la lezione di J. Keats: “Se la
poesia non nasce con la stessa naturalezza delle foglie sugli alberi è meglio
che non nasca neppure”. Soltanto che il poeta inglese dice io con la forza di
chi si sente consegnato alla morte e il suo movimento è a spirale, un gorgo in
cui l’identità si condensa, mentre la Simeone ama la forza centripeta che, nel
suo movimento vorticoso, prende con sé le cose che la circondano, i ricordi, i
fatti, le persone, il giudizio su cose, ricordi fatti e persone, trasformando
tutto ciò in discorso tremolante per scelta metodologica, un discorso messo in
opera da una controfigura che sembra parlare davanti a una telecamera oppure in
una sala d’attesa o dal parrucchiere. Potrebbe essere la casalinga di Voghera, se non sapessimo che dietro a quella maschera
c’è una donna, altrettanto insicura, ma colta, e diffidente verso
l’intellighenzia di regime o di contro regime, verso chi di fatto usa le parole
per dominare. Quello che lei ha da dirci, insomma, lo fa dire da una sorella
chiacchierona, ma non per questo ironicamente rappresentata. E questo la
differenzia anche da chi mette in scena un io-inetto per raccontare la
mediocrità e la volgarità contemporanea, come fa per esempio Aldo Nove.
L’ulteriore filtro è dato, come accennavo all’inizio, dalla
leggerezza giocosa che permea il dettato: è una sottile sarabanda contestativa
ai luoghi comuni, un umorismo pirandelliano decupato dall’orrore esplicito
verso la morte. Perché qui la morte è esorcizzata nel
troppo-grande-troppo-violento-per-essere-compreso: “non mi va di sapere tutto,
e delle cose, non so perché, ma preferisco non saperle”. Questo fermarsi prima
dell’orrido vero, non è conformismo borghese, ma proprio il segnale che
quell’abisso esiste, per darcene un assaggio attraverso un fraseggio vagantivo,
mosso su di una superficie che lascia intravvedere i cadaveri sottostanti.
La vetusta diatriba sul verso e sulla prosa smette qui d’interessare,
proprio perché il verso lungo di Simeone è la misura esatta del suo rapporto
con il mondo e con l’interiorità, è un metro con il quale, appunto, lei tiene a
distanza di sicurezza entrambi, uno strumento di sopravvivenza, prima di essere
una scelta stilistica. E questo, dico io, dovrebbe valere per tutti i poeti: il
verso è il correlativo oggettivo dell’io, è spazio dell’agio e del disagio dove
la tensione che lo costituisce non la decide il poeta, è il senso del nostro
abitare la terra, che ci dispone in esso sempre in precario equilibrio. Il
metro insomma è l’indisponibile, quando la parola è autentica; oppure è solo un
modo di far parte di una scuola, una stampella artificiale, una tecnica per
stimolare l’ispirazione, una scusa per fingersi poeti. Di questo mi pare
consapevole anche la Simeone quando scrive, in un commento in rete (nel blog di
Nazario Pardini Alla volta di Leucade,
post del 28 aprile 2015): “Uno pensa sempre di aver scelto una forma poetica
tramite la quale veicolare un contenuto, ma in realtà è il pensiero che lo fa
per noi, nel momento in cui vogliamo comunicare un qualcosa e di solito ciò
avviene in modo molto naturale”.
Da
Ho qualcosa da dirti (DeComporre
Edizioni, 2014)
avrei da
dire tante cose su questi tipi di scrittori,
ma ne
dico una sola, ho letto diverse biografie di autori famosi,
che a me
poi, non piace molto leggerle, mentre chissà perché,
io
preferisco leggere i loro scritti, così, direttamente,
e mi
sembra di leggere un testamento, quello vero, non quello lasciato dal notaio,
comunque,
quando leggi queste biografie sarebbe meglio premunirsi,
con
qualche tranquillante o ansiolitico, che per parlare in breve della loro vita,
converrebbe
farci un dramma, tra morti, malattie, incidenti e violenze,
poi ci sono
quelli che hanno optato per il suicidio in gran stile,
e
dunque, a me, viene da dire che ho tanti amici che scrivono,
e che
non sono famosi e forse non lo saranno
neppure dopo morti,
però
alla fine io non gli auguro mai queste grosse tragedie,
anche se
delle volte vedo già un germe di sfiga radicato in loro,
ma forse
è meglio così, soprattutto per quello che scriveranno un giorno su di loro,
in quei
libri che parlano della loro vita, piena di avvenimenti disgraziati,
io però
mi vedo poco depressa, poco violentata, poco alcolizzata,
poco
drogata, poco impazzita, insomma troppo poco per diventare famosa.
l’idea balorda dell’a capo
non sono
mai riuscita a togliermi di testa la voglia di usare l’a capo,
scrivo
una cosa e me lo dicono in tanti, che non c’è mica bisogno dell’a capo,
ma io lo
faccio lo stesso, dicono, sai non c’è bisogno che lo usi, non sono poesie,
e io
caso strano ce lo metto l’a capo, che mi è entrato nella testa e non vuole
andar via,
mi
dicono anche che se scrivo queste cose qui, che chiedono, sono prose? no, gli
rispondo,
sai,
sono quasi poesie, e allora l’a capo non è obbligatorio nella prosa, perché lo
usi?
non sono
mai riuscita a eliminare questo tic dell’a capo, scrivo una cosa e poi vado
giù,
e dicono
che quell’andare giù è superfluo, perché è una cosa che riguarda la poesia,
così un
giorno mi ci metto d’impegno, nel senso non d’impegnarsi, ma di sacrificarsi,
e provo
a non andare a capo, poi quando rileggo ci trovo ancora gli a capo, e mi chiedo
ma io
non li avevo messi? che strano, com’è che sono comparsi? dico a quelli che mi
dicono,
perché
metti l’a capo, sai che non serve per questi testi, tu come li chiami, poesie?
no, non
sono poesie, allora non ci va l’a capo, nel frattempo gli dico che sono
comparsi,
e giuro,
io non volevo, non volevo cambiarvi le regole, che non è poesia questa, è quasi
poesia.
i telegiornali, secondo me, non servono a
nessuno
secondo
voi i telegiornali, adesso come adesso, a cosa servono?
io me lo
chiedo spesso, il meteo, per esempio, a cosa serve saperlo?
non so,
basta che la mattina ti affacci alla finestra e vedi che tempo fa,
e se hai
il balcone fa lo stesso, la cosa non cambia poi molto,
poi, per
esempio, se per caso sai pure in che stagione sei, sai anche più o meno
se fa
freddo oppure caldo, ma se è un caldo umido o asciutto,
a che ti
serve saperlo? volete sapere come sono andate le cose al governo?
non si
sa che sono tutti bravi, operosi, che la crisi è rientrata,
che
quelli lì stanno facendo questo e quello? cos’è non lo sapete?
a cosa
serve sentirlo al telegiornale? volete sapere se è morto qualcuno?
o volete
sapere, come, perché, con chi e quando? no, perché se è così,
basta
sapere che ne muoiono fin troppi ogni giorno per malattie,
guerre,
omicidi, violenze o per negligenza dei
medici, magari per suicidio,
e non
c’è mica bisogno di sapere altro, poi dai telegiornali, perché volete saperlo?
io penso
che non ce n’è bisogno, che non ne abbiamo un vero bisogno,
ma se le
so io queste cose, che per fortuna non sono una giornalista,
e che
per lo stesso motivo, non sono neppure un genio in statistica,
né un
politico, figuratevi voi, voi anche lo dovreste sapere,
cos’è ce
ne siamo dimenticati? e allora che facciamo?
io
spengo la televisione, ecco cosa faccio, e voi?
mi prendo la libertà di quel che scrivo
e poi
questa storia della libertà io davvero me la sono sempre chiesta,
che ti
dicono che molte persone della tv, politici, soubrette, giornalisti, attori
e che
persino molti scrittori famosi, non sono liberi come quelli che non li conosce
nessuno,
perché a
loro manca di fare certe cose normali, come andare a fare una passeggiata da
soli,
farsi
fotografare solo quando vogliono loro, fare l’amore senza dire niente a
nessuno,
e che
allora la notorietà non è più una questione di libertà, se dicono, che più sei
noto
e più
perdi la libertà di fare certe cose, come le fanno tutti gli altri sconosciuti,
ma a
molti sembrerebbe una bufala, e allora non conviene essere famosi? lo dicono
tutti?
io
quindi me la sono sempre chiesta questa cosa qua, che forse uno è libero se non
è riconosciuto
è libero
se nessuno sa chi è, cosa fa e come vive, uno è libero se diventa invisibile,
e forse
è proprio una bella scusa, una bella invenzione ideata da chissà quale
creatore,
mah,
sarà, proprio un bell’affare la libertà, che uno però non è libero di diventare
famoso,
ma di
essere uno come tanti, uno in una massa indistinta di sconosciuti, così ti
dicono,
dunque
secondo me la libertà l’ha inventata un bravissimo scrittore.
il mio giorno della memoria
a me
questa storia della memoria non mi va giù,
la
memoria, a volte, è meglio che non ricordi niente,
una mia
amica aveva una memoria di ferro, quando gli dicevi una cosa
stava lì
a ricordare quando l’aveva già sentita, e a me veniva un gran mal di testa,
mi
dispiaceva di aver già detto quella cosa, ma quella volta lì non era come oggi,
e lei
non lo capiva, che io quando dico una cosa, e poi la ripeto anche,
non è
mai come la prima volta, è passato del tempo, sono passati dei pensieri,
ho fatto
delle altre esperienze, e anche se ho detto le stesse parole
nella
mia testa e nella mia vita, non sono esattamente gli stessi pensieri,
perché
non è mai come la prima volta, perciò a me questa cosa della memoria
non mi
piace affatto, e quindi avrei voluto che non ricordasse nulla,
questa
mia amica, che in fondo non c’è bisogno di una poesia per capirlo,
che non
conta solo quello che dici, ma anche quando lo dici,
perciò
il mio giorno della memoria, io ho deciso che non lo festeggio mai.
Ambra Simeone è
nata a Gaeta il 28-12-1982 e attualmente vive a Monza dove lavora. Laureata in
Lettere Moderne, ha conseguito la specializzazione in Filologia Moderna con il
linguista Giuseppe Antonelli e una tesi sul poeta Stefano Dal Bianco. La sua
prima raccolta di poesie “Lingue Cattive”
esce a gennaio del 2010 per Giulio Perrone Editore (Roma). Del 2013 è la
raccolta di racconti “Come John Fante...
prima di addormentarmi”. La sua ultima raccolta di quasi-poesie esce nel 2014 per deComporre
Edizioni con il titolo “Ho qualcosa da
dirti - quasi poesie”. È co-curatore de “Il Gustatore - quaderni Neon-Avanguardisti” che hanno ospitato Aldo
Nove, Giampiero Neri, Peppe Lanzetta, Giorgio Linguaglossa, Paolo Nori e molti
altri. Ha curato un progetto multi-antologico attorno al tema della scrittura
dal titolo “Scrivere un punto
interrogativo” edito da deComporre
Edizioni. Alcuni suoi testi sono apparsi su riviste letterarie nazionali e
internazionali tra le quali: l’albanese Kuq
e Zi, la belga Il caffè e
l’americana Italian Poetry Review.
Sue poesie sono apparse su diverse antologie tra le quali: Il Quadernario Blu per Lietocolle a cura di Giampiero Neri e Il rumore della parole per EditLet a
cura di Giorgio Linguaglossa. Ha organizzato diversi incontri poetici
collettivi, fa parte del gruppo dei Pentagrammatici
attivo nella provincia milanese. Sulla sua poesia si sono espressi: Gian
Ruggero Manzoni, Franca Alaimo, Giampiero Neri, Giorgio Linguaglossa, Claudio
Damiani, Nazario Pardini, Marzio Pieri.
mi lascia un po' perplessa.. devo tornarci e rileggere ancora..
RispondiEliminate e lei..
Poesie molto belle che mischiano stile semplice e sperimentale, mai incomprensibile. I testi sfruttano anzi il linguaggio infantile, a volte la successione di domande incalzanti tipica dei bambini per addentrarsi nella realtà, per passare dall'incanto al disincanto. Un saluto.
RispondiEliminaL'autoascultazione di Ambra Simeone ( così chioserebbero i pallosissimi accademici ), radicalizza -linguisticamente- il disimpegno impegnato portandolo alle estreme conseguenze: il sé e l'Altro, il Mondo, si sovrappongono, interloquiscono, si azzuffano amabilmente, prendono di nuovo le distanze, costeggiano la seriosità ma ammiccano immediatamente dopo alla palinodia che azzera qualsiasi tentazione filosofica o sentenziosa. Qui la ( le ) “verità”di Ambra Simeone si nutrono di souplesse linguistica subito distinguibile, assolutamente personale, soprattutto preoccupata -penso a suo merito- di dire e non certo di apparire : l'acribia del confidenziale intelligente.
RispondiEliminaLeopoldo è sempre Leopoldo: un maestro. Non esiste nessuno come lui, in Italia: è capace di "sputtanarti" con un minuto di ironia; o, come in questo caso, di innalzarti con due righe belle forti, decise, energiche. Ringrazio anche Stefano, con cui, chiaramente, sono d'accordo al 101%. Seguo Ambra e credo che la sua metodologia di lavoro "poetico" dovrà essere tenuta d'occhio in vista del futuro. Prosa e poesia, entrambe, o, ad essere idiosincratici alle categorie: poesie in prosa e prose in poesia. Questo scrive Ambra Simeone: poesie in prosa e prose in poesia.
EliminaCaro Leo la tua ricerca poetica ironica e dissacrante mi è da ispirazione sempre!
Eliminae io che mi aspettavo (come mi avevano detto) qualche rimprovero... ma siamo ancora in tempo, volendo... :-P
RispondiEliminaTi rimprovereremmo tutti se accettassi il consiglio di smettere di scrivere in versi. Fortunatamente non esiste individuo al mondo interessato a elargire un consiglio tanto assurdo. :-)
RispondiEliminaAmbra Simeone è tra le voci più intense del panorama poetico, italiano e non.
RispondiEliminaCara Giuseppina troppo buona! Sai quanto stimo il tuo lavoro poetico, meno male che sono in bella compagnia!
RispondiEliminaE' un mischione tra un Bukowski all'acqua di rose e un Paolo Nori senza quel palloso stile finto parlato.
RispondiEliminaMassimo
Ciao Valerio Gaio, non Massimo :-D
EliminaTrafori di un dissenso, queste poesie s'attaccano al campanello del cuore chiedendo numi al losco che tutti noi perplime con spregiudicata possanza e compagnona essenza.
RispondiEliminaMa basta quest'aura disincatata e autonoma a garantirci lirismo ?
In un mondo che disinvolto non è e vive di rimando?
Queste le domande che pone Ambra Simeone a tutti noi .
Noi siamo in grado di essere aldilà di tutti , siamo ancora in grado di interpretare il mondo senza demandarlo a wikipedia e Google Maps?
Sappiamo essere oltre una buona connessione Internet?
Sappiamo per dirla alla Carver orientarci con le stelle?
Forse no, però lo svagato e primitivo lunario della Simeone può essere un buon iniziio in attesa d'empirei migliori.
Un caro saluto.
Caro Raffello,
Eliminahai centrato il discorso, è tutta lì la mia poetica (se così si può chiamare) nel discorso che suscitano prima e dopo la lettura, le mie quasi poesie non sono liriche non vogliono esserlo, mi sembra che anche il lirismo sia diventato un luogo comune tra gli adetti ai lavori! Le mie poesie non ci sono esistono solo se qualcuno ci ragiona su. Grazie del tuo commento!