Dentro
uno spazio labirintico escheriano, tra il bordello e il manicomio, dove dentro
e fuori sono altrove inabitabili eppure inevitabili, Simmetrie degli spazi vuoti (Arcipelago, 2012) opera prima di
Mariasole Ariot, ci racconta la vita allo stato larvale, il corpo-frammento che
striscia nella sua tana, le sue relazioni animali, le sue reazioni all’erba,
all’alcol, al “polline maschio”, al rumore della testa, al suo “delirio secco”,
la sensazione d’essere morti eppure ugualmente in pericolo.
Diviso in quattro
capitoli, questa plaquette – sostenuta da Gherardo Bortolotti e Michele
Zaffarano – apre la piaga e la mostra dentro la carneficina del giorno, agìta
dalla parola-deriva e dalla consapevolezza dell’umano come di “mosche incollate
alle citazioni precarie”. Nessuno si salva, in questo libro, e nessuno è
condannato: lo stesso cognome Ariot, può essere letto, coniugando l’a privativa
greca con il sostantivo inglese, come
a-riot ossia assenza di lotta, rassegnazione. Nello specifico delle Simmetrie, l’io narrante, che si fascia
“per nascondere la putrefazione”, accetta l’inferno di uno spazio in cui i
silenzi “sporgono come fossero oggetti” e si mescola ad altri derelitti,
“piccole edere che invadono le stanze senza linfa”. Non c’è resistenza
all’annullamento, bensì un affidarsi alla parola come a una zattera senza
destinazione. Suggestivo allora tentare un altro equilibrismo, accostando riot
a griot, gli aedi della tradizione africana, con la differenza che questi
ultimi si fanno portavoce della cultura di un popolo, mentre la poetessa
vicentina, della cultura, racconta la fine, la maceria. Nondimeno, appunto, la
parola mantiene una valenza fondativa e al tempo stesso scandalosa, di pietra
d’inciampo (skàndalon, in greco). Invoca
infatti un recentissimo inedito, in un sincopato (qui e altrove) che ricorda
quello di Massimo Sannelli: “Fa’ della bocca un grembo, / fa’ che sia / grembo,
come il rito sonoro è ora / vuoto, ora, fa’ che sia: pietra”. E proprio gli
inediti ci confermano la forza di questo suo viaggio nel regno dei non-vivi, un
naufragio lucidissimo nell’eterno nulla, nel quale “animali molli / diventano
pioggia” e gli esseri più teneri si battono per non sparire, in delicato
martirio.
Da Simmetrie degli spazi vuoti
G. mi chiama: mi
hanno preso, saranno dieci saune e il nero scivolerà
dal corpo.
Vitamine, vapore, scollamento. I settari mi
prendono sotto
braccio.
Non farlo, ti
prego.
G. risponde: il
mio collo è già proteso.
Ritorno sulle
cose, il mio corpo rigonfia in verticale e non c’è
tensione.
Scambio, amori
liquidi, scelte interstiziali, questa casa è la mia
testa: cosa
attendo, cosa sono, cosa voglio. E aspetto la sera per
dimenticarla, mi
siedo fetale sulla soglia, ascolto viscerale con
l’occhio
collassato nella gola. Chiedo spiegazioni, ricevo carità.
I padri
dall’alto
cadono come
meteore.
Poi arrivano i
richiami che scartavo: i ragazzi leccano le tavole a
perdizione,
hanno labbra rosse e gambe veloci. Dall’alto
infilano sotto
la porta piccoli biglietti di umore, li sento strusciare
alle pareti,
ripetono un nome, il nome, il mio nome.
Piccole animelle
che sapete già il mondo, salvate la mia notte
da una notte, mi
sollevate piano, lanciate fili fino a raggiungere
la costola
maggiore, e poi tirate piano. Io apro la porta per
vedervi scomparire,
tappo le orecchie con due cuscini, avvolta
in un falso
sonno fingo di non sentire ma vi sento.
Dal fondo delle
scale dite: non ce ne andremo.
E così vi seguo,
ci attacchiamo alla bottiglia come a una mammella,
è una risata a
margine del mondo. Le giovani apparizioni
mi abbracciano
la testa. Poi, come mantidi, ci divoriamo.
Questi noi che
siamo voi, incontri come scintille e pullulare, inclinano
in caduta di
animale. L’alba arriva sul monumento, il chiarore
delle colonne
illumina i nostri volti bianchi, lei si appoggia
al vetro, stende
i suoi rami, parla con voce bianca. Lui scrolla la
testa, troppo
ubriaco per sentire, per gli occhi rossi trova un
rimedio: brucia
e non c’è verso di arrestarlo. Il battito è nel
fondo delle
dita, il suo volto non ha bordi.
Sulle scale un
tuono passa, ci addormentiamo fino a perderci
nel tempo. E
arriva il sogno.
Il cielo si
separa: al lato sinistro una partitura notturna, il lato
destro un blocco
di cemento, cappa estiva della terra.
C’incamminiamo
verso riva, poggiamo le sacche per riposare,
prepariamo i
letti come fossero cause – e ci attendiamo.
Nelle scatole
che portiamo al collo conteniamo le giunture, uno
ad uno ci
guardiamo, e il campo è pieno: uomini e donne come
fiumi
si preparano
all’arrivo di una crepa, noi ci separiamo.
Poi dall’alto
arriva, il lampo rosso acceca, precipita come una
scusa accelerata
e scava solchi nel terreno, apre spaccature e
genera alture
come volti.
Lavico
è il mio mondo.
Il cielo destro,
prima d’un chiarore stanco e ossessivo, si apre ora
al blu cobalto,
come un mare aggrappato al piano più alto le
nubi si
diradano, il rosso apre fenditure accanto ai piedi, sfiora le
teste, i piccoli
corrono al riparo. Con i due giovani, noi restiamo
immobili.
Ciò che ci
sfiora rigenera gli sguardi, specchio dentro specchio
la terra si
dilata. Non una guerra batteriologica, ma stravolgimento
primordiale, i
miei interni confondono gli esterni, senza
confini possiamo
ritrarci.
Padre, tra le
gambe non c’erano porte.
Inediti
Tra
gli edifici popolano eccezioni
muovono come riflessi sulla
fronte
del tempo - e i sassi
origliano
i segreti dei monti.
Per una sola immagine esiste
il lampo - e la collina e la
rosa
che apre il terreno : compi il
primo passo,
annuncia il raccolto.
Ma di quanto corpo
ci siamo creduti indegni
: l'indelicato fissa
la corda degli inattesi.
Dice "agli onnivori l'albero
ai cuccioli il grano"
Poi il canoro cielo scuce
dal becco i vermicelli nelle
bocche : cedi
il pasto al sonno, gli animali
molli
diventano pioggia.
**
Appese
alla città
le bestioline perdono in
tramonto,
fanno trama con i versi e tu
mi versi,
elimini la
Storia.
[La voce dice: portala nella
stanza, apri la carcassa, sfila l'insetto]
Mi appendo allora ai ganci
della sera,
a questa terra di innesti e di
sementi
che mastico e sputo, e mastico
e ancòra
sputo.
[La voce dice: sfila
l'insetto, apri due bocche, fa sparire i resti]
Ma la città che mi abita
dentro
torna a farmi visita ogni
notte
mostra i canini superiori che ha
perduto
e io mi perdo, si staccano i
bordi delle cose.
[La voce dice: vesti l'abito
rosso a lutto, metti una cornice al collo,
chiudi la stanza]
**
Mastica
ancora
le lumache che hai annegato.
Il tempo rigido
si pianta nella terra mentre tu: piangi
si pianta nella terra mentre tu: piangi
Strappa
una ad una le femmine della pianta: l’ascellare
una ad una le femmine della pianta: l’ascellare
si schiude, cresce il fiore.
Pianta
il pruno che ti ho dedicato, rigira le zolle
piano, non farmi deserto: piangi. il pruno che ti ho dedicato, rigira le zolle
Mariasole Ariot (Vicenza, 1981) vive e studia Sociologia a
Trento. Ha pubblicato Simmetrie
degli spazi vuoti (Milano,
Arcipelago 2013), La Bella e
la Bestia in AAVV, Di là dal bosco (Milano, Le voci della luna 2012). Sue
poesie e prose sono apparse su Nazione
Indiana, Il Primo Amore, Poetarum Silva, Gammm e Metromorfosi Infocritica. Ha composto musica e testo del
brano “Inversione” per il
disco A rotta libera del gruppo Forasteri e
collabora alla rivista scientifica lo
Squaderno - Explorations in space and society.
Suona il pianoforte e dipinge.
Penso che vi sia un malinteso attorno a questo libro, che si tratti cioè di poesia del corpo, da qualche parte tra la possessione mistica e la confessione femminile – solo così mi spiego la ricezione distratta della critica di fronte alla novità di un linguaggio poetico tanto incandescente quanto iperreale, di un poemetto unitario, calibrato, che ci rovescia addosso la portata fondativa dello stato d'eccezione per i s/oggetti contemporanei (noi). Ringrazio Stefano, allora, come lettrice e come autrice interessata, per aver posto questo primo importante tassello, e per avermi indotta a tornare al libro in questi giorni. Di cui trovo le dominanti nell'erosione dei confini, nell'esplorazione tesa, visionaria eppure nitida dell'esplosione dell'io fuori dai propri contorni (“tutto è fuori di me”, 21, “i miei interni confondono gli esterni”, 18), nelle metamorfosi del soggetto alla ricerca di nuova compattezza, con la sola fibra delle parole a tenere uniti, ad abbracciare, incollare gli esseri fragili che attraversano queste pagine. Mi ha, tra le tante cose, molto colpito il finale – sarà che vengo da un periodo di ricovero ospedaliero, dove, da paziente, ti accorgi non certo della solita perdita di dignità rappresentata in non so quanti malaccorti film, quanto della lotta (pur piegati, piagati, eviscerati, gonfi, mezzi infermi, si tengono, vogliono, provano) – con le sue parole di resistenza: “i rampicanti siamo noi che finalmente decidiamo di uscire”
RispondiEliminarenata
Un libro forte, piccolo nel formato, ma forte nel dire. Maria Sole Ariot appartiene a una generazione di nati dopo gli anni 70 in cui la rivolta è affidata a un no che è certo delle sue ragioni ma non trova abbastanza spazio perché quel no risuoni. I luoghi concentrazionari, siano ospedale o prigioni con le reti da cui uscire per rientrare ( essere senza mondo vuol dire molte cose insieme) impongono una realtà in cui pesano tantissimo le "piccole variazioni" e sono anzi "mutamenti radicali", ma ci ricorda, l'autrice, nel suo sapiente, dolorosissimo procedere, "Questi noi che siamo voi, incontri come scintille e pullulare…" in una proliferazione che sa infine, dai suoi bordi, negare la forza dei muri, anche arrampicandosi come "edere". Da un umanità inascoltata, tagliata fuori dai sogni di una socialità che forse seppe, ma per poco, farsi solidarietà, ecco un estremo atto di dignità; negare, ai guardiani, alla struttura che vorrebbe riempire il mondo con la coercizione, negare una centralità a cui la testimonianza prova a dare scacco.
RispondiEliminaMentre leggevo, cercavo di capire quel posto, non sapevo darvi nome, pensando da prima un CPT poi un ospedale… infine capirne la totalità che è dentro e fuori tanti di noi, forse di ognuno. I nostri luoghi totali, che la lingua non può sconfiggere, ma svelare si. E' un caso che pensassi tanto, mentre leggevo, a un libro come "Qualcuno volò sul nido del cuculo"? Eppure era lì, come una risposta. Anche se oggi cambiano i nomi, l'inferno è un paese dove noi nasciamo senza mondo, quello che il mondo non sa è che corpi e menti indifesi sono il primo indizio della sua malattia, del suo essere inospitale. Grazie Stefano delle tue riflessioni sempre importanti.
Ringrazio le due autorevole poetesse e critiche per la conferma che danno alla mia convinzione: Mariasole Ariot è tra le più brave della sua generazione e non solo.
RispondiEliminaPrima di tutto : grazie. A Stefano per avermi letta, per le sue parole, e per aver ritagliato un spazio per questo mio (tentativo di) dire, e a Renata e a Nadia che ne hanno proseguito la lettura.
RispondiEliminaSono occhi, i vostri, che attraversano quel (con)testo e lo guardano, aprendolo, da prospettive diverse ma dallo stesso interno : dialogano, aggiungendo o togliendo quel che io stessa non avrei saputo dire.
C'è - come scrive Stefano - quella sensazione di "essere morti eppure ugualmente in pericolo", come -esattamemte - "una vita al suo stato larvale", al grado zero. Ma c'è anche il no che non dice no alla vita, piuttosto che dice no al non dirsi : lo stato larvale cerca la metamorfosi, anche quando - e forse solo a condizione che - questa significhi urlo, pelle che si stacca dalla pelle per far uscire ciò che non può uscire. A volte lo stato larvale dura anni, a volte una vita, a volte sono necessarie ventisette mute, o ventisette pagine. O ventisette vite. Poi c'è una vita alare : é l'alare un sì? E' l'alare un corpo? Forse un spazio, lo spazio che sta tra uno stato e l'altro, tra un io e un tu, tra un non-io e un non-tu.
Perché se l'io/noi, come scrive Renata, va fuori dai propri contorni, è perché i contorni sfumano non per porosità ma per qualcosa che ne sfrangia i confini stessi : al grado zero, in quell'acqua rafferma che sembra dire solo : deriva, lasciarsi trascinare, c'è l'urlo delle macerie e un grido sotterraneo che cerca nella parola un filo che traccia i contorni della frammentazione, l'inferno come" paese in cui noi nasciamo senza mondo", come scrive Nadia : o forse, già fuori da una scena del mondo in cui non siamo.
Grazie davvero a chi mi ha letto e sentito.
Grazie Mariasole per questa articolata risposta, che evidenzia la tua consapevolezza riguardo alla poesia e alla vita.
RispondiEliminaautrice davvero molto interessante che ho cercato dopo aver letto alcuni suoi lavori su nazione indiana.
RispondiEliminada seguire.
ciao, iole
Sono d'accordo.
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